La “Nanna” partoriente del Carnevale di Palermo… ed altre cose

La storia del Carnevale di Palermo non finisce mai di sorprenderci, non solamente per la sua articolata e variegata manifestazione, un tempo presente e puntuale nella città capoluogo, ma anche per l’intrinseca allegoria che ogni maschera – personaggio, che partecipava alla kermesse otto-novecentesca racchiudeva in sé. La festa carnascialesca, nota sin dall’epoca vicereale, era tanto importante per le istituzioni cittadine di allora che il Viceré di Sicilia, Don Pedro Téllez-Girón y Velasco Guzmán y Tovar, III duca di Ossuna, ordinasse nei giorni prestabiliti, che tutti i partecipanti indossassero la maschera, imponendo pene ai trasgressori.

Erano note a quel tempo le maschere di “Mastro di Campo” e “Pulcinella”, quest’ultimo costume importato dal Regno di Napoli. Le sfilate erano coronate da caratteristici e coreografici intrattenimenti: il “ballo dei pidocchiosi”, il “duello dei gobbi”, e la “tubbiana”. Nella prima metà del XIX secolo,  all’arcinota festa popolare, che culminava con la passerella delle carrozzate, fu anche partecipe un ospite illustre, Leopoldo di Borbone, fratello di Ferdinando II re delle Due Sicilie. In quel periodo facevano bella mostra di sé anche altri costumi carnascialeschi: l’Oca, il “Barone di Carnevale”, “mamma Cucchiara”, “l’ammucca baddottuli”, il “dottore”, lo “zanni”, il “barone”, la “morte”, la “vecchia”, lo “spagnuolo”, il “turco”, “l’inglese”, finanche un costume caratteristico, la “Maschera dello Scalittaru”.

Un altro fantoccio, il “Nannu”, rappresentava il Carnevale in persona. Il vecchio dalla faccia rubiconda era accompagnato dalla sua sposa, la magrissima e vecchissima “Nanna”. Questi due vegliardi, insieme con altri personaggi carnascialeschi, furono tanto decantati dall’etno-antropologo Giuseppe Pitrè, nel suo “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”. Ciò nonostante, in questa mia ricerca, mi piace segnalare una caratteristica peculiare della figura della “Nanna”. Tale particolarità, peraltro inconsueta, è certamente degna di attenzione perché costituisce per i Carnevali di Sicilia, un altro tassello da aggiungere alla storia dell’etnoantropologia.

Nel capitolo “carnevale siciliano” della sua opera “Feste tradizionali”, il giornalista, scrittore e critico d’arte, Arturo Lancellotti (1877-1968), si fa una disamina relativamente a questa festa, fornendo notizie di prima mano sulla kermesse palermitana agli inizi del XIX secolo. E’ doveroso ricordare che il Lancellotti fu brillante corrispondente negli anni Trenta del XX secolo di numerose testate giornalistiche (Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia e Corriere d’Italia). Lo studioso, ci fornisce un dettaglio preziosissimo: durante le annuali sfilate, non di rado la “Nanna” si mostrava in pubblico “gravida, con una pancia di volume mai visto”. Pertanto, questa notizia del Lancellotti sulla “Nanna” “moglie, pregna” del “Nannu” viene a rafforzare ciò che già Giuseppe Pitrè, riportava nel suo “Usi e costumi”.

Il Pitré, infatti, associava alla figura della “Nanna” la presenza di un ulteriore personaggio carnevalesco, un infante che la donna recava in braccio. Alla luce di ciò, potremmo ravvisare nella figura della “Nanna” – gravida, un remoto legame con gli antichi culti pagani legati alla fertilità. Inoltre,  ci sembra opportuno inserire a coronamento dell’articolo, la foto del carro allegorico palermitano, che il Lancellotti definisce “automobile”, risalente al lontano 1906. L’immagine in oggetto, è tratta dalla precitata meritevole opera del Lancellotti. Il carro carnascialesco immortalato aveva l’emblematico titolo: “La Pace”, quest’ultima, evidentemente, a quell’epoca già traballante in Europa, a causa della corsa alla colonizzazione che portò a ben due crisi internazionali: le cosiddette “crisi marocchine”; determinandone una serie di contrapposte alleanze, che anticiparono gli schieramenti degli Stati nella Prima Guerra Mondiale.

Infine,  dato l’esaustivo argomento trattato da Arturo Lancellotti riguardo al Carnevale di Sicilia, in particolar modo quello del nostro capoluogo, mi è sembrato appropriato che i lettori conoscano anch’essi ciò che Palermo fu capace di mostrare nel suo Carnevale di “una volta”, e per viva voce dello stesso autore. Appunto per questo, ho pensato di far conoscere quanto scritto dal Lancellotti, ed edito nel 1951, presentandolo con immenso piacere ai miei “cinque” lettori. Il testo del Lancillotti verrà suddiviso in più puntate che saranno trattate in più articoli e che verranno pubblicati su questa testata on-line.  

Anche in Sicilia, come dovunque, il carnevale se n’è andato. Dove sono più quelle comitive di maschere che, fino a trent’anni fa, potevano ancora incontrarsi per le vie di Palermo, lungo il vecchio Cassaro e i Quattro Canti? Erano Pulcinelli col “colascione” e il Mastro di Campo, erano colombine che divertivano per ore ed ore protagonisti e spettatori. E per le strade si poteva assistere al “ballo dei pidocchiosi” o al “duello dei gobbi”, alla “tubbiana”, allo morte del “Nannu e della Nanna”. Allora il Vicerè indiceva giostre nelle quali la nobiltà offriva al popolo meravigliosi spettacoli. Tanto si teneva a questo periodo di festa che una volta un Vicerè, il duca d’Ossuna ordinò, nei giorni designati, la maschera per tutti, comminando pene ai contravventori. E per primo diede l’esempio, andando mascherato per Via Cassaro, con altri signori, in mezzo al popolo.

In tempi più vicini, il principe Leopoldo, fratello di re Ferdinando II, prendeva parte vivissima alle carrozzate; e tirava e riceveva confetti e confettacci democraticamente.

Fra le maschere più comuni c’erano l’oca e il Pulcinella. L’oca era diffusissima: se ne incontravano a Palermo intere comitive, candide e gracidanti. Bastavano, infatti, per i travestimento, due lenzuola e due cannucce. Anche il Pulcinella, importato da Napoli, era popolare come l’oca per lo stesso motivo della grande facilità di rappresentarlo mediante una mezza maschera nera e una camicia da notte.

I “pulcinelli” andavano a gruppi di tre o quattro, col colascione; ma, più pratici delle altre maschere, giravano per le botteghe cantando qualche strofetta. Essa, se invece che a un bottegaio si rivolgeva a una bottegaia, era galante. Raccoglievano, così, denari o doni, di commestibili.

Questi Pulcinelli si mostravano inesauribili nel cantare le lodi delle persone da cui volevano qualche regalo. Benedetto Rubino ci riferisce più d’uno dei loro complimenti rimati, detti innanzi alle bettole, alle macellerie e alle altre botteghe. Uno di essi, munito di colascione, strumento musicale accordato in diapente, si accompagnava col suonare di “putipù” e con quello di cembalo. La triade era formata, ed allora il primo pulcinella, rivolto al pastaio diceva:

Principaleddu miu, di lu me cori

Apposta vinni cu stu calaciuni

Pr’assaggiari ssi vostri maccarruni

 

E tutti e tre, in ringraziamento, dopo aver ottenuto un po’ di pasta:

Principaleddu miu, chinu d’amuri

Ti vogghiu beni assai particolari,

Eu su lu servu e tu si lu patruni;

Si tu cumanni mi vulissi dari,

Su prontu di sirviriti a tutt’uri,

Ammazzaratu mi jttassi a mari.

 

Seguivano altri stornelli indirizzati alla cantiniera:

 

I Pulcinella

La vogghiu beni assai la incanti nera

Misura in modu ca mi fa la scuma,

E ogni quartucciu m’arrobba du’rana.

II Pulcinella

Ciuri di linu!

Na turturedda cun l’occhiu baggianu

T mancanu l’aluzzi ‘tra lu schinu.

III Pulcinella

Ciuri di Linu!

Ca vucca asciutta lu’ parrari è vanu;

Sintemu comu tratta u vostru vinu.

 

Quando si erano bagnati i gorgozzuli, ringraziavano ancora una volta e continuavano il cammino, presentandosi successivamente al macellaio, alla fruttivendola, al salsamentario, ecc., finché, sopraggiunta la sera, si congedavano con questi versi:

Scura la sira,

E sbulazza la taddarita amara,

La gaddinedda a giuccu si ritira.

 

Questi stornelli, o meglio “ciuri”, dei quali il Pitrè fa una categoria speciale (canzuni di carnalivari), nella forma in cui son recitati, con l’intervento di tre pulcinelli che stabiliscono tra l’uno e l’altro una relazione, rappresentano un tentativo di farsa «forma che s’accosta alla drammatica».

Il “barone di carnevale” dovette nascere nell’ultimo secolo, quando, cioè, la parrucca bianca, la giamberga e le calze di seta erano passate di moda: ed è probabile che il popolino ne abbia fatto un travestimento carnevalesco per dileggio. Il “barone” era l’eroe di una farsetta o mimo carnevalesco, del quale i personaggi erano due “baroni gobbi” e una dama – naturalmente rappresentata da un giovane vestito da donna – I due baroni si contendevano la dama a suon di legnate sulle loro gobbe, ballando al ritmo di un grosso tamburo. Questo ballo, che si chiamava “l’abballu d’i pirucchiusi e d’i jimmuruti”, nell’ultima forma settecentesca (da ciò gli attori si dicevano baruni) doveva discendere da latri più antichi. Il Villabianca, infatti, lo ricorda col nome di “duello dei Lazzari”, ai suoi tempi travestiti alla spagnola.

«Io giovinetto – dice Maurus – conobbi l’ultimo epigone di tali balli, per antonomasia chiamato ʼu baruni; e forse il nome di “Cortile dei tre baroni” che ha un chiassuolo di Palermo deriva dalla dimora fattavi dai più celebri attori della danza». La mascherata, della quale non si sa l’origine né l’etimologia del nome, e la “tubbiana”. La parola è ancor viva quando si vuole indicare una signora vestita in modo chiassoso: “Pari na tubbiana”. Da ciò potrebbe dedursi che “tubbiana” non fosse la comitiva, ma il personaggio principale di essa. Questa comitiva non aveva limite numerico ma ne facevano parte integrante alcune maschere tipiche, come la “mamma Cucchiara”, armata di mestolo, “l’ammucca baddottuli”, il “dottore”, lo “zanni”, il “barone”, la “morte”, la “vecchia”, lo “spagnuolo”, il “turco”, “l’inglese”.

La maschera del “Mastro di Campo”, poi, rossa, aveva il labbro inferiore cascante. Mastro di campo era anticamente un alto grado dell’esercito, equivalente a colonnello o generale di brigata. La maschera che prendeva questo nome si arrampicava sopra una scala, al rullo di un tamburo, donde il vecchi adagio “mastru di campu e tammurinaru”. Negli ultimi tempi la mascherata pare si riducesse a questi due personaggi; ma forse anticamente era più numerosa. Essa rappresentava il vano assalto dato da Bernardo Cabrera allo Steri per impadronirsi della regina Bianca. Nella tradizione popolare il conte di Modica era passato appunto con quel volto acceso di brama e il labbro di caprone.

Una volta la rappresentazione più completa si chiamava il “giuoco del Castello. Si costruiva realmente un castello di legno dipinto, sul quale stava una regina o un re. Ma i combattenti, immedesimati della loro parte, se le davano sul serio. Per questo, e per l’alto suo costo, il castello fu smesso.

A tali mascherate, quasi ufficiali e di prammatica, se accompagnavano altre più umili e popolari che non avevano nomi derivanti da fatti storici, nomi destinati a tramandarsi di generazione in generazione ed a diventar luoghi  comuni nei discorsi quotidiani. Caratteristiche erano le maschere dei monaci. Si trattava di omaccioni barbuti che camminavano con certi strani libri di devozione nelle mani e certe bisacce piene di agrumi e ortaggi. « Se tu sei amico – narra un cronista del tempo – appena ti scorgono aprono il libro e ti danno la santa benedizione; quindi ti regalano un mandarino o un finocchio, o qualche altra cibaria».

«Può darsi che, invece di offrirti cose mangerecce, dopo la benedizione, a un tratto, ti piantino in viso l’orifizio di una canna vuota che loro serve di bordone e ti accechino con un buffo di crusca negli occhi.

Carnalivari, carnalivari

Ti li mangiasti li maccarruni

Senza agghiu, senza Sali

Figghiu miu, carnalivari.

 

«In mezzo a queste maschere ve ne hanno alcune provviste di “scaletta”, uno strumento curioso che occorre descrivere. La “scaletta” è un ordigno combinato con asticciole di legno, che si allunga e si accorcia. Con essa le maschere possono procurarsi il piacere di porgere una cartocciata di confetti alle ragazze dei primo piani della case» (1)

Oggi è caratteristica, nelle città dell’interno dell’isola,la cavalcata costituita da una lunga fila di contadini a cavallo, vestiti nelle fogge più strane e guidati spesso da una specie di cantastorie popolare. Molto pittoresca è pure la “Moresca siciliana”, una sorta di ballo mascherato, oramai quasi scomparso, che ricorda le guerre fra maomettani e cristiani combattute nel medio Evo. Principali maschere del carnevale siciliano sono il barone, il dottore, il negromante, la spagnuola, e una specie di pantalone dal vestito carico di sonagli.

Nell’antico carnevale siciliano, come in quello napoletano, milanese e genovese, persisteva la deplorevole usanza di tirare in faccia al prossimo aranci ed uova, e di gettare sui passanti polvere di gesso e acqua fetida. In sicilia, dove tali giuochi durarono più a lungo, si conserva ancora un bando del I° febbraio 1499, col quale il Capitano Giustiziere di Palermo vieta che «alcuna persona, così cittadina come forestiera, presunta giocare a “carnalivari” con arangi e acqua o altro modo, sotto pena di onza una da applicarsi alle maramme della città».

Un altro bando, in data 20 gennaio 1518, proibisce che si giuochi a “carnalivari” «tanto da grandi quanto da ragazzi, ad aranzi, a caniglia, o ad altro giuoco, eccetto le donne dalle finestre con acqua pulita».

(1) Questa scaletta, come abbiamo visto parlando del carnevale romano, la si trova nelle feste carnevalesche d’ogni regione d’Italia

Giuseppe Longo
giuseppelongoredazione@gmail.com
@longoredazione

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