Il Carnevale di Palermo del 1799 nel racconto di Giuseppe Pitrè

Nel 1799 come nella tradizione più attesa, si festeggiò a Palermo il conosciutissimo e animato evento carnascialesco. All’antica manifestazione, già in auge sin dal XVI sec. parteciparono personaggi mascherati dalle molteplici movenze e dai variegati costumi che tra le note intense della Tubiana, una musica da ballo tradizionale, raggiunsero le principali zone del centro storico. Infatti, a coronamento, dell’articolata festa, al fine di intrattenere le folle assiepate, si svolgevano sia nei popolari quartieri e sia nelle principali piazze, differenziate rappresentazioni folcloristiche. E mentre la festa impazzava, in contemporanea, un coinvolgente corteo, si apriva lungo il principale asse viario cittadino: il Cassaro, l’odierno Corso Vittorio Emanuele. In realtà, la sfilata dei sontuosi Carri di Carnevale, una sorta di gara tra i nobili: principi, marchesi e duchi, le celebri “carrozzate”, scivolava sfarzosamente, lungo la strada più antica della città, al seguito di diversificate maschere a tema, in un vero tripudio di folla. La festa volgeva al termine l’ultimo giorno di carnevale con l’impiccagione del fantoccio del “Nannu” a Piazza Vigliena, quest’ultima, comunemente chiamata i “Quattro Canti”. Nell’apparato simbolico, la morte del vegliardo (sia per bruciatura oppure per impiccagione, N.d.R.) un evento propiziatorio in retaggio di un antico rito pagano, rappresentava la giustizia sommaria del Carnevale. Così, anche il carnevale del 1799 fu ascritto negli annali festivi palermitani e ricordato come per le altre edizioni, per la sua popolarità, la magnificenza e lo studio coreografico. Ho rispolverato per l’occasione un “classico” di Giuseppe Pitrè “La vita in Palermo cento e più anni fa” estraendo dal Cap. I – Feste sacre e profane, civili e religiose – l’argomento relativo all’antico carnevale, e con piacere lo propongo ai mie lettori. 

Giuseppe Pitrè “La vita in Palermo cento e più anni fa”. – Feste sacre e profane, civili e religiose –

…Tra le ridde della tubiana e le ebbrezze dei ridotti, tra lo scompiglio dei carri e le misurate movenze del “Mastro di campo”, correva sbrigliato, frenetico, il Carnevale. Un paio di tamburini, qualche piffero, uno, due uomini che battevan le castagnette, raccoglievano intorno a loro una folla disordinata di maschere popolari: re, regine, caprai, pulcinelli, orsi, mastini, inglesi ubbriachi, dottori e baroni imparruccati, turchi neri come pece, vecchie armate di fusi e di conocchie. Al ripicchiar degli strumenti i sonatori eccitavano a balli paesani, a salti mortali, a corse sfrenate ed a smorfie e sdilinquimenti. Con un arnese formato da una serie di regoli a X mobili di legno una maschera faceva giungere fino ai secondi piani lumie e fiori ad amiche ed a parenti: era lu “scalittaru”. Un’altra offriva in un elegante cartoccio confetti e in una nastrata boccettina sorsate di liquore delizioso: era un azzimato spagnuolo. Altra maschera si affaticava a guadagnare i gradini d’una scaletta a piuoli, sostenuta da due compagni: e dopo mille contorcimenti e dinoccolature stramazzava goffamente per terra: era il “pappiribella”. Quest’accolta di maschere, guidata dalla infernale orchestra, era appunto la “tubiana”; la quale per “lazzari”, “mammelucie”, “papere”, “ammucca-baddottuli”, e d’ogni strana maniera travestimenti accrescevasi all’infinito. Tutto un dramma comico svolgevasi alla Fieravecchia e in altre piazze: il Castello, parodia del Conte di Modica “Bernardo Cabrera”, che diede la scalata allo Steri (oggi Palazzo Tribunali in piazza Marina) per impadronirsi (gennaio 1412), vecchio libidinoso, della giovane e bella Regina Bianca di Navarra, vedova di Ferdinando: era il “Mastro di campo”2. Mentre siffatti spettacoli animavano i quartieri dell’Albergaria e della Loggia, di Siracaldi e della Kalsa, sontuosi carri salivano e scendevano pel Cassaro e per la Strada Nuova, gremiti di altre maschere raffiguranti scene mitologiche, storiche od anche fantastiche. Il “Trionfo d’amore”, secondo Petrarca, meritò il plauso dell’unico giornale del tempo. Cosa non mai vista le carrozzate del Principe di Pietraperzia e del Principe di Paternò, del Principe di Gangi Valguarnera e del Marchese Spaccaforno Statella, del Duca di Caccamo Amato e del Duca di Sperlinga Oneto. Precedute da strumentisti a piedi e da soldati a cavallo, lanciavano alle aristocratiche spettatrici sui terrazzini (balconi) scatolette ed alberelli, ed a larghe mani sulla folla plaudente confetti gessati3. Appena principiato il secolo XIX, nel Martedì grasso del 1802, anche Ferdinando volle prender parte ad una di cotali carrozzate spargendo confetti di eccellente fattura, mentre gli altri che lo accompagnavano ne lanciavano finti4. Altre maschere di altra levatura popolavano le case private con le eterne distinzioni di classi; ché, tra le nobili non erano ammesse le civili, e queste non avrebbero osato invitar quelle.

2 PITRÈ, Usi e Costumi, v. I, pp. 26-27.

3 Novelle Miscellanee, p. 19. – VILLABIANCA, Diario, in Bibliot., v. XXVI, pp. 8-12; Diario ined., a. 1787, p. 58; a. 1793, p. 59; a. 1800, p. 399.

4 CREUZÉ DE LESSER, Voyage en Italie et en Sicile, p. 107. A Paris, MDCCCVI.

Solo per eccezione il Principe di Paternò Moncada, che nella sua sconfinata grandezza aveva slanci fuori la propria cerchia, ammise alcune volte maschere del medio ceto nel suo palazzo; come la sua villa (quella che era intesa «Flora di Caltanissetta») non isdegnò di aprire, oltre che ad esso, al ceto dei plebei: il che ci fa ricordare del Vicerè Colonna di Stigliano, che migliaia di maschere d’ogni classe accolse nel Regio Palazzo e tutte volle servite da camerieri e da credenzieri vestiti da pulcinelli5. Anche pel Carnevale il secolo si chiudeva in forma eccezionalmente sontuosa. Erano i Sovrani in Palermo, e la eccezionale sontuosità partiva appunto da loro. La sera del 18 febbraio a nome del Re il Capitan Giustiziere Principe di Fitalia invitava la più alta Nobiltà della Capitale ad una festa da ballo al R. Palazzo. Nell’invito si permetteva «qualunque sorte di maschera di carattere, dominò, e bautta», sotto la quale sarebbe stato «lecito portare dei fiacchi», o “giamberghe”, aggiungeva uno di coloro che ricevettero la partecipazione.

La festa doveva principiare alle 2, ma poté esser popolata solo alle 4 dopo mezzanotte, tale fu la difficoltà degli invitati di farsi strada pel piano del Palazzo. Che eleganza di maschere! Che splendore di costumi! Che varietà di figure, l’una più bella, più curiosa dell’altra! L’occhio si confonde nel seguirne le mosse e gli atteggiamenti solenni, irrequieti, civettuoli. Questa che fa da “pacchiana” di Ischia è la Contessa di Belforte, Isabella Paternò, moglie del Marchesino di Villabianca. Con che grazia regge ella il suo cestino di frutta… della Martorana!6 E con che profondo, dignitoso inchino ne presenta al Re!… E le son compagne altre “pacchiane” di Napoli: la Principessa di S. Giuseppe, Barlotta; la Principessa di Iaci, Reggio; la Principessa di Valdina, Papè; la Principessa di Sciara, Rosalia Notarbartolo. Altre, attempatelle, sono Costanza Pilo,

5 VILLABIANCA, Diario, in Bibl., v. XXVI, pp. 8, 12, 121-122.

6 Dolci composti di pasta di mandorle, che prendono ancora nome dal monastero, dove particolarmente si manipolavano.

terza moglie di Benedetto di Villabianca, ed Annetta Vanni, parente di lei. Ecco i quattro Elementi della Natura: “l’Aria” è la Duchessa di Ciminna, Grifeo; “l’Acqua”, la Marchesa di S.a Croce, Celestre; la “Terra”, la Marchesa delle Favare, Ugo; il “Fuoco”, la Principessa di Castelforte, Mazza. Ma non procedono sole; tien loro compagnia “Eolo”, il cav. D. Antonio Chacon; “Nettuno”, il Marchese Salines Chacon; “Titano”, il marito della Celestre; “Vulcano”, il Principe di Cattolica, Giuseppe Bonanno; il “Ciclope” Sterope, D. Andrea Reggio, ed altri ed altri ancora. Con i quattro elementi della Natura sono anche le Quattro Stagioni dell’anno e tutte le deità dell’Olimpo pagano. Dove più fervon le danze piovono cartellini in onore quando di questa e quando di quella deità. Prendiamone uno: è in versi francesi in onore di una vaghissima mascherina di “Cerere”, che non si riesce a indovinare, ed alla quale tengon dietro un Sileno, un Pane e pastori e pastorelle che intonano note d’amore:

Cerés vient de quitter ses riants campagnes,

Elle arrive au milieu de ses belles compagnes;

La déesse des fleurs, et celle des jardins,

Elle vient prendre part à ces brillantes Festins.

Silène, ausi que Pan, et bergers et bergères,

Ont délaissé leurs bois, leurs rustiques caumières:

Tous chantent de concert, par un élans d’amour7.

A periodici ridotti carnevaleschi si aprivano sempre i teatri: e poche delle persone che il potessero vi mancavano. La varietà dei travestimenti non era da meno dello sfoggio degli abiti d’entrambi i sessi. I balli si succedevano ai balli, non turbati mai da poveri mortali, che con la origine modesta ne tentassero le sublimità inaccessibili. Quei ridotti si ripetevano a brevi intervalli, e se ne contarono fino a una dozzina in una sola stagione. Molto prima del

7 VILLABIANCA, Diario ined., a. 1800, pp. 94-100, 151-63.

tramontare del secolo il costante buon successo di questi divertimenti persuase certo Cristoforo Di Maggio a costruire nel piano della Marina, rimpetto la Casa Calderone (una volta Castelluzzo, ora Fatta), una grande baracca di tavole solo per balli e spettacoli del tutto carnevaleschi. Era un teatro con ampia platea, con posto per due orchestre, ottantaquattro comodi palchi e logge in due ordini, parati con velluto cremisi, specchi e fiorami d’argento, a spese di ciascuno dei signori che s’erano impegnati per proprio conto. Vi si tennero da quindici tra veglioni e giuochi cavallereschi, ed una specie di circo equestre, con campeggiamenti di dame accorsevi fin dentro la platea con quattro carri tirati da mule bianche e assedî e assalti di torri tra cristiani e turchi. I forestieri «non poterono fare a meno di confessare che la veduta di tal ridotto fu sorprendente, a segno che in tutto il mondo non può darsi l’eguale». Lo afferma il Villabianca, che non uscì mai dalla Sicilia, e non abbiam modo di controllare i giudizî ch’egli raccolse dagli stranieri residenti allora a Palermo. L’intervento di persone non titolate, consentito dalle Autorità e dalla natura dello spettacolo, allontanava qualche anno la vera e genuina Nobiltà; ma i veglioni si mantennero nel costante favore del pubblico, recando non lieve vantaggio alla cassa del Comune, che pur ne destinava gl’introiti alla Villa Giulia8. Il Santa Cecilia godè anche per questo speciale rinomanza, e non fu persona di riguardo che non ammirasse maschere e danze elette, non indegne della presenza di Vicerè e di grandi dignitarî. Ma così al Santa Cecilia come al Santa Caterina la sera del Martedì grasso era una gazzarra indiavolata di strumenti da scherno per l’accompagnamento tradizionale del canto e della recita degli artisti. Secondo gli umori del Vicerè e le inclinazioni spenderecce o parsimoniose di Capitani Giustizieri abolito ripreso, il giuoco del

8 Diario, in Bibl., v. XIX, pp. 198-99; v. XVIII, p. 244; v. XXVI, p. 157; v. XXVII, pp. 243-44.

toro trionfava nel classico piano della Marina, suscitando indimenticabili emozioni in tutta la cittadinanza9. Più clamorosa ancora, anzi vero baccanale, l’impiccagione del “Nannu” nella Piazza Vigliena: giustizia sommaria del Carnevale, personificato in un vecchio stecchito, che si menava al supplizio col corteo di popolani camuffati da Bianchi: altra parodia delle esecuzioni criminali con finto corrotto e con nenie, che volevan ritrarre le reputatrici o prefiche10. Scenate funebri simili, ma con particolari più strani, si perpetravano prima, a mezza Quaresima, nella Piazza di Ballarò segandosi il fantoccio di una megera mostruosa, fetida. Era l’immagine della magra, uggiosa, insopportabile Quaresima, tiranna impositrice di sacrifizi corporali, motteggiata in satire, indovinelli, giuochi di parole, e seguita, vedi contrasto! da una fioritura di devozioni e di spettacoli religiosi vuoi pubblici, vuoi privati11

9 Diario ined., a. 1793, p. 59 e così negli anni 1795 e 1796.

10 Vedi in questo volume il cap. sulla Giustizia; e nel precedente il cap. XXIII.

11 PITRÈ, Usi e Costumi, v. I, pp. 98 e 107.

Foto a corredo dell’articolo, Panorama di Palermo 1860

G. Longo, 2016 “Il Carnevale di Palermo: una storia lunga almeno cinquecento anni”

G. Longo, 2016 “Il Carnevale di Termini Imerese: un’antica eredità venuta da Palermo?”

G. Longo, 2016 “Il Carnevale di Termini Imerese non è il più antico di Sicilia”

Giuseppe Longo
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