Omelia in ricordo di don Andrea Santoro

Il 5 febbraio, giorno del sacrificio di Don Andrea, è per me un giorno importante, perché in tutta la Chiesa si fa memoria della megalomartire Agata, patrona della mia città natale, Catania. È proprio vero: «Dio rivela nei deboli la sua onnipotenza e dona agli inermi la forza del martirio» (Prefazio dal comune dei martiri). Agata, una fanciulla nell’età dell’adolescenza, quattordici anni circa, in nome di Cristo ha subito violenze inaudite e con coraggio ha affrontato la morte; ma non si è piegata dinanzi a chi le imponeva di abiurare la sua fede, forte delle parole di Cristo:«Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna»(Mt 10,28). C’è un legame profondo tra il sacrificio di Cristo e il sacrificio dei martiri, il corpo di Cristo e il corpo dei martiri. Cristo ci ha riscattati dal peccato e dalla morte offrendosi sull’altare della croce come sacrificio di soave odore, ci ha purificati con il suo sangue. Il martire è colui che col prezzo del sangue ha confessato la fede in Cristo. In tal senso possiamo giustamente dire che c’è un patto di sangue tra Cristo e i credenti. «Nell’imitazione fino al martirio il cristiano opera la sua fusione con Cristo. La sequela conduce all’unione» (Mons. Luigi Padovese). Ho conosciuto don Andrea per un breve periodo, dal 1989 al 1993, al tempo in cui era parroco a “Gesù di Nazareth” e partecipava agli incontri della XII prefettura. Prima di assumere una nuova parrocchia ci disse che aveva chiesto al Cardinale Vicario, all’epoca Camillo Ruini, un anno sabbatico per andare in Terra Santa e in Turchia. Lo ricordo come un sacerdote profondamente convinto del suo ministero, ma a volte presentava i tratti di un estremista. Io tuttavia lo definirei meglio come un caparbio, nel senso che quando si convinceva della verità di un’idea, andava fino in fondo per vederla realizzata. Mi piaceva la sua capacità di coinvolgere la sua comunità parrocchiale in ogni iniziativa e in ogni evento celebrativo. A volte mi dava l’impressione di chi aveva sbagliato strada, perché rivelava da una parte i tratti dell’eremita e dall’altra quelli del missionario. Questa mia impressione è confermata dalla lettera scritta al Cardinale Ugo Poletti nel marzo del 1986:

«le alternative che mi si presentano sono un eremitaggio totale fatto di preghiera per la gente e di accoglienza; una disponibilità senza impegni giuridici ufficiali, fatta di Parola, di educazione alla preghiera, di direzione spirituale, di sostegno a chi è maggiormente lontano dalla fede[…]; una vita missionaria in situazioni meno rigide delle nostre, meno schematiche nell’impostazione, e quindi nelle domande e nelle attese».

In lui c’era il forte desiderio di ritornare nella terra delle origini del cristianesimo; un ritorno alle radici della fede e del suo sacerdozio. Ho letto nei suoi interventi in prefettura il desiderio di ritrovare nella terra dei Padri la freschezza del Vangelo e la vivacità delle chiese primitive. Il suo desiderio più profondo era quello di ritrovare un radicalismo evangelico. Sentiva impellente la necessità di una presenza tra le minoranze cristiane del Medio Oriente come segno di gratitudine alle chiese che ci hanno generato e di un rapporto

solido tra cristiani d’Oriente e cristiani d’Occidente. Aveva ben chiaro il fatto che la sua presenza in Turchia doveva misurarsi con il mondo musulmano. Ha sempre considerato i musulmani come amici e mai come nemici. Ciò che lo spingeva era una ricerca personale interiore, profonda, condivisa da alcuni. Fu durante un incontro del consiglio presbiterale, – credo nel 2003 – dove raccontò la sua esperienza, che mi divenne chiara la sua posizione come fidei donum mandato dalla chiesa di Roma alla Chiesa dell’Anatolia. Anche in quell’occasione ho letto il desiderio di convincere molti della bontà e bellezza della sua missione. La sua morte mi ha profondamente impressionato perché ha rivelato in profondità la carica profetica della sua esperienza. Come sempre e per tutti, solo alla fine si rivela la verità di una vita. Un profeta non ha progetti personali, ma è un uomo di fede che vive nella coscienza che il progetto della propria vita è nelle mani di Dio, e si affida alla sua Parola e alla sua promessa. Un giornalista un giorno chiese a Don Andrea quale fosse il sogno che affidava al Signore per gli anni a venire. Rispose:

“Il primo sogno è che i sogni di Dio si realizzino” e poi “che si realizzino piccole luci, minuscole luci, sparse qui e li, che rendano semplicemente presente il nome di Gesù e che siano piccoli fermenti di incontro e di riconciliazione, di dialogo, di mutua testimonianza fra ebrei, musulmani e cristiani, piccole comunità che risplendano in mezzo agli altri perché riunite dalla Parola, unite nella preghiera e alimentate dall’Eucaristia”.

La parola di Dio, gustata e vissuta nella terra di Dio, era il fuoco interiore che lo animava. Ha avuto il tempo di accendere questo fuoco, ma nell’accenderlo è divenuto lui stesso fiaccola ardente. Oggi cambierei la sua preghiera rivolta a Maria “Meryem anà” in un invito rivolto ai credenti:

Vai nella casa dove ti chiede di abitare. Vai nella terra dove ti chiede di andare. Vai tra gli uomini che ti chiede di amare. Vai nelle divisioni che ti chiede di sanare. Vai nei cuori che ti chiede di visitare.

Don Andrea – come lui stesso scrisse in un articolo per l’Opera Romana Pellegrinaggi , “La mia Turchia” – ha cercato «un luogo dove abitare con Dio e avere il tempo per ascoltarlo, per parlargli, per capirlo»; questo luogo l’ha trovato in Turchia e gli «ha lasciato un segno indelebile». Don Andrea ha offerto la sua vita perché Cristo potesse abitare a Trabzon. Sono certo che Don Andrea oggi vive tra coloro che “hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7,14), “seguono l’agnello ovunque vada” (Ap 14,4) e “portano il suo nome sulla fronte” (Ap 22,4).

Cambia impostazioni privacy
Torna in alto