Il futuro dell’aeronautica nella Grande Guerra

Il 17 dicembre 1903 a Kitty Hawk, nel North Carolina due ingegneri statunitensi, i fratelli Wilbur e Orville Wright, dopo ripetuti collaudi e innumerevoli esperimenti, riuscirono a far decollare il primo aliante a motore della storia. Infatti, dopo i precedenti tentativi mediante i prototipi, Flyer I, Flyer 1903 o Kitty Hawk, il biplano Wright Flyer, l’antesignano aereo motorizzato più pesante dell’aria, prendeva il volo. Come ebbe a dire il pilota Orville Wright dopo l’atterraggio: “Fu un volo di 12 secondi, incerto, ondeggiante e traballante… ma fu finalmente un vero volo e non una semplice planata”. L’episodio avvenuto nella cittadina americana fu la pietra miliare dell’aviazione. In realtà, incominciava da quel memorabile evento la storia dell’aeronautica e in particolar modo dell’aeronautica militare di Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Russia, Francia e Italia. Abbiamo rivolto all’ingegner Francesco Fortunato (1) la seguente domanda: “Che impulso diede la Grande Guerra allo sviluppo dell’aeronautica militare?”.

«Quando si parla di aeronautica della Prima guerra mondiale, è ancora diffusa l’immagine dei trabiccoli in legno e tela appesi a un motore scoppiettante e appena in grado di stare in aria. C’è poi il mito del Barone Rosso, Manfred von Richthofen, “asso degli assi” con le sue 80 vittorie, e degli altri “cavalieri alati” a cominciare dal nostro Francesco Baracca, a cui furono attribuiti 34 abbattimenti. In realtà, il pregiudizio è in buona parte falso. In parte perché i mezzi aerei venivano già da diverse prove d’impiego e da almeno un’esperienza sul campo: quella degli italiani in Libia contro le forze turche nel 1911. Ma, soprattutto, perché la lunga e sanguinosa guerra fece evolvere in fretta mezzi e tecniche d’impiego. A cominciare dai ruoli. La ricognizione fu il ruolo principe affidato al mezzo aereo fin dai primi giorni del conflitto. Oltre alla ricognizione a breve raggio all’interno delle linee nemiche, e a quella “d’artiglieria”, gli italiani inventarono la ricognizione strategica, grazie agli SVA (Savoia-Verduzio-Ansaldo), veloci e armati in modo da poter tenere testa alla caccia austro-ungarica e con autonomia tale da poter penetrare a fondo nel territorio nemico. Queste macchine furono protagoniste del celebre Volo su Vienna, del 9 agosto 1918, fortemente voluto da Gabriele D’Annunzio, che prese parte alla missione in qualità di “passeggero” di uno dei biplani trasformato, per l’occasione, in biposto, rimuovendo le mitragliatrici.

La Grande Guerra vide la trasformazione delle produzioni aeronautiche, che da puramente artigianali divennero vere realizzazioni industriali in grande serie. Il complesso industriale italiano, alla fine del conflitto, era diventato in grado di produrre 6500 aerei l’anno, e alla data dell’armistizio aveva realizzato 11.000 esemplari. Metà della produzione nazionale di aeroplani e fino all’80% di quella di motori era concentrata in Piemonte. Tuttavia nel corso del conflitto diverse iniziative industriali sorsero in diverse parti d’Italia, compreso il Meridione. Oltre al citato SVA, l’industria nazionale produsse i trimotori da bombardamento Caproni Ca-3 e i suoi derivati, forse i migliori dell’intero conflitto, e impiegati su tutto il fronte italiano e anche per massicci attacchi verso le piazzeforti di Pola e Fiume. Ma forse è interessante descrivere alcune evoluzioni tecnologiche che spesso non si associano alla Prima Guerra Mondiale, e che pure proprio in quegli anni furono sviluppate e messe in servizio. Già nel 1915 i ricognitori addetti ad “aggiustare” il tiro dell’artiglieria furono dotati di emittenti radio telegrafiche a bordo. Infatti, i vari tentativi di comunicazione con le forze di terra tramite messaggi lanciati, fumogeni o evoluzioni codificate erano falliti o si erano rivelati scarsamente affidabili e l’emittente a bordo risultò l’unica soluzione valida, per quanto complessa, per inviare informazioni alle batterie addette al tiro in maniera rapida e precisa. Montare le trasmittenti e addestrare gli osservatori fu solo il primo passo: fu necessario installare una rete di stazioni di ricevimento e di linee telefoniche che le collegassero tra loro e con i reparti d’artiglieria attivi al fronte. In risposta, nacque l’embrione della guerra elettronica, sotto forma di tentativi di interferire con il segnale trasmesso dagli aerei nemici, per opera delle stazioni di terra che, se identificavano un segnale telegrafico nemico, provavano a disturbarlo emettendo ad alta intensità sulla stessa frequenza.

Lavoro sull’involucro di un dirigibile italiano in un hangar

I dirigibili Zeppelin tedeschi, così come i dirigibili italiani Crocco e Forlanini, nelle versioni più evolute erano in grado di salire fino a 6000 metri, dopo essersi alleggeriti del carico di bombe, per sparire nella notte sfuggendo alla reazione della caccia e della contraerea nemiche. I voli notturni erano, infatti, una pratica ordinaria, nelle notti di luna per i bombardieri plurimotori come i Caproni italiani, in quelle senza luna per i dirigibili, più lenti ma capaci di trasportate un carico offensivo maggiore. Il primo collimatore ottico a riflessione, in sostituzione del mirino a visuale libera, fu realizzato in Germania nel 1918 e testato su caccia del tipo Albatros D.Va e Fokker Dr.1, due tipi di macchine impiegati, tra gli altri, dal Barone Rosso. E’ in pratica l’antenato degli attuali HUD, visori dati “a testa alta” presenti su tutti i jet da combattimento. I caccia Albatros tedeschi erano realizzati con struttura “a semiguscio” in legno, in cui il rivestimento rigido collaborava alla robustezza della struttura. I tedeschi furono anche i primi a impiegare profili alari spessi, ad esempio sul Fokker D.VII, verso la fine del conflitto. Si tratta di fondamentali progressi strutturali e aerodinamici che avrebbero dato i loro frutti con le costruzioni in metallo e con l’ala monoplana a sbalzo, molti anni dopo. Negli ultimi mesi di guerra i piloti alleati cominciarono a fare uso di bombole d’ossigeno, per sopperire ai problemi del volo ad alta quota, come risulta da documenti statunitensi. I leggeri caccia del tempo operavano, infatti, fino a quote di 6000 metri e oltre, dove gli effetti dell’altitudine sull’organismo umano diventano importanti, soprattutto nelle condizioni di stress prolungato quali sono le missioni di guerra. Nei piani di evoluzione della caccia italiana per il 1919 erano citati dispositivi di puntamento con correzione d’errore, corazzatura, protezione antincendio dei serbatoi, serbatoi supplementari sganciabili. Queste innovazioni, suggerite dalle esperienze della guerra, furono purtroppo dimenticate e, oltre vent’anni dopo, all’inizio di un nuovo conflitto mondiale, i caccia della Regia Aeronautica dovettero essere frettolosamente dotati di protezioni per il pilota, non inizialmente previste a progetto. Finora si è parlato dei mezzi. Ancora più evidente del livello di sviluppo raggiunto è la formalizzazione delle tattiche d’impiego, a dimostrazione che la necessità guidano l’evoluzione, meglio delle impostazioni teoriche. Il discorso di come i fondamenti pratici e teorici della guerra aerea siano nati nella “Grande Guerra europea” non è tuttavia nuovo e molto si è parlato e scritto a riguardo. Le azioni “di massa” che coinvolgevano molti reparti e grosse formazioni in azioni coordinate, divennero la norma sul fronte occidentale e, di riflesso, su quello italiano. Ebbe inizio anche la pratica della guerra psicologica. In riferimento all’aeronautica italiana, il “Volo su Vienna” fu senza dubbio l’esempio più eclatante, ma continui erano i lanci di volantini e materiale propagandistico sulle zone al di là del Piave, occupate dagli austro-ungarici: erano spesso lo scopo prioritario delle azioni di “bombardamento” aereo.

Nel luglio 1918 fu inoltre istituita, nell’ambito dei servizi aeronautici del Regio Esercito, la “Sezione servizi speciali”, con il compito di portare agenti infiltrati al di là delle linee nemiche, rifornirli, raccogliere informazioni e consentirgli la fuga quando necessario, un impiego più che moderno del mezzo aereo. Le elaborazioni del generale Giulio Douhet, di origine casertana, sul “potere aereo”, ovvero sull’impiego di larghe formazioni di bombardieri contro obiettivi all’interno del territorio nemico, precorsero i tempi e influenzarono a lungo lo sviluppo dell’aeronautica. Invece, a livello più pratico, le istruzioni per la caccia che Manfred Von Richtofen, il “Barone Rosso”, raccolse nel “Manuale operativo di combattimento aereo”, evidenziarono innanzitutto l’importanza di “briefing” e “debriefing”. “Prima di ogni decollo, senza eccezione, bisogna discutere lo scopo della missione. La discussione prima del decollo è importante almeno quanto quella dopo la missione”. Spiegavano poi come la tattica, la disciplina e l’impostazione del combattimento fossero assai più importanti della capacità di compiere acrobazie: “Se la missione non ha successo, in 99 casi la colpa è da imputare all’aeroplano che la guida”. […] Quando viene avvistata una formazione nemica, l’aeroplano al comando deve aumentare la velocità. Questo momento deve essere avvertito immediatamente da tutti i piloti dello stormo, solo così uno stormo numeroso non si disgrega. […] Non attribuisco molto valore alla perizia nel volo in se stessa. Ho abbattuto i miei primi 20 [avversari] quando ancora avevo molte difficoltà a volare. Non è importante essere un campione acrobatico. Preferisco chi sa volare effettuando solo virate a sinistra, ma si lancia all’inseguimento del nemico, allo specialista delle picchiate e delle giravolte proveniente dal [centro di addestramento di] Johannisthal, che però attacca con troppa cautela. “Sopra il campo d’aviazione è proibito: fare looping, figure acrobatiche e giravolte a bassa quota”. “Non abbiamo bisogno di acrobati aerei, [ci servono] invece uomini audaci”. In Italia il documento più rilevante in questo senso fu la “Istruzione provvisoria d’impiego delle squadriglie da caccia”, redatta da Pier Ruggiero Piccio nel 1918. Il confronto con il manuale tedesco evidenzia come sul fronte italiano gli scontri riguardassero formazioni molto più piccole rispetto a quanto avveniva sul fronte occidentale, tuttavia, il testo di Piccio identifica con precisione i ruoli della caccia, con un’organizzazione che è valida tutt’oggi. Si vede fin dalle premesse: “L’aviazione da Caccia ha tre compiti essenziali: 1° Permettere che i nostri aeroplani da ricognizione, da artiglieria, da bombardamento possano esplicare il loro mandato. 2° Impedire che il nemico possa fare altrettanto. 3° Partecipare ai combattimenti terrestri”. Ritorna poi il tema della disciplina di volo: “Nella pattuglia gli apparecchi terranno la formazione a triangolo: il capopattuglia in testa. Gli altri rispettivamente a destra e a sinistra indietro e sopra il capopattuglia”. […] La formazione deve essere nei limiti del possibile mantenuta anche durante il combattimento, deve in ogni caso essere ripresa subito dopo. […] Ricordare che non bisogna mai abbandonare la formazione per attaccare da solo».

(1) Francesco Fortunato, è nato a Napoli nel 1971. Ingegnere Aeronautico lavora dal 1999 alle dipendenze di una grande impresa in qualità di specialista nel calcolo numerico. Impegnato nel volontariato, è appassionato di musica, tecnologia e storia, in particolare storia dell’aeronautica. Ha aperto e gestisce il blog “Fremmauno”, un sito di “storia aeronautica meridionale”. Collabora con l’Università Federico II di Napoli (Facoltà di Ingegneria) e altri studiosi di aviazione. Scrive articoli e organizza conferenze.

Testi consultati da Francesco Fortunato:

B. Di Martino, “L’Aviazione Italiana nella Grande Guerra”, Ed. Mursia, 2011

P. Varriale, “Caccia, istruzioni per l’uso”, in “I Quaderni della Rivista Aeronautica” n. 2/2007

P. Klduff, “Il Barone Rosso – la vita e le opere di Manfred Von Richtifen”, Mondadori 2003

R. Callegari, “Il Fronte del Cielo – Guida all’Aviazione nel Veneto durante la Grande Guerra”, ISTRIT Treviso, 2012

Foto 1 Idrovolante italiano Macchi L.3, da ricognizione e bombardamento leggero

Foto 2 Caproni Ca.4: bombardiere pesante trimotore italiano

Foto 3 Lavoro sull’involucro di un dirigibile italiano in un hangar

Foto 4 Pilota a bordo di un caccia Nieuport

Giuseppe Longo
giuseppelongoredazione@gmail.com
@longoredazione

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