Eppure son passati 25 anni…

In quel lontano 23 maggio 1992, soffiava un leggero vento a Palermo.
Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo facevano ritorno a casa dopo aver passato alcuni giorni a Roma per le indagini in corso.
Volevamo solo andare riposarsi dopo il viaggio. Ma qualcuno dall’alto di Cosa Nostra aveva deciso che no, non avrebbero riaperto mai più la porta della loro casa.
Falcone e Borsellino avevano dato fastidio al clan mafioso più forte di tutti i tempi e, dopo la sentenza della Cassazione che chiudeva il Maxiprocesso con la condanna all’ergastolo per più di 350 uomini, le sorti dei due magistrati erano state già decise.
Dal racconto di alcuni pentiti, le ricostruzioni venute a galla mettono i brividi: si parla di possibili attentati in quel di Roma, poi non riusciti; per finire con l’«attentatuni», fortemente desiderato da Totò Riina e la fine .
E in un attimo, la lotta dello Stato alla mafia svanisce in una colonna di fumo, mentre il vento spazza via gli ultimi aneliti di vita di Falcone, della moglie Francesca e dei tre agenti della scorta, anche loro morti sul colpo: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Attimi, forse secondi e la vita di cinque persone spezzata per sempre per un meccanismo malavitoso, che continua a macchiare la nostra bella Sicilia.
Falcone, qualche tempo prima dell’attentato, era stato chiamato in tv e da persona che non aveva paura di nulla, aveva mostrato grande attenzione alle domande che gli erano state poste, ma una sola risposta raggelò il sangue nelle vene di quanti italiani erano sintonizzati quel giorno: «Per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese»; il magistrato sapeva che le indagini portate avanti insieme all’amico Paolo Borsellino lo avrebbero portato a morte sicura, e ancora peggio ci sarebbe arrivato in un baleno mentre il resto dell’Italia continuava a restare indifferente.
Quel pomeriggio, non appena la notizia della strage di Capaci fu resa nota, i detenuti del carcere dell’Ucciardone festeggiarono contenti che uno dei due colpevoli della loro ormai segnata permanenza in prigione fosse stato fatto fuori. Chissà se non nutrivano la minima speranza di rimettere piede fuori! Ma lo sdegno dell’opinione pubblica fu tale che anche le elezioni del presidente della Repubblica: il favorito Giulio Andreotti venne scartato a favore di Oscar Luigi Scalfaro, eletto due giorni dopo l’attentato di Capaci (anche qui notevoli punti interrogativi rimarranno insoluti).
Nulla da quel momento fu più uguale: la strada divelta, i colpi senza vita di quelle cinque persone e l’apprensione per chi ancora respirava e lottava per sopravvivere furono immagini che lasciarono l’Italia senza parole.
Solo un uomo aveva preso coscienza di quanto pericolo avesse intorno: Paolo Borsellino, che piano piano aveva deciso di allontanarsi dalla sua famiglia, venendo ucciso esattamente cinquantacinque giorni dopo, davanti al portone di casa della madre, in quel caldo mattino del 19 luglio. Insieme a lui tutta la sua scorta.
E da allora la Sicilia non ha più saputo dimenticare. E non lo farà, perché la mafia va combattuta, in memoria chi ha perso la vita per ridare un volto sereno e veritiero alla nostra Terra.

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