Gli Arditi: storia di uomini e di coraggio. Genesi, storia, gesta e armamenti

Durante la Prima Guerra Mondiale il nostro esercito impiegò piccoli nuclei operativi per condurre rischiose incursioni. In realtà per arginare una situazione d’immobilismo che si era creata sui campi di battaglia, ossia la logorante e spietata guerra di posizione, fu istituita nel 1917 una specialità dell’arma di fanteria, gli “Arditi”; questi ultimi costituiti in autonomi reparti d’assalto.

Gli “Arditi”, dei veri e propri gruppi mobili, composti da soldati volontari, scelti da una commissione reggimentale per particolari attitudini fisiche, intellettuali e d’arditezza, furono addestrati nella Scuola delle truppe d’assalto, sita nella zona collinare boschiva di Sdricca, sopra Manzano, tra Udine e Gorizia. Gli uomini dopo aver superato un’intensa attività formativa e sottoposti a difficili prove fisiche (tra le quali, spiccavano le fedeli riproduzioni d’assalto verso posizioni trincerate collocate in una “collina tipo”), venivano fregiati con il prescritto distintivo del gladio romano circoscritto da un serto sdoppiato su due rami1, intrecciato al nodo Savoia. 

Esercitazione degli Arditi in un loro campo di addestramento, 1917

 

Tuttavia, si ha notizia di unità speciali sin dal 1914. Infatti, con l’approvazione del nuovo regolamento d’esercizi per la fanteria, fu creata la specialità dell’Esploratore2, esperto in colpi di mano.

Il neo costituito reparto, suddiviso in tanti plotoni, secondo la specialità alla quale appartenevano, fu presente in ogni reggimento di fanteria.

Con l’entrata in guerra dell’Italia, i reparti esploranti, rimasero in attività fin quando non si presentarono non pochi problemi tecnici. Infatti, l’esigenza di creare dei varchi lungo le trincee reticolate per far passare i fanti posti nelle retrovie, portò alla nascita di minori unità speciali.

Queste squadre di volontari composte da quattro o cinque uomini (abili tiratori, muniti di bombe a mano, pinze tagliafili, e strumentazioni da zappatore), furono coadiuvati da un gruppo di soldati del genio specializzati in esplosivi.

Pertanto, nacque una nuova specialità denominata Compagnia tagliafili, al cui interno militavano per la stragrande maggioranza già esploratori.

I soldati indossavano pesanti corazze e gli elmi Farina, ed erano dotati dall’inseparabile pinza taglia reticolati. Queste squadre di guastatori furono soprannominate “Compagnie della morte”, a causa dell’alto tasso di decessi sui campi di battaglia. Tuttavia, i volontari esploratori tagliafili si ampliarono in poco tempo, soprattutto con la comparsa della bombarda, le cui bocca da fuoco di medio e grosso calibro permise la distruzione della terrificante grande ragnatela di filo spinato.

Disegno di Pietro (Piero Bolzon), ex Ardito che ben evidenzia quello che fu il simbolo degli Arditi dato dal teschio laureato

 

A seguito delle direttive emanate dal generale Cadorna (27 maggio del 1915), che incoraggiavano lo spirito offensivo ed aggressivo alle unità minori, in modo particolare agli elementi esploratori, si diede a questi ultimi maggiore enfasi. Infatti, tale impulso favorì la costituzione di nuovi reparti (anche nelle unità superiori al reggimento), i quali furono autorizzati ad operare come compagnie di esploratori indipendenti.  

Tra queste unità minori autonome ricordiamo la Compagnia Esploratori Baseggio, dal nome del suo comandante il Capitano Cristoforo Baseggio.

La Compagnia si costituì a Strigno, in Valsugana nell’ottobre del 1915 e vi confluirono militari volontari di ogni ordine e grado, sia d’arma sia di corpo, quali: Alpini, Artiglieri, Bersaglieri, Carabinieri, Guardia di Finanza e Genio. I suoi componenti portavano il prestabilito distintivo dell’Esploratore.

L’unità di Baseggio, dopo aver raccolto diversi successi, fu quasi completamente distrutta nell’attacco al Monte Sant’Osvaldo.

Di conseguenza, il 4 maggio 1916, per ordine del Comando del V Corpo d’Armata, la Compagnia Baseggio fu sciolta per aver assolto il suo incarico.

Per frenare lo scoramento diffusosi nelle file del Regio Esercito durante le battaglie del 1916, avvenute sull’Isonzo e sul Pasubio, il Comando Supremo emanò delle direttive, nelle quali si premiavano3 i soldati che per propria iniziativa o che durante i combattimenti riuscivano a catturare prigionieri o materiale bellico nemico. L’intento del Comando Supremo fu di spronare i militari dipendenti a compiere tali ardite imprese4.

A tale scopo, il 15 luglio dello stesso anno con la Circolare n. 15810, fu istituito il distintivo per i “Militari Arditi”, ossia per quei militari che si offrivano volontari in operazioni rischiose.

Una cartolina dedicata ai Reparti d’Assalto. Fa parte di una serie di una decina di cartoline. Pubblicate dalla F.N.A.I. anni 30. Illustratore: Vittorio Pisani

 

Intanto, incessanti furono le proposte di alcuni ufficiali italiani circa la risoluzione dell’inutile strage che si consumava nella vita di trincea e il conseguente stallo che si era creato.  Tra questi Ufficiali, peraltro consapevoli della circolare informativa del 14 marzo del 1917 emanata dal Comando Supremo (riguardo all’impiego tra le file dell’esercito austro-ungarico delle truppe d’assalto “Sturmtruppen”), si distinse la proposta del Capitano Giuseppe Bassi sull’utilizzazione della mitragliatrice Villar Perosa; ufficialmente denominata FIAT Mod. 1915 e già ampiamente sperimentata nella sua unità presso la 48ª Divisione dell’VIII Corpo d’armata.

Erano nati i pistolettieri che insieme alla figura dell’Esploratore furono i precursori degli Arditi.

Il plotone sperimentale dei pistolettieri ebbe il battesimo del fuoco nell’attacco al Monte San Marco il 14 maggio 1917, in questa occasione Bassi poté dimostrare l’efficienza della nuova tattica: balzare dalle trincee e avanzare verso la linea nemica durante il fuoco di copertura; fino ai trinceramenti avversari, sparando con la Villar Perosa e lanciando le bombe Thevenot, talvolta uccidendo il nemico con il pugnale d’ordinanza. 

Ormai il passo era breve per la nascita degli arditi, infatti, Il 25 giugno dopo una serie di positive esercitazioni, il Comando Supremo ordinò l’istituzione di un reparto d’assalto per ogni armata.

L’uniforme del neonato reparto fu ripresa da quella dei Bersaglieri ciclisti. Le classiche due mostrine: fiamme nere a due punte, furono cucite al bavero della giubba. La scelta del colore nero fu particolarmente ispirata dal simbolo di italianità, in onore dei carbonari del Risorgimento. Infatti sembra che “…il colore sia stato scelto dal colonnello Bassi, comandante della Scuola della 2^ Armata di Sdricca di Manzano (UD), per onorare la memoria di un antenato materno, tale Pier Fortunato Calvi, ispiratore e guida della rivolta antiaustriaca del 1848 in Cadore. Il Calvi, di cui ricorreva il centenario della nascita proprio nel 1917, portava come simbolo della carboneria e della rivolta veneta, una cravatta nera…5.

La scuola delle truppe d’assalto fu affidata al neopromosso Tenente Colonnello Giuseppe Bassi che scelse come luogo per gli addestramenti, le colline della Sdricca a Manzano.

Sdricca di Manzano, tarda estate del 1917, da sinistra: il Capitano Maggiorino Radicati di Primeglio, al centro il Tenente Colonnello Giuseppe Alberto Bassi, a seguire il Tenente Carlo Gaviraghi

 

La sede per la formazione degli allievi Arditi fu inaugurata a Sdricca il 29 luglio 1917 alla presenza del Re Vittorio Emanuele III, di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, del principe di Galles, del principe ereditario del Belgio, dei Generali Luigi Cadorna e Luigi Capello, di molti ufficiali italiani e stranieri, dalle rappresentanze del Comando Supremo e dalla presenza della stampa italiana ed estera.

Abbiamo chiesto ad Antonio Mucelli6  di parlarci della partecipazione degli Arditi nella Prima Guerra Mondiale: genesi, storia, gesta, e armamenti.

Casale degli Arditi di Sdricca

 

«La fondazione dei Reparti d’assalto italiani fu un avvenimento fondamentale, che cambiò il modus operandi del nostro esercito, oltre che dare un contributo significativo alle sorti del primo conflitto mondiale, specie nelle più importanti battaglie, come quella del Solstizio nel giugno 1918 e quella di Vittorio Veneto nell’ottobre seguente.

È certo che nessuno tra i corpi del Regio Esercito, che combatterono la Grande Guerra, colpì l’immaginazione popolare quanto quello degli Arditi, rappresentando al tempo stesso una delle principali e più originali innovazioni militari dell’epoca, per addestramento, uniforme, armamento e tecnica di combattimento.

La loro nascita fu il risultato sia delle sperimentazioni di alcuni brillanti ufficiali italiani, alla ricerca di una soluzione allo stallo della guerra di trincea, che di informazioni carpite al nemico nel gennaio 1917 sulla formazione nelle file austro-ungariche di speciali truppe d’assalto, denominate Sturmtruppen, mutuate dall’esercito tedesco. Nel marzo del 1917 il Comando Supremo inviò la circolare n.6230 in cui comunicava ai Corpi d’Armata, sino al livello dei comandi di brigata, l’esistenza di questi reparti, allegando copia del loro particolare programma addestrativo di 12 giorni, tenuto a Levico, “affinché la conoscenza dei metodi d’azione seguiti dall’avversario offra il mezzo, non solo di opporvisi con adeguati procedimenti, ma altresì di adottare, ogni qual volta se ne presenti la convenienza, analoghi sistemi”. Questa circolare fece evolvere l’ardito, da semplice qualifica per atti di valore compiuti durante il servizio in trincea, a militare selezionato tra i migliori del proprio reparto e destinato ad un corso speciale al fine di apprendere tecniche d’assalto e colpo di mano contro posizioni fortificate, di lotta corpo a corpo e d’impiego di varie tipologie di armi.

A distanza di pochi mesi maturò l’idea di riunire i frequentatori di tali corsi in reparti organici autonomi alle dirette dipendenze di grandi unità, sancendo così una netta distinzione dalle Sturmtruppen, Un’ulteriore netta differenziazione si ebbe nel 1918, quando il Comando Supremo decise di raggruppare numerosi reparti per costituire una Divisione d’assalto (10 giugno) e poi addirittura un intero Corpo d’Armata d’assalto (27 giugno).

Arditi sul Basso Piave dopo le vittoriose azioni della Battaglia del Solstizio, 1918

 

Tornando alla loro genesi, la circolare n.111660 del 26 giugno 1917, vero atto di nascita dei Reparti d’assalto italiani, dispose che i comandi d’armata costituissero, sotto la data del 1° luglio, un’unità della forza di almeno una compagnia, formata esclusivamente da volontari.

La 2a Armata del generale Capello fu la più sollecita a mettere in pratica le richieste del Comando Supremo, forte di alcune positive esperienze fatte in azione dai plotoni speciali della brigata Lambro e della 48a Divisione, nonché del campo di addestramento istituito a Russiz, vicino a Gorizia, dal generale Grazioli, comandante della Lambro. La scuola delle truppe d’assalto venne affidata al neopromosso tenente colonnello Giuseppe Bassi, che scelse come sede la zona collinare di Sdricca, sopra Manzano, un paese a metà strada tra Udine e Gorizia. Qui confluirono tutti i volontari della 2a Armata, dando vita al I Reparto d’assalto, formato da una compagnia di bersaglieri e due compagnie di fanteria. La scuola venne ufficialmente inaugurata il 29 luglio 1917 alla presenza del re Vittorio Emanuele III, del principe di Galles, del principe ereditario del Belgio, del generale Cadorna, del generale Capello, del comandante della 3a Armata, Emanuele Filiberto duca d’Aosta, di ufficiali italiani e stranieri addetti al Comando Supremo e di molti giornalisti. Agli ordini del capitano Maggiorino Radicati da Primeglio la 1a compagnia del Reparto dimostrò la nuova tecnica di combattimento con la presa della cosiddetta “collina tipo” e di una caverna con aggiramento, destando l’ammirazione di tutti i presenti.

Tenente Colonnello Giuseppe Alberto Bassi

 

Tra agosto e settembre vennero formati altri cinque reparti, mentre numerosi ufficiali vennero inviati a Sdricca per apprendere le tecniche di addestramento in modo da poter avviare la creazione di reparti d’assalto presso le proprie armate.

I clamorosi successi riportati dagli Arditi di Sdricca sulla Bainsizza e in particolare sul Monte San Gabriele (4 settembre 1917) ebbero il sopravvento sull’indecisione di chi temeva di impoverire i reggimenti inviando i migliori elementi presso questi reparti speciali.

Borgnano, piccolo borgo situato tra Medea e Cormons, a pochi chilometri dall’Isonzo, divenne l’equivalente di Manzano per la 3a Armata, ovvero la città degli Arditi. Inizialmente vi erano solamente un gran numero di baracche adibite al ricovero delle truppe a riposo. Una compagnia del genio lavorò alacremente per giorni al fine di riparare ed ingrandire quella che sarebbe stata la nuova dimora degli aspiranti Arditi che affluivano dai diversi reggimenti dell’Armata.

L’addestramento, da 2 a 4 settimane di durata, era estremamente impegnativo e studiato minuziosamente. Comprendeva sia attività individuali (esercizi ginnici, combattimenti corpo a corpo, prove di coraggio e prontezza di riflessi), che azioni coordinate di gruppo, con ampio uso di bombe a mano e sotto l’arco di fuoco di mitragliatrici e cannoni, che spesso provocarono feriti e a volte persino qualche morto. La prova finale per conseguire il brevetto di Ardito era la fedele riproduzione di una vera operazione d’assalto a posizioni trincerate. Inizialmente la selezione degli uomini fu su base volontaria, tra i più coraggiosi, esperti e affidabili. Vennero rimandati ai reggimenti di provenienza tutti quegli elementi che al corso di addestramento non dimostrarono doti adatte a questo nuovo tipo di soldato, “speciale” per azioni speciali e particolarmente rischiose.

Ardito in posa guerriera. Foto scattata in studio fotografico. In evidenza pugnale, pistola, giubba aperta e Fiamme Nere al bavero.

 

Agli Arditi, in cambio, vennero concessi vari privilegi: migliore trattamento economico, licenze premio, rancio ricco ed abbondante, alloggiamenti comodi e nelle retrovie, nessun servizio di trincea e di corvè.

Anche l’uniforme venne accuratamente studiata dal Bassi in modo da essere funzionale e distintiva. La giubba era quella dei bersaglieri ciclisti, modello 1910, ma a “collo risvoltato e aperto”, una autentica novità a livello di tutti gli eserciti. Tale apertura permetteva una migliore aerazione del corpo. Sulla schiena aveva un’ampia tasca alla “cacciatora”, per i petardi o le bombe a mano.  Verso la fine del conflitto questa giubba venne modificata, eliminando l’ultimo bottone al collo con soppressione del relativo occhiello, creando una variante, nota come “giacca tipo Arditi”. Gli altri elementi del vestiario erano maglione a girocollo in lana a coste o camicia grigio-verde in flanella, con cravatta nera, pantaloni leggeri al ginocchio da alpino o bersagliere ciclista, che rendevano più agile il movimento, fasce mollettiere, spesso sostituite da calzettoni di lana a coste (più comodi e rapidi da indossare), e scarponcini per armi a piedi modello 1912, ma anche i mod. 1912 per alpini, con bullette (borchie-chiodi), sulla suola.

Altro elemento caratteristico fu il distintivo da braccio, cucito sulla manica sinistra a metà tra la spalla ed il gomito, adottato con la circolare n.455 del luglio 1917: un gladio romano, simbolo di onore e coraggio, con pomolo a testa di leone, simbolo di forza, o a testa d’aquila, simbolo del potere, iscritto tra un serto d’alloro a sinistra, simbolo di vittoria, e una fronda di quercia a destra, simbolo di lealtà e forza. Il nodo Savoia legava i rami all’arma sulla cui guardia campeggiava il motto FERT, altro riferimento alla casa regnante. Sono incerti sia l’origine che il significato di tale motto, che comparve per la prima volta sul collare dell’Ordine del Collare, fondato nel 1364 da Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde. In assenza di documenti che accertassero il significato di quel motto, nel corso del tempo si sono sviluppate varie interpretazioni. Per alcuni è l’acronimo latino di “Fortitudo Eius Rhodum Tenuit” (La sua forza preservò Rodi), in riferimento a un episodio leggendario, ma privo di base storica, di un Amedeo di Savoia. Per altri è la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo latino fero. Nel significato esteso di “sopportare” in associazione al nodo Savoia, che alludeva alla indissolubilità del legame del cavaliere alla sua dama, farebbe riferimento a una caratteristica dell’ordine cavalleresco e della monarchia sabauda. Altra spiegazione è che si tratti dell’accorciamento dell’antica parola Fertè, che significa Forteresse, ovvero Fortezza.

Circolare n. 455 del 1917. Distintivo per militari componenti i reparti d’assalto

 

Tornando al distintivo, era ricamato a macchina o a mano in canottiglia dorata per gli ufficiali, argentata per i sottoufficiali e in filo nero per la truppa. In ogni caso lo sfondo era in panno grigio verde, ad eccezione di quello destinato all’uniforme da cerimonia, dove lo sfondo previsto era nero. In alcuni casi si è constatato che tale distintivo era cucito sulla manica destra della giubba o addirittura sul copricapo (modello 1909 a tubo, scodellino o fez nero). Proprio in onore e memoria degli Arditi, attualmente il distintivo di specialità degli incursori del IX Reparto d’assalto, Col Moschin, è tornato ad essere lo stesso!

Dal 16 agosto 1917 vennero introdotte le mostrine di colore nero a due punte, da cui il termine “Fiamme Nere” con cui vennero spesso indicati gli Arditi. La scelta del nero fu un omaggio del Bassi al patriota risorgimentale Pier Fortunato Calvi, suo bisnonno per parte di madre, aduso indossare una cravatta nera, simbolo dei carbonari veneziani, che avevano liberato Manin e proclamata nuovamente la Repubblica Veneta. Dopo aver combattuto gli austriaci in Cadore nel 1848, venne impiccato a Mantova nel 1855 per aver capeggiato un altro tentativo di rivolta in quella zona.

Il nero non fu l’unico colore degli Arditi. Infatti vennero mantenute le mostrine cremisi nei reparti costituiti da Bersaglieri e verdi nei reparti Alpini, che pure non rinunciarono al loro tipico copricapo. Una vera e propria chicca, scoperta nel libro “Misticismo eroico” di Luigi Emanuele Gianturco, pubblicato nel 1941 da Arnoldo Mondadori, riguarda l’origine del fez nero, altro elemento tipico degli Arditi. L’idea fu del maggiore Domenico Ottanelli, comandante dell’XI Reparto d’assalto, alle dipendenze del generale Cattaneo. Durante una sosta nei dintorni di Villafranca di Verona, si procurò dai magazzini di rifornimento di Mantova, dal deposito del 7° Bersaglieri di Brescia e dal reparto Bersaglieri di Verona, 1.200 fez cremisi (quelli in uso tra i fanti piumati). Decise però che li voleva neri, come il colore scelto per le truppe d’assalto.

Gianturco così scrive: “Ottanelli ci raccontò: “Un giorno che anch’io avevo fatto una scappata a Milano, tra i compagni di viaggio in treno c’era un industriale fiorentino col quale stavo appunto trattando l’argomento della tintura dei fez. La cifra occorrente, anche se modesta, oltrepassava il mio stipendio mensile, e francamente mi dispiaceva rimandar la cosa alle lunghe. Breve: l’industriale, preso dal mio entusiasmo, decise di tingerli gratis. L’abbracciai dalla gioia. Due Arditi scortarono a Firenze i sacchi dei berretti rossi e li riportarono neri.” Superate le difficoltà di far accettare agli Arditi questo nuovo copricapo, vi era pur sempre il regolamento che vietava di alterare il colore e la foggia militare. Ma il 24 maggio 1918 il XII Corpo, organizzò una gara, alla quale parteciparono gli Arditi di Ottanelli col fez nero. Nasi arricciati, bocche più o meno storte salutarono l’innovazione, ma poi a gara ultimata, il capo di Stato Maggiore del Corpo d’Armata, generale Assum, d’intesa con S. E. Cattaneo, ne autorizzarono l’uso, limitandolo però ai soli accantonamenti. Poi con la costituzione della 1a Divisione di assalto, il Reparto andò a Mestrino, vicino a Padova, dove il generale Zoppi, comandante della Divisione, permise l’uso di tale berretto, finché con la costituzione del Corpo d’Armata d’assalto, generale Grazioli, il berretto a fez nero dilagò in tutto il Corpo d’Armata.”

L’arma principale, voluta anch’essa dal Bassi e che maggiormente alimentò il mito guerriero degli Arditi, fu il pugnale, adatto a colpire silenziosamente il nemico, meno ingombrante della baionetta ed ideale nei combattimenti corpo a corpo negli angusti spazi delle trincee. Questo poteva essere di tipo “regolamentare”, oppure a “manico di lima”. Entrambi erano ottenuti dall’accorciamento e riutilizzo delle baionette del vecchio fucile Vetterli-Vitali, modello 1870, ormai troppo lunghe per le nuove esigenze di una guerra di trincea. Anche il fodero ebbe la stessa origine. Il pugnale aveva una lunghezza complessiva di 28 cm, di cui 18 cm di lama. Nel primo modello le guancette erano di legno e venivano fissate mediante due ribattini al codolo del pugnale. Il pugnale a “manico di lima” venne prodotto contemporaneamente al “regolamentare” (anche se taluni testi riportano che sostituì l’altro modello), al fine di ridurne i costi di produzione. Esistevano varianti con impugnatura più tozza e corta, altre con guardia diritta, altre ancora con guardia contraria alla lama.

Gli Arditi, comunque, non disdegnarono di dotarsi anche di pugnali personali o sottratti al nemico.

Locandina per una mostra di guerra d’epoca. Evidenzia un dinamico Ardito durante un’azione. Pugnale, petardo e moschetto a tracolla.

L’altro armamento indissolubilmente legato agli Arditi fu il petardo offensivo Thevenot, di progettazione francese. Di forma cilindrica e del peso di 400 grammi, aveva una detonazione molto rumorosa che stordiva l’avversario. Le schegge avevano un raggio limitato a 5-10 metri e non erano letali (diversamente da quelle della bomba a mano difensiva S.I.P.E.). Ciò permetteva agli uomini di correre verso il punto dell’esplosione.

Per quanto riguarda le armi da fuoco, in accompagnamento a petardi e granate (fondamentali per la natura dei compiti dei Reparti d’assalto), gli Arditi preferivano armi leggere, automatiche e di dimensioni contenute. Il moschetto loro assegnato era il ‘91 “Truppe Speciali” oppure il “Cavalleria”, che aveva un peso di 2,7 kg (il moschetto ‘91 tradizionale, il cosiddetto “lungo, usato da quasi tutti gli altri corpi del Regio Esercito, pesava 3,9 kg). Oltre a mitragliatrici e lanciafiamme, vennero dotati di pistole-mitragliatrici Villar-Perosa 9×19 mm Glisenti (chiamate anche “pernacchia”, per il caratteristico rumore che producevano durante lo sparo) e le lancia torpedini Bettica, poi sostituite dai più moderni, ma pesanti, Stokes di fabbricazione inglese.

Altra loro dotazione fu la pistola semiautomatica Beretta modello ’15 calibro 9 mm.

Un Reparto d’assalto aveva la forza di mille uomini, tutti combattenti.

Originariamente era costituito da tre compagnie più una quarta che forniva i complementi per colmare gli eventuali vuoti, dati dalle perdite umane, in battaglia. Dopo Caporetto venne attuata una riforma organizzativa dei reparti, che vennero suddivisi in tre compagnie, ciascuna di 4 plotoni, aggiungendo una Sezione Bettica e una Lanciafiamme.

Ogni reparto aveva otto ufficiali, un comandante, un vice comandante di compagnia e sei subalterni.

Il plotone constava a sua volta di quattro squadre, una d’assalto, due di fiancheggiamento ed una di retroguardia o copertura.

Le due squadre fiancheggianti venivano armate con due pistole mitragliatrici Villar-Perosa ciascuna.  Ogni squadra era formata da coppie.

Dall’obbligo di coppie non erano dispensati né graduati, né ufficiali. Esse erano formate per volontaria elezione tra uomini stretti da vincoli di parentela o di amicizia, o da comune cittadinanza, o da reciproca simpatia.

L’uso delle “coppie tattiche” risultò sempre di immensa utilità, abituando i soldati all’iniziativa, infondendo loro coraggio, suscitando l’emulazione, dando maggiore scioltezza di movimento e procurando quel reciproco aiuto così prezioso ed indispensabile in caso di lotta e/o di ferimento.

Gli Arditi, pervasi da uno spiccato spirito di corpo, fecero propria una forte e ampia simbologia, data da teschi con o senza tibie, a volte col pugnale tra i denti, quasi a sfatare la paura della morte, quasi ad irriderla.

Cartolina ristampata dalla F.N.A.I. per il centenario 1918- 2018

 

Insieme a questa vi erano i motti, come il “Me ne frego”, “A Noi” oppure “Messe” (grido di battaglia del IX Reparto d’assalto in onore del loro comandante Giovanni Messe) e le canzoni, con le quali usavano annunciare il proprio passaggio, affinché i fanti e i civili sapessero di non essere soli, e il nemico capisse con chi aveva appena avuto a che fare. Uno dei più famosi “stornelli” così recitava:

Se non ci conoscete guardateci dall’alto,

noi siam le Fiamme Nere dei battaglion d’assalto!

Bombe a man e colpi di pugnal!

Se non ci conoscete guardateci i vestiti,

noi siam le Fiamme Nere dei battaglion arditi!

Bombe a man e colpi di pugnal!

Se vuoi trovar l’Arcangelo da fante travestito,

ricercalo a Manzano e troverai l’ardito!

Bombe a man e colpi di pugnal!

Se Pecori Giraldi vuol fare un’avanzata,

ricorrerà agli Arditi della seconda armata!

Bombe a man e colpi di pugnal!

Se non ci conoscete guardateci dai passi

noi siamo gli arditissimi del colonnello Bassi!

 

Sulla base di testimonianze, alcuni uomini entrarono negli Arditi per le (apparenti) migliori condizioni rispetto alla vita di trincea, ma non mancarono quelli motivati dall’amor patrio o spinti dallo spirito d’avventura. Alcuni amavano farsi chiamare “Cavalieri della Morte”, per la loro visione “romantica” dello sprezzo del pericolo, che li portava a travolgere tutto ciò che li ostacolava. “Scatto, travolgo, vinco”, andavano ripetendo. A tal proposito il capitano del XXIII Reparto d’assalto Fiamme Cremisi, Antonio Zane, così disse: “Gli austriaci pagavano una taglia di 500 corone a chi portava un collo di una giubba da Ardito e il distintivo che avevamo al braccio sinistro”.

Cartolina ristampata dalla F.N.A.I. per il centenario 1918- 2018

 

In poco più di un anno di vita i reparti d’assalto del Regio Esercito guadagnarono un rispetto senza pari presso le truppe nemiche, grazie alla determinazione e allo sprezzo del pericolo che dimostrarono su tanti campi di battaglia del fronte italiano (ma anche su quello francese e macedone). Basti ricordare le loro imprese nei seguenti teatri di guerra: Carso, Bainsizza, San Gabriele, città di Udine, Monte Valbella, Col del Rosso e Col d’Echele, Monte Corno, Monte Grappa (Monte Pertica, Monte Asolone, Cà Tasson, Monfenera, Col del Cuc, Solaroli, Col Moschin, Col Fagheron, Col Fenilon, Col della Berretta), zona del Piave (Fagarè, Zenson, Fossalta, Fosso Palumbo, Monastier, Musile, Castaldia, Caposile, Grisolera, Cortellazzo), Giavera, Montello, Falzè, Moriago, Fontigo, Sernaglia, Vittorio Veneto. Fondamentale fu il loro apporto nella Battaglia finale di Vittorio Veneto, quando aprirono la strada alle fanterie.

Foto di tre Arditi. Da sinistra: una Fiamma Nera, al centro una Fiamma Verde (provenienza Alpini), a seguire una Fiamma Cremisi (provenienza Bersaglieri)

 

Ovunque furono chiamati si colmarono di fama, gloria e ammirazione, ottenendo ben 3.487 medaglie al Valor Militare: 20 d’oro, 1.471 d’argento, 1.488 di bronzo e 508 croci di guerra.

Vennero decorate anche molte delle loro bandiere: oro al XXIII, argento al II, IX, XVIII, XXVII, XXVIII, LXXII, 3° Gruppo assalto (VIII e XXII), bronzo al VI, XI, X, XXVI, XXIX, 1° Gruppo assalto (X e XX) e 2° Gruppo assalto (XII e XIII).

Notevole, però, fu anche il loro tributo di sangue. Si stima che vi furono oltre 3.000 caduti su un totale di uomini che oscillò tra le 30mila e le 35mila unità complessive nell’intero periodo di guerra.

Particolarmente tragico fu il bilancio delle perdite in occasione della Battaglia del Solstizio, per il quale il Comando Supremo comunicò le seguenti percentuali: Arditi 20%, Fanteria 16%, Bombardieri 7%, Artiglieria 6%, Bersaglieri 6%, Mitraglieri 5%, Genio 2%.

Gli Arditi, sia dal nome stesso, che dagli innumerevoli racconti che giungevano dal fronte, generavano ammirazione, alla quale si aggiungeva un certo brivido di terrore, poiché molte delle storie di cui erano protagonisti, a furia di essere rimaneggiate, finivano con l’acquistare quella sorta di orrida bellezza che affascinava le genti, rifacendosi sempre a quella visione “romantica” sopra citata.

Una definizione che scindendo nettamente l’Ardito da tutti gli altri combattenti, lo isoli nella sua particolarissima natura e ne faccia un “soldato” in tutta la pienezza della frase, così recita: “L’arditismo è la totale espressione del volontarismo in guerra”.

Vi fu qualche altra particolarità che differenziava gli Arditi da tutti gli altri corpi: non si diventava Ardito in base ad una selezione fisica (come era ad esempio per il Bersagliere, il Granatiere o l’Artigliere da montagna), la selezione era puramente morale e si compiva spontaneamente nell’atto stesso del “volontarismo”. Si entrava negli Arditi perché si era Arditi. Nei Reparti d’assalto a fianco all’Ercole, capace di rovesciare una montagna, si trovava, paradossalmente, l’adolescente mingherlino che sembrava doversene volar via ad ogni alito di vento.

Ma quanta forza d’animo, quanta volontà selvaggia negli occhi accesi di quella “febbre”!  Chi voleva diventare Ardito, doveva dimostrare anzitutto di esserlo veramente e per conseguire questa terribile, ambitissima laurea, l’Ardito, in un primo tempo, doveva superare i rigidi esami di Sdricca di Manzano, o delle altre scuole.

Lapide affissa sulla parete di ciò che resta del Casale degli Arditi a Sdricca di Manzano. Foto Antonio Mucelli

 

Fu lì che vennero indirizzati tutti i volontari nauseati dalla trincea, rosi dall’impazienza di incontrare finalmente a tu per tu, a lunghezza di pugnale, l’austriaco rintanato a pochi metri. A Sdricca, Borgnano, ecc. la selezione avveniva da sé.

Curiosità:

Freguglia introdusse quello che divenne il GRIDO ufficiale dei Reparti d’Assalto, ossia  «A noi!» (14 febbraio 1918), al posto del grido “hurrà!” comunemente usato al momento di presentare le armi.

«A chi la gloria?»

«A noi!» rispondevano in coro i suoi Arditi.

«A chi l’onore?»

«A noi!» urlavano ancora.

In seguito il capitano Anchise Pomponi (anche lui come il Freguglia del XXVII R.A.) suggerì di sostituire il tradizionale presentat-arm con il gesto del pugnale brandito nella destra e alzato di scatto. La variante venne proposta in aprile dall’allora comandante della 2a Armata, tenente generale Giuseppe Pennella, che la trasmise al Comando Supremo, assieme ad altri aspetti dell’organizzazione dei Reparti d’assalto. A sostegno della proposta il generale scrisse di suo pugno: “Ho assistito alle prove di questo movimento. Riesce impressionante ed espressivo, oltre che bello”. La variante venne approvata con qualche riluttanza (“… gli arditi sono già troppo… arditi” annotò Badoglio, all’epoca sottocapo di stato maggiore), ma si diffuse velocemente tra tutti i reparti.

VI Reparto d’Assalto – Monte Grappa. Collezione Mucelli

 

Hanno detto degli Arditi:

“L’Ardito è come l’antico eroe della leggenda che, quando moriva, si involava con tutta la sua armatura e non era più possibile trovarne traccia sulla terra”.

Generale Ottavio Zoppi, Comandante la Prima Divisione d’assalto

 

“C’è proprio una graduatoria di coraggio, non esiste un unico tipo di coraggio. Gli Arditi sono sullo scalino più alto di questa gerarchia. Il coraggio degli Arditi non è quello di tutti gli altri” “Sembrerà paradossale, ma è cosi. E’ un fenomeno di selezione. Un fenomeno essenzialmente aristocratico”.

Capitano del XVIII Reparto d’assalto, Mario Carli

 

Arditi d’Italia – venire a voi è come entrare nel fuoco – è come penetrare nella fornace ardente – è come respirare lo spirito della fiamma – senza scottarsi – senza consumarsi. In una delle vostre medaglie commemorative il combattente all’assalto è rappresentato avvolto dalla vampa – incombustibile come la salamandra della favola – con una bomba in ciascuna mano. Il vostro elemento è l’ardore – la vostra sostanza è l’ardire. Per ciò, se il Carso era un inferno, voi ne eravate i demoni. Se l’Alpe era l’empireo della battaglia – voi ne eravate gli angeli. Creature fiammanti sempre e da per tutto. E ci fu qualche notte d’estate – ci fu qualche notte d’autunno che l’acqua del Piave, al vostro guado, rugghiò come quando immerso il ferro rovente si tempra….”

Comandante Gabriele d’Annunzio

 

“Meglio un giorno da Ardito che cent’anni da vigliacco”.

Capitano del XXX Reparto d’assalto, Ferruccio Vecchi

 

“Avvolti in tenui veli di poesia sono i vostri natali, o mie belle fiamme, fiamme dai colori della morte, ma che sprizzano sempre e dovunque faville di sorrisi, fervidezza di vita. Così nasceste or sono tre anni, puri, semplici come i veri Cavalieri delle Crociate”.

Colonnello Giuseppe Alberto Bassi (il loro fondatore)

 

“La guerra mondiale non ha creato nessun tipo che possa sostenere il paragone con l’Ardito italiano”.

Comandante Gabriele d’Annunzio.

 

“D’immensa invidia e d’indomato amor”…(i suoi Arditi erano oggetto n.d.r)

Generale Ottavio Zoppi, Comandante la Prima Divisione d’assalto.

Elementi del IX Reparto d’Assalto dopo le gloriose azioni sul Monte Grappa – giugno 1918

«Sono la migliore banda del mondo. Tu credi che siano tutti criminali. All’inizio si pensava che lo fossero. Ora ce ne sono delle migliori famiglie d’Italia. Dubito che in altri eserciti esistano migliori truppe d’urto». Lo scrittore americano Ernest Hemingway (Premio Nobel 1954), presente sul Piave e sul Grappa con le ambulanze dell’American Red Cross.

Termino il mio pensiero con questa frase del Sommo, che particolarmente mi aggrada e perfettamente si addice:

“Che una favilla sol della lor gloria possa lasciare alla futura gente”.

Dante-Paradiso»

Note:

(1) Un serto d’alloro a sinistra e una fronda di quercia a destra, rispettivamente a simboleggiare la gloria e la tenacia, e uniti tra loro da un nodo Savoia. Sull’impugnatura del gladio vi era inciso l’acronimo FERT, il motto di casa Savoia «Fortitudo Eius Rhodum Tenuit» (La sua forza difese Rodi).

(2) Con il distintivo grigio verde con una stella a sei punte (nera per la truppa e d’argento per sottufficiali e ufficiali)

(3) Venivano concessi premi in denaro e licenze per atti valorosi ai militari che se ne fossero resi meritevoli.

(4) Salvatore Farina, Le truppe d’Assalto Italiane, F.N.A.I. 1938

(5) Uniformi degli Arditi della Prima Guerra Mondiale www.esercito.difesa.it

(6) Antonio Mucelli, segretario dell’Associazione Storico Culturale Il Piave 1915-1918 di San Donà di Piave (VE) e Referente Storico Nazionale della Federazione Nazionale Arditi d’Italia delle Sezioni di Trieste e Treviso. Ha all’attivo una decina di articoli pubblicati in riviste militari a tiratura nazionale. Ha collaborato alla stesura di numerosi libri relativi alla Grande Guerra. Collabora attivamente con le Istituzioni dello Stato, quali Sopraintendenze del Ministero per i B.A.P.P.S.A.D., Regioni, Province e Amministrazioni Comunali, Pubblica Istruzione. Inoltre ha contribuito alla catalogazione e al censimento dei cimeli custoditi all’interno di diversi Sacrari Militari con il Ministero della Difesa nella figura dell’Onor Caduti. Nel luglio 2017 ha curato il libro diario di Luigi Freguglia “XXVII Battaglione d’assalto”, pubblicato da Itinera Progetti. Nel giugno 2018 ha collaborato con due articoli su questa Testata Giornalistica: Prima Guerra Mondiale. I nuclei nuotatori della Grande Guerra: i Caimani del Piave; e Prima Guerra Mondiale. Ciro Scianna l’eroe dell’Asolone. Nel 2019 assieme ad altri nove autori, ha contribuito alla realizzazione del libro “Arditi d’Oro” Le venti medaglie d’oro dei reparti d’assalto italiani nella Grande Guerra. Ha all’attivo svariate conferenze sui reparti d’Assalto.

Antonio Mucelli. Referente Storico Nazionale della Federazione Nazionale Arditi d’Italia delle Sezioni di Trieste e Treviso.

 

Bibliografia:

Salvatore Farina, “Le truppe d’Assalto Italiane”, F.N.A.I. 1938.

Basilio Di Martino, Filippo Cappellano, “I reparti d’assalto italiani nella grande guerra (1915-1918)” Stato Maggiore dell’Esercito, 2007

Foto di copertina: Arditi sul Basso Piave dopo le vittoriose azioni della Battaglia del Solstizio, 1918.

Giuseppe Longo
giuseppelongoredazione@gmail.com
@longoredazione

 

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