25 Aprile: il discorso del Presidente Mattarella

Rivolgo un saluto al Sindaco, ai cittadini di Carpi, al Presidente della Regione, a Germano Nicolini, al Professor Prosperi, ringraziandoli per i loro interventi. Un saluto alle autorità presenti, del Governo, del Parlamento, ai Sindaci. Un saluto particolare – mi consentirete – ai bambini delle prime tre file e al coro e alla banda che hanno eseguito magistralmente il nostro Inno nazionale.

E’ quanto mai significativo celebrare, quest’anno, l’anniversario della Liberazione qui, a Carpi, in una terra che, durante gli anni della dittatura, fu ricca di sentimenti e di fermenti antifascisti, e che ha, poi, vissuto con intensa partecipazione la guerra partigiana.

Nell’Appennino modenese, subito dopo l’8 settembre, si costituirono i primi gruppi di resistenti. Giovani e meno giovani, civili e militari, socialisti, monarchici, comunisti, cattolici, liberali, azionisti, si unirono nella lotta contro l’oppressione.

Una scelta che costò un alto tributo di sangue: a cominciare dalla strage di Monchio, Susàno, Costrignano e Savoniero dove la barbara furia degli occupanti tedeschi sterminò, per rappresaglia, 136 civili, compresi bambini in tenerissima età.

La Resistenza scrisse, tra queste montagne, pagine luminose di storia, come quella, breve ma gloriosa, della Repubblica di Montefiorino, una delle prime zone libere d’Italia. Uomini di diversa provenienza, come Osvaldo Poppi, Mario Ricci, il generale Mario Nardi, Teofilo Fontana, Ermanno Gorrieri, furono tra i protagonisti di questa avventura collettiva. Scrisse Gorrieri ricordando l’esperienza vissuta a Montefiorino:

«Non si trattò soltanto di una zona liberata, in quanto soggetta all’occupazione delle forze partigiane, ma di un’anticipazione del ritorno a una vita democratica, attraverso le elezioni delle amministrazioni comunali democratiche».

Resistenza, dunque, come lotta al nazifascismo, ma anche come embrione della nuova democrazia. Resistenza come primo, essenziale momento per la riconquista della libertà.

Oggi a Carpi intendiamo particolarmente onorare, con la presenza e con il ricordo, le vittime di uno dei luoghi simbolo, in Italia, di quella violenza che la lucida follia del nazifascismo aveva eretto a sistema: il campo di Fossoli.

In quelle baracche di legno, a pochi chilometri da qui, si consumò un atto decisivo della tragedia umana e familiare di migliaia di persone: perseguitati politici, oppositori del regime, ebrei, uomini della Resistenza.

Ricordo qualche nome, per ricordarli tutti: Leopoldo Gasparotto, Teresio Olivelli, Primo Levi, Nedo Fiano, Odoardo Focherini, don Paolo Liggeri, don Francesco Venturelli.

Vanno ricordati Carlo Bianchi, Jerzy Sas Kulczycki, Giuseppe Robolotti e tutti gli altri martiri, sessantasette in tutto, fucilati nel poligono di tiro di Cibèno.

Nomi, provenienze, destini diversi. Storie di eroi e di vittime, di coraggio, di morte, di solidarietà. Tutte insieme, esprimono appieno il senso dell’unitarietà della tragedia che l’Italia visse in quegli anni.

Con le sue fasi diverse il campo di Fossoli è parte rilevante della storia italiana. Un luogo della memoria tra i più peculiari e importanti nel nostro Paese, che un’opera, doverosa e meritoria, ha recentemente salvato dall’incuria e dall’oblio.

La mancanza, a Fossoli, delle camere a gas e dei forni crematori non deve trarre in inganno: anche questo campo in terra italiana faceva parte, purtroppo a pieno titolo, del perfezionato meccanismo di eliminazione fisica dei cosiddetti nemici interni, dissidenti politici o appartenenti a razze follemente considerate inferiori.

Con i suoi reticolati e le sue baracche, con i suoi macabri simboli – la stella gialla per gli ebrei, il distintivo rosso per i prigionieri politici – il campo di Fossoli era a tutti gli effetti una tragica tappa decisiva per la deportazione nei lager nazisti in Germania e Polonia. Da Fossoli – nodo ferroviario strategico – partirono dodici treni della morte con destinazione Auschwitz, Buchenwald, Bergen-Belsen, Mathausen, Ravensbruck.

Per molti italiani – circa cinquemila – Fossoli fu il primo passo verso l’abisso. O, come disse con grande efficacia il reduce Pietro Terracina, «l’anticamera dell’inferno. Un inferno per chi è morto nei lager e un inferno per chi è sopravvissuto».

Primo Levi, che fece tappa a Fossoli prima di giungere ad Auschwitz-Birkenau, scrisse a proposito della repressione nazifascista:

«Il nazismo in Germania è stata la metastasi di un tumore che era in Italia. Il lager era la realizzazione del fascismo. Non mi stanco mai di ripetere che dove il fascismo attecchisce, alla fine c’è il lager».

Il lager: incarnazione, metafora e sbocco inevitabile di un’ideologia che aveva fatto della sopraffazione, della discriminazione, dell’oppressione e della guerra la sua stessa ragion d’essere.

Non si può comprendere la Resistenza, il suo significato, la sua fondamentale importanza nella storia d’Italia se non si parte dalla sua radice più autentica e profonda: quella, appunto, della rivolta morale. Una rivolta contro un sistema che aveva lacerato, oltre ogni limite, il senso stesso di umanità inciso nella coscienza di ogni persona.

Teresio Olivelli, nobilissima figura di martire della Resistenza, la cui storia dolorosa ha incrociato il campo di Fossoli, scrisse:

«La nostra è anzitutto una rivolta morale. È rivolta contro un sistema e un’epoca, contro un modo di pensiero e di vita, contro una concezione dell’esistenza».

Una rivolta custodita, inizialmente, nell’animo di una minoranza, da pochi spiriti eletti, uccisi, perseguitati o isolati durante i lunghi anni del trionfo fascista. Ma che riuscì a propagarsi, dilagando tra la popolazione, dopo che gli eventi succedutisi all’8 settembre resero evidente, anche a chi si era illuso, anche a chi era stato preda della propaganda fascista, quanto fallaci fossero le parole d’ordine di grandezza, di potenza, di dominio, di superiorità razziale diffuse dal regime. Quanto esse contrastassero con i valori della dignità umana propri della nostra tradizione e della nostra cultura.

Il velo della propaganda si squarciò: e agli occhi degli italiani apparve un Paese distrutto moralmente e materialmente, un esercito in rotta, una classe dirigente in fuga o, peggio, asservita a un alleato trasformatosi in atroce e sanguinario oppressore.

Le stragi di civili, le rappresaglie, le fucilazioni e le impiccagioni, le torture, la caccia agli ebrei, le deportazioni, i lager. Nel momento dell’estrema difficoltà, il regime mostrava il suo volto più feroce e più vero.

Il maggiore dei carabinieri Pasquale Infelisi, prima di essere fucilato, a Macerata, dai nazisti per il suo rifiuto di passare nelle file repubblichine, scrisse:

«Non si può aderire a una Repubblica come quella di Salò, illegale da un punto di vista costituzionale e per di più alleata a uno straniero tiranno. (…) L’Arma, in tutta la sua gloriosa storia ha difeso sempre le leggi dettate da governi legalmente costituiti e ha protetto i deboli contro i prepotenti. Invece adesso si doveva fare l’opposto: difendere i prepotenti contro i deboli. Per i miei sentimenti civili, militari, e per la mia fedeltà all’Arma, accettare una cosa simile con un giuramento di fedeltà l’ho ritenuta un’azione indegna e umiliante».

Come si comprende da queste parole, così nobili, non moriva la Patria in quei giorni, luttuosi e concitati. Tramontava, invece, una falsa concezione di nazione, fondata sul predominio, sul disprezzo dell’uomo e dei suoi diritti, sull’esaltazione della morte e sulla tirannide; una concezione di barbarie, che pure, per numerosi anni, aveva coinvolto tanti e affascinato tante menti.

Il popolo italiano, nel suo complesso, seppe reagire alla barbarie. Recuperò gli ideali di libertà, di indipendenza, di solidarietà, di fratellanza, di umanità, di pace che avevano ispirato i migliori uomini del Risorgimento.

Vi fu una reazione diffusa e corale. Vi furono le avanguardie che, prendendo le armi, costituirono le formazioni partigiane.

Vi furono i militari italiani che, come a Cefalonia, si ribellarono al giogo tedesco, pagando un altissimo tributo di sangue, o che combatterono accanto ai nuovi alleati, nel nome degli ideali, ritrovati, di libertà e democrazia.

Vi furono quei più di seicentomila soldati, che rifiutarono di servire l’oppressore sotto il governo di Salò e che vennero passati per le armi, torturati, deportati nei campi di prigionia in Germania.

Vi furono gli operai che scioperarono nelle fabbriche, gli intellettuali che diffusero clandestinamente le idee di libertà, le donne che diedero vita a una vera e propria rete di sussistenza per partigiani, perseguitati e combattenti.

Vi furono uomini liberi che sbarcarono nell’Italia occupata e versarono il loro sangue anche per la nostra libertà. A questi caduti, provenienti da nazioni lontane, rivolgiamo un pensiero riconoscente. Il loro sangue è quello dei nostri fratelli.

Tra questi non possiamo dimenticare i 5000 volontari della Brigata Ebraica, italiani e non, giunti dalla Palestina per combattere con il loro vessillo in Toscana e in Emilia-Romagna.

In tante famiglie italiane c’è una storia, grande o piccola, di eroismo. Chi salvava un ebreo, chi sfamava un partigiano, chi nascondeva un soldato alleato, chi consegnava un messaggio, chi stampava al ciclostile, chi ascoltava una voce libera alla radio: si rischiava la propria vita e quella della propria famiglia.

Perché lo facevano? Coraggio, ideologia, principi morali, senso del dovere, disillusione, pietas umana, senso comune… Tante e diverse furono le storie, tante e diverse le motivazioni.

L’insieme di tutte queste fu la Resistenza. Ed è per questo che, ancora oggi – senza odio né rancore, ma con partecipazione viva e convinta – ricordiamo quegli eventi così tragici e pieni di valore, senza i quali non vi sarebbe l’Italia libera e democratica, senza i quali non avremmo conosciuto una stagione così duratura e feconda di sviluppo civile, di promozione dei diritti, di pace.

Risaltano, nella loro nobiltà e nel loro significato, le parole e il comportamento eroico di Angiolino Morselli, o di Giacomo Ulivi, le cui parole sono preziose. Io stesso le ho più volte ricordate incontrando scolaresche e studenti, perché sono un richiamo alla civiltà, al senso della convivenza e al valore della democrazia.

Ci illumina ancora Primo Levi:

«Se il nazionalsocialismo avesse prevalso (e poteva prevalere) l’intera Europa, e forse il mondo, sarebbero stati coinvolti in un unico sistema in cui l’odio, l’intolleranza e il disprezzo avrebbero dominato incontrastati».

Oggi, anche di fronte alla minaccia di un nemico insidioso e vile, che vorrebbe instaurare, attraverso atti di terrorismo, una condizione di paura, di dominio, di odio, rispondiamo, come allora, come negli anni settanta, che noi non ci piegheremo alla loro violenza e che non prevarranno.

Autorità, cittadini di Carpi,

poche settimane fa un cittadino tedesco di nome Wolfgang Weil, è venuto appositamente dalla Germania su questi monti per chiedere scusa a nome di suo padre, che, come soldato della Divisione Göring, nota per la sua brutalità, prese parte all’eccidio di Monchio.

È stato, il suo, un gesto di riconciliazione nobile, coraggioso, di grande valore, apprezzato.

Le sue parole: «Se i discendenti delle vittime e i discendenti dei colpevoli si incontrano e parlano dell’inafferrabile, forse, allora, le ferite ancora esistenti in questo luogo possono guarire. È per questo che sono qui».

Weil, cittadino tedesco e d’Europa, ha così concluso: «Mai più fascismo, mai più guerra».

Sono parole che facciamo nostre, oggi, celebrando la ricorrenza della Liberazione, con lo sguardo e la volontà rivolti al domani in un’Italia libera e democratica, in un’Europa libera e democratica, unita e quindi in pace.

Auguri per il 25 aprile. Viva l’Italia!

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