Quando la malattia cambia la vita: un docufilm al Cefalù film festival

Alla terza edizione del Cefalù film festival partecipa con un corto che racconta la storia di un giovane che ha fatto della malattia un’occasione per creare valore nella sua vita. La regista è Livia Parisi, giornalista professionista e videomaker, laureata in storia contemporanea. Ha iniziato a lavorare presso la tv locale Roma Uno e da allora ha sempre prediletto tematiche sociali. L’abbiamo intervistata.

Chi è Livia Parisi e come nasce la passione per il cinema e per il cortometraggio in particolare?
Giornalista professionista e videomaker, laureata in storia contemporanea, ho iniziato a lavorare presso la tv locale Roma Uno e da allora ho sempre prediletto tematiche sociali. Nella vita mi sono confrontata  con tutti  i mezzi di comunicazione,  dalla tv alla radio, dal settimanale al giornale online, fino all’agenzia Stampa. Senza mai però dimenticare l’amore per il linguaggio delle immagini e in particolare per il racconto del reale. E’ a partire da qui che ho realizzato brevi documentari sui rom, la disabilità, la salute mentale, l’emergenza abitativa. Il cinema mi è sempre piaciuto: già al liceo ricordo i pomeriggi trascorsi nei cinema d’essai per vedere film di Bergaman, Greenway, Bunuel. L’interesse per i corti è invece  più recente ed è nato… facendoli. Lo trovo il modo migliore per arrivare a più persone possibile, perché la velocità lo rende di più facile accesso. Fare un corto però è difficile, perché richiede capacità di sintesi e quella di rinunciare a scene e immagini. Ma proprio rinunciando a qualcosa, si può rendere più intenso ciò che resta.

Qual è il lavoro che presenti alla terza edizione del Cefalù film festival?
La versione cortometraggio del docufilm ‘Gli anni più belli. Così la malattia ha cambiato la mia vita’ (2017) che parla di come un giovane, Giacomo Perini, sia riuscito a utilizzare una malattia (un tumore che lo ha costretto ad amputare una gamba), in una occasione per creare valore nella sua vita.  Giacomo porta a riflettere su come ognuno di noi si confronti con il tema della malattia e con la paura di incontrarla nel corso della vita. A spingermi verso questo documentario è stato soprattutto il desiderio di mostrare una trasformazione personale, di raccontare una storia in cui il tumore non è solo una sfortuna o una cosa da nascondere, ma un’occasione di cambiamento. In questo momento stiamo portando il corto nelle scuole e nelle università nell’ambito di un progetto didattico che prevede l’incontro con il protagonista.

Hai un particolare progetto al quale sei particolarmente legato?
Ne ho tanti, ma forse quello che mi è molto a cuore è il documentario “Casa Nostra”(2014) che  racconta di un gruppo di senza casa che decide di occupare una scuola abbandonata, una soluzione estrema per far fronte a quella che è diventata una vera e propria emergenza. Quello che ne è venuto fuori non è però solo la storia di persone in cerca di un tetto, o di come il nostro Paese non sia in grado di garantire questo diritto essenziale. E’ anche la storia di un esperimento sociale basato sulla multietnicità. Ed è, infine, la storia di singoli occupanti, che abbiamo seguito passo dopo passo, nelle loro gioie e nei loro problemi quotidiani, a volte anche dettati dalla difficoltà di convivere in un’occupazione.

Giri il mondo. C’è un paese al quale sei maggiormente legato e perchè?
In ogni paese in cui vado trovo qualcosa di profondamente mio e intesso una relazione di appartenenza che mi fa sempre desiderare di tornare, a Cuba come in Turchia, in Marocco come in Portogallo. Ma se dovessi indicare un posto in cui mi sento a casa, direi senz’altro la Germania, o meglio Berlino. Una città a cui mi lega una affinità elettiva fatta di letteratura, architettura storia, oltre che tante amicizie. Qui ho studiato durante il periodo universitario, qui si sazia il mio senso di appartenenza.

Cosa pensi della situazione del cinema indipendente?
Più che l’offerta credo manchi la risposta da parte del pubblico: un po’ per mancanza di fondi, un po’ per mancanza di cultura cinematografica: la gente in genere cerca prodotti di ampia diffusione. Anche in questo in Germania c’è una sensibilità diversa.

Quali difficoltà si incontrano per emergere nel mondo della cinematografia?
Pochi fondi, ma soprattutto poca sensibilità da parte del pubblico a prodotti più di nicchia. E allo stesso tempo troppo ancora si fa per amicizie e conoscenze.

Che messaggio senti di lanciare agli organizzatori del Cefalù film festival?
Di prevedere. Di aprirsi al documentario o, per usare una definizione più attuale, al Cinema del Reale! Prevedere una sezione per le narrazioni cinematografiche in cui i protagonisti interpretano se stessi, il finale è aperto e il processo di riprese lascia all’improvvisazione la libertà di scrivere, almeno in parte, la sceneggiatura.

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