Intelligenza e dialogo. Quarant’anni fa veniva assassinato Aldo Moro

Tre anni prima della strage di via Fani, Pier Paolo Pasolini, nel celebre articolo dedicato nel 1975 alla scomparsa delle lucciole, denunciava il «drammatico vuoto di potere» di un paese governato non da una classe dirigente ma da «maschere». Tra di esse la più emblematica gli appariva proprio Aldo Moro, l’uomo dal «linguaggio incomprensibile come il latino».
Pochi mesi dopo lo scrittore propose pubblicamente un vero «processo penale» contro gli esponenti democristiani del «Palazzo», per trascinarli, «come Nixon» (erano gli anni dello scandalo Watergate), «sul banco degli imputati». E aggiunse: «Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos», cioè come il dittatore greco che era allora stato processato e condannato a morte.

L’anno dopo un regista vicino alla sinistra extraparlamentare, Elio Petri, trasformava in un film il giallo politico di Leonardo Sciascia Todo modo. Vi si vedeva, impersonato da Gian Maria Volonté, il presidente «M», leader di un partito cattolico corrotto e che governava da decenni un paese in ginocchio. Era un politico viscido, dall’eloquio complesso e dalla sempiterna attitudine a mediare, giunto a orchestrare, in un albergo per ritiri spirituali, la carneficina dei suoi complici di partito, per la loro manifesta inadeguatezza e al solo scopo di sancire la propria supremazia. Nell’ultima scena, in un grottesco sacrificio di redenzione, «M» offriva se stesso al boia e, recitando il Padre nostro, attendeva in ginocchio il proprio destino.
Questi tempi sono lontani. Il fatto che Moro sia stato un leader politico odiato come pochi non va però dimenticato. Sin dai primi anni sessanta, a destra si denunciava il «comunismo moroteo» e accusava Moro di essere una sorta di complice “attivo” del Partito comunista italiano (Pci). A sinistra il quotidiano comunista ne bollava il sistema di «ricatto» mascherato «sotto il velo delle parole dette e non dette, delle ambiguità, delle polivalenti interpretazioni». Sarebbe stato così Eugenio Scalfari ad attribuire a Moro la celeberrima formula delle «convergenze parallele», che lui, in realtà, non aveva mai usato: perché aveva semplicemente parlato di «convergenze democratiche»; ma la leggenda era più vera della realtà, e, nonostante le sue smentite, Moro era stato coperto da un coro di ironia.

Insomma, negli anni settanta Pasolini e Petri esprimevano un topos interpretativo già largamente diffuso: quello del “gattopardo levantino”, trasformista perché nulla cambiasse. E Sciascia stesso, nel suo pamphlet sull’affaire Moro, l’avrebbe di lì a poco definitivamente codificato scrivendo di «un grande politicante: vigile accorto, calcolatore, apparentemente duttile ma irremovibile».
Naturalmente, Moro venne anche profondamente amato. Innanzitutto, dai suoi elettori: va ricordato che nel 1968 fu il politico che ottenne il record delle preferenze. Poi, intorno a lui, da una parte, il cattolicesimo di sinistra e, dall’altra, la cultura comunista costruirono l’immagine, speculare e non meno distorta, del principale ideatore dell’accordo con il Pci. Sarebbe stato così facile, dopo la sua morte, farne il martire di questa causa: nel 1998, non certo a caso, la città natale, Maglie, ha scelto di porre a suo ricordo una statua che lo rappresenta con in mano una copia dell’«Unità».
Quei tempi sono lontani. Ancora oggi, però, non è facile un discorso su Moro: non è facile evitare il peso di tante passioni; non è facile nemmeno evitare il peso della sua stessa tragedia. Eppure, continuando a focalizzare esclusivamente lo sguardo su di essa, non solo rischiamo di mettere quei cinquantacinque giorni avanti a quasi 62 anni di vita pienissima, ma rischiamo una sorta di paradossale proiezione interpretativa all’indietro che legga Moro dalla fine, come se quest’ultima fosse la chiave rivelatrice di tutto. Eppure, di lui si deve parlare. Per “liberarlo” una volta per tutte dal carcere delle Brigate rosse e riconoscergli il ruolo di protagonista di quasi vent’anni di storia della democrazia italiana che certamente merita.
Formatosi nella nidiata montiniana dei giovani intellettuali cattolici della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, e del Movimento laureati, educato a una fede pensante, Moro non aveva scelto la politica: avrebbe sempre dichiarato di sentire lo studio e l’insegnamento universitario come la propria vera vocazione. Se non l’aveva seguita, era stato solo per senso di responsabilità, verso la chiesa e il paese.
Fu così che, giovanissimo (non aveva ancora compiuto trent’anni), Moro divenne uno dei costituenti, e con un ruolo decisivo: per l’attitudine a suggerire formule di mediazione e di sintesi; per il fermo sostegno alla necessità di collocare i principi fondamentali nella costituzione, e non in un limitativo preambolo; per il ruolo nella scelta dell’espressione «fondata sul lavoro» dell’articolo 1; per l’accoglimento dell’istituto del referendum; per la rivendicazione di una democrazia sociale, basata su una forte presenza dello Stato; per l’affermazione della valenza «antifascista» della nuova democrazia. Moro fu il primo ministro della giustizia (1955-1957) a visitare sistematicamente le carceri, il primo ministro della pubblica istruzione (1957-1959) a istituire l’educazione civica. Soprattutto, fu colui che, con un paziente lavoro di convincimento e di rassicurazione, riuscì a portare il suo partito, il mondo cattolico e la Chiesa ad accettare l’apertura ai socialisti, e cioè la formula politica che avrebbe regalato agli italiani la maggiore crescita economica e civile della loro storia.
Il centro-sinistra è sempre rimasto per Moro il vero orizzonte di riferimento: nel 1968 fu sensibile a capire i «tempi nuovi» della contestazione giovanile, dell’emancipazione femminile, della protesta del mondo del lavoro, ma avrebbe voluto continuare a governare coi socialisti. Furono gli anni settanta, con la crescita inarrestabile dei voti al Pci e l’indisponibilità socialista, a rendere il suo disegno impossibile. Fu ancora lui, tuttavia, a farsi perno e garante di una soluzione difficilissima, quasi acrobatica, per fare andare avanti, e non indietro, la democrazia italiana: governi democristiani con l’ingresso comunista nella maggioranza e con l’avvio di un complesso processo di legittimazione reciproca che avrebbe potuto favorire il superamento degli invalicabili muri della Guerra fredda.
Quei tempi sono lontani. Il centenario della nascita di Moro nel 2016 e il quarantennale della sua morte hanno visto un numero davvero straordinario di commemorazioni, di celebrazioni, di documentari, di interventi a ogni livello. È un caso che tutto questo interesse mediatico coincida con un momento di profonda incertezza, di crisi, forse addirittura di tramonto dell’Italia? Certo, Moro pare oggi venire da un altro pianeta. In un’epoca di leadership fortemente personalistiche, lui è, come scrisse allora un giornalista, un uomo «che non vuole essere fotografato, che non vuole essere intervistato, che non vuole essere citato, che non vuole essere nemmeno lodato». In un’epoca in cui tutte le forze politiche ripetono insistentemente ai loro elettori che le soluzioni sono semplicissime ed evidenti e che, se i loro avversari non lo riconoscono, è solo per malafede o corruzione, Moro è il politico convinto che la realtà è sempre complessa, che un elemento profondo di verità esiste in ogni posizione sincera, che occorre studiare seriamente e mettersi dal punto di vista degli altri. In un’epoca di politica esclusiva e intollerante, che ha creato il termine “inciucio” per bollare come cedimento corruttivo ogni forma di accordo politico, Moro è convinto che compromesso significa esattamente quello che la sua etimologia latina dice: cum promittere , “promettere insieme”, e dunque l’atto più alto che si possa compiere in politica. Forse, proprio perché gli italiani sembrano non sapere più chi sono essi sentono l’interesse (e, chissà, la nostalgia) di una leadership non della forza, non del decisionismo, non della delegittimazione, ma dell’intelligenza e del dialogo.

di Renato Moro, l’Osservatore Romano

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