L’omelia del Vescovo Giuseppe nel centenario della fine della Prima Guerra Mondiale

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Carissimi,
un saluto particolare anzitutto alle autorità civili e militari in questo giorno che ricorda l’unità nazionale. Avete visto come l’enfasi ormai non è più sulla vittoria della Prima Guerra, ma sull’unità della Nazione. E proprio su questo dobbiamo insistere perché ogni guerra è un sempre un malaffare, in tutti i sensi. Soprattutto perché la guerra porta morte; l’unità invece porta la vita. Certo bisogna difendere l’unità della Nazione, ma con le armi della pace e non della guerra. Ringrazio in modo particolare l’Arma dei Carabinieri perché attraverso l’Associazione Nazionale Carabinieri – Sezione di Cefalù quest’anno si sono messi a disposizione per un servizio di accoglienza e volontariato in Basilica Cattedrale. In ogni caso noi oggi ricordiamo tutti i caduti della Prima Guerra Mondiale, definita da Papa Benedetto XVI “l’inutile strage”. Gli interventi della Chiesa sono stati a favore di chi era in battaglia, soprattutto dei nostri soldati e delle tante migliaia di vedove e orfani; a favore sempre delle persone più fragili. Il Vangelo di oggi ci dice qual è il centro della nostra fede: era questa la questione che si poneva a Gesù. Una questione per tendergli un tranello, ma Gesù esce sempre vittorioso con la Verità non con le armi. Gesù non aggiunge nulla di nuovo rispetto alla legge antica: il primo comandamento di Israele è Shemà Israel, “Ascolta Israele: il Signore è il tuo Dio” e quindi l’amore a Dio si dimostra nell’amore del comandamento, le cosiddette “Dieci Parole” di cui tre sono comandamenti che riguardano Dio. Tutti gli altri riguardano l’amore del prossimo. Ecco perché la sintesi della nostra fede è: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso”. Gesù loda il suo interlocutore perché ha parlato bene, ha capito bene qual è il centro della fede di Israele e l’evangelista che ci riporta questo episodio dice anche qual è il centro della nostra fede. Il dramma sapete qual è? È quando noi separiamo l’amore di Dio da quello del prossimo. Gesù unifica i due comandamenti in uno solo: “Ama il Signore Dio tuo, ama il prossimo come te stesso”. Disgiungere questi comandamenti è fatale. Separare l’amore di Dio dall’amore del prossimo ci fa cadere in due grandi errori: sottolineare solo l’amore di Dio, ci fa cadere nell’integralismo al punto tale da uccidere in nome di Dio; sottolineare solo il secondo, l’amore per il prossimo, c’induce in un altro difetto, il materialismo dove l’uomo perde il suo vero volto, il suo vero significato in una società costruita senza Dio. La Prima guerra viene fuori da un periodo chiamato la Belle Époque dove l’uomo quasi si sostituisce a Dio perché era capace di inventare le cose più potenti, tanto potenti da diventare mezzi di distruzione di massa. Ecco i due estremi, ecco perché l’amore di Dio non va disgiunto dall’amore del prossimo e viceversa. Amare il Signore, amare il prossimo, amare i fratelli. Addirittura Gesù arriva a dire di amare il proprio nemico. Ma nell’Europa cristiana dove matura la Prima Guerra Mondiale, i figli dello stesso Dio si combattevano: tutti cristiani i popoli che si facevano guerra, ricordiamolo, tutte imparentate tra loro le teste coronate di allora. Al fronte sotto le bandiere nazionali gli uni contro gli altri. Lo scrittore George Bernard Shaw stigmatizza così questa situazione: “gli altari di Cristo si sono trasformanti in altari di morte”, è terribile questa constatazione. Benedetto XV nella nota del 1917 fu un grido inascoltato che provocò 16 milioni di morti con 20 milioni di feriti e mutilati. Una strage tra fratelli. Vorrei qui portarvi un commento di Don Primo Mazzolari sul perché la gente andò in guerra. Scrive così Don Primo:

Il benessere di un prolungato periodo di tranquillità pesava sovra un mondo incapace di estenderlo agli umili con una più equa distribuzione di quella ricchezza che la tecnica riusciva a produrre a meno costo e più largamente. Il popolo, manovrato con preoccupante facilità, s’incupiva. Che gl’importava una ricchezza che egli guadagnava faticosamente per gli altri, di cui solo le briciole, e contese ancor queste, venivangli serbate? La guerra scoppiò nel pieno di codesto malcontento di diritti defraudati e di rivolte contenute, in mezzo a una generazione che, dopo averla odiata a parole, era ancora capace di accettarla se un motivo ideale qualsiasi ve la spingesse. Quando lo star male è così diffuso che non si capisce per quale strada uscirne, le catastrofi da tutti deprecate, finiscono per essere da tutti inconsciamente accettate dietro la speranza che il respiro si allarghi in un’aria nuova o almeno rinnovata.

PRIMO MAZZOLARI, La pieve sull’argine e l’uomo di nessuno, Edb, 1978 (or. 1951), p. 38-39

Questo scriveva Don Primo. Ma ecco un’altra testimonianza più vicina a noi del poeta Ignazio Buttita, una lettera nata dalla sofferenza della Prima Guerra Mondiale:

Io sono del 1899, uno dei “ragazzi del ’99” e a diciassette anni ero in prima linea sul Piave. Ero in trincea… Ora voi mi vedete qua, mi vedete come un cristiano, come un poeta, come una persona buona caritatevole generosa e invece sono uno che ha ammazzato centinaia e centinaia di cristiani, bambini e grandi. Che strano! E non sapete… e non sapete che cosa significa ammazzare un cristiano, non quanti ne ho ammazzati io, diecimila, ventimila, ma ammazzarne uno… non sapete che cosa significa… nel cuore che cosa c’è… il morto resta nel cuore… ce l’hai negli occhi… sempre davanti. Ritorno con il pensiero al fronte, dobbiamo seppellire i morti.

A proposito un soldato inglese alla fine della guerra chiede al suo generale che cosa significa l’armistizio. Il generale gli risponde: “L’armistizio significa che ognuno seppellisce i proprio morti”.

E va bene, seppelliamo. Io esco e davanti alla mia mitragliatrice, proprio sopra la mia mitragliatrice, steso così… c’era un bambino, diciassette anni… tedesco… morto. Lo presi, ci guardai nelle tasche, perché in guerra quando ammazzavamo i nemici, la prima cosa che facevamo era di rubargli l’orologio, se avevano soldi, se avevano un fazzoletto, se avevano una lettera… Io gli infilai le mani nelle tasche e questo non aveva niente…se non una fotografia. Chi c’era nella fotografia?! La madre abbracciata con lui. Dopo la guerra mi ero sposato, avevo due bambini. Una notte, verso l’una, rincaso, accendo la luce, mia moglie con un bambino abbracciato qua, nel letto matrimoniale e un’altra abbracciata qua, il maschietto e la femminuccia, così sul petto. Guardavo mia moglie e mi vanno gli occhi al muro. “Guardo mia moglie abbracciata con i suoi figli; e io a quella madre ho ammazzato il figlio”. Mi sedetti, cinque minuti: “Ora gli scrivo una lettera”. Nella foto c’era l’indirizzo. Abitava a Stoccarda, in Germania. Scrivo questa lettera. Non mi rispose mai. Forse era morta. Forse aveva cambiato casa. Non mi rispose mai.

Scrive le poche parole della lettera. Ve la leggo perché è di una commozione straordinaria:

Mamma tedesca, ti scrive quel soldato italiano che ti ha ucciso il figlio. Maledetta quella notte. E le acque del Piave. E i cannoni e le bombe. E le luci che c’erano; maledette le stelle e le preghiere e le voci e il pianto e i lamenti e l’odio, maledetti! Era così bello tuo figlio, mamma tedesca, lo vidi all’alba con la faccia bianca di bambino ancora addormentato. Com’era bello tuo figlio: sembrava che sopra quell’erba l’avessero posato le tue mani. Mamma tedesca, io, l’assassino che ti ha ucciso il figlio: come posso dormire sogni sereni come posso abbracciare i miei figli come posso passare in mezzo agli uomini buoni senza essere scacciato, e crocefisso al muro? Mamma tedesca, madri di tutto il mondo, vi chiamo! Ognuna, la pietra più grossa venisse a buttarla sopra di me: montagne di pietre, montagne di pietre, scacciate la guerra”.

IGNAZIO BUTTITA, Littra a ‘na mamma tedesca, 1988.

E così concludo. Vi ringrazio per l’ascolto.

✠ Giuseppe Marciante

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