Il perfezionista

In quali casi la voglia di fare bene, di essere efficienti, di conseguire un buon risultato, si traduce nell’idea fissa di non poter commettere alcun errore? Cosa distingue l’attenzione e la cura impiegate nella realizzazione di attività a cui teniamo, dalla frenesia di essere impeccabili?

Aspirare alla perfezione, vuol dire non accettare i propri limiti avendo aspettative elevatissime su  se stessi e sugli altri, significa aver bisogno di controllare sempre tutto e in ogni minimo dettaglio, far dipendere l’autostima e la considerazione di sé dall’approvazione altrui, ancora prefiggersi traguardi spesso irrealistici e/o irraggiungibili.

La controparte di un investimento di energie così cospicuo, è tuttavia, uno stato di perenne agitazione, insoddisfazione o frustrazione: il perfezionista non gioisce dei suoi risultati perché vi scorge sempre qualcosa che non va; si autocritica in modo severo, non sa delegare, non si risparmia e non si assolve; si deprime e si tormenta nella delusione di non aver fatto mai abbastanza bene; vive con rigore ogni aspetto della sua vita, imprigionando spesso in rigidi ed asfissianti schematismi, anche chi gli sta accanto. Quando si configura tale quadro comportamentale, siamo di fronte alla perdita del confine tra il legittimo desiderio di essere “capaci” o “abili” e … il dover essere “perfetti”!

Il perfezionismo,  pur non essendo considerato dai manuali psicodiagnostici come patologia in sé, è espressione di alcune condotte tipiche del narcisismo, del disturbo ossessivo-compulsivo, delle dipendenze affettive, dei disordini alimentari.  

Come spesso accade, ciò che viene mostrato all’esterno è l’esatto contrario di quanto si sperimenta interiormente. Così, dietro la bramosia di eccellere e di essere infallibili, si cela un profondo vissuto di insicurezza e di inadeguatezza, che mai ci si è potuti permettere di far vedere.

Una predisposizione al perfezionismo, è rintracciabile nei tratti caratteriali della precisione, meticolosità, assiduità o anche nell’avere uno spiccato senso del dovere e di responsabilità, ma ci sono pure delle influenze educative da non sottovalutare: l’essere giudicati; il venire costantemente paragonati agli altri (fratria, compagni di scuola, amici); l’essere spinti solo alla competizione (in famiglia, a scuola); non ricevere lodi incondizionate per l’impegno investito ma essere riconosciuti in positivo/negativo, solo per i risultati ottenuti; considerare gli errori come un fallimento; non comprendere il valore dello sbaglio come esperienza per l’apprendimento futuro; valutare le prove fine a se stesse senza cogliere lo stato d’animo con cui sono state vissute; colpevolizzare; esprimere delusione; etc. Tutto questo non è di aiuto per sviluppare l’autostima, tantomeno la fiducia in se stessi.

Il confine tra normalità e patologia è spesso più sottile di quanto si pensi e, certi atteggiamenti sottovalutati, possono essere invece indicativi di un disagio interiore.

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