In continuità col precedente contributo, questa settimana vorrei occuparmi del valore e dell’importanza che assume nella condizione di malattia, la relazione tra chi cura e chi è curato.
Si tratta di un rapporto interpersonale che se da una parte è segnato da un’inevitabile asimmetria di ruoli, di competenze e di bisogni, dall’altra dovrebbe rimandare alla simmetria o reciprocità dell’essere una relazione umana in cui è presente un obiettivo comune e condiviso di guarigione, reso dal messaggio: «lavoro “con” te, non “su” di te».
Aspetti fondanti la relazione tra operatori della salute e pazienti, sono una buona ed efficace comunicazione, la creazione di un clima collaborativo e ancor più la costruzione della fiducia che il malato non concede più al medico in modo scontato come avveniva in passato.
Al di là della frustrazione che spesso i pazienti esternano a proposito dell’aver vissuto relazioni “fredde” o poco empatiche, prescrittivo-informative e distanzianti a causa di un linguaggio tecnico spesso incomprensibile, la costruzione di un’“alleanza terapeutica” è imprescindibile per la buona riuscita delle cure. Infatti quando un paziente si sente compreso, quando viene non solo informato ma soprattutto coinvolto nelle decisioni che riguardano la sua salute, ancora e soprattutto quando si sente “visto” come persona pensante e non solo come corpo ammalato, sviluppa e incrementa la sua adesione alle terapie, accetta le prescrizioni e si impegna a modificare i propri stili di vita a vantaggio del proprio benessere.
In altri termini, la disponibilità, la capacità di ascolto, l’empatia dovrebbero essere i cardini di ogni relazione medica poiché umanizzando la cura, diventano catalizzatori della consapevolezza, responsabilità ed autonomia del paziente.
Del resto di un clima collaborativo e fiducioso ne risente positivamente anche il medico che può trarre maggiore soddisfazione dallo svolgere un compito spesso difficile ed emotivamente “carico”.
La formazione medica è razionale, induce al pragmatismo, necessita di un agire e di un decidere spesso celeri e tempestivi, questo non agevola la complessa ricerca di equilibrio tra distanza e vicinanza emotiva, ovvero tra “coinvolgimento” e “distacco” rispetto ai vissuti di un paziente o dei suoi familiari; inoltre può subentrare una necessità difensiva da emozioni forti o negative, come quelle indotte dal confrontarsi con la comunicazione di una diagnosi nefasta o dal toccare i limiti della scienza laddove assumono la forma dell’incurabilità. Tutto questo può tradursi in frustrazione, senso di fallimento, di sconfitta e in altri spiacevoli sentimenti di difficile gestione soprattutto se rappresentano una costante del proprio lavoro.
Ogni comportamento ha una ragione e tutti hanno le loro ragioni, ma la speranza è che ogni volta la relazione possa essere un incontro tra le “persone”.