Il 24 maggio di cento anni fa, le coste adriatiche furono prese di mira da una serie di cannoneggiamenti da parte della flotta navale austro-ungarica. Furono bombardati i porti di Rimini, Ancona, Porto Recanati, Senigallia, Potenza Picena, Termoli, Campomarino, Torre Mileto, le Isole Tremiti, Vieste, Barletta, Manfredonia e Porto Corsini. Le incursioni colpirono anche le linee ferroviarie, le quali, in seguito, avranno un ruolo fondamentale, mediante i Treni Armati, veri protagonisti nella difesa dei litorali. La strategia della marina austro-ungarica era ben nota: levar le ancore dai loro porti, giungere alle prime luci dell’alba nei loro obiettivi, colpire e tornare alle loro basi. Tuttavia, non mancarono le battaglie in mare aperto. In realtà il cacciatorpediniere “Turbine”, appartenente alla V squadriglia con base a Taranto, fu coinvolto in uno scontro fatale con la flotta della K.u.K Kriegsmarine. Abbiamo intervistato lo storico navale Virginio Trucco (1) e gli abbiamo chiesto di parlarci del primo giorno di guerra della Regia Marina Italiana e delle successive fasi che portarono all’affondamento, per mano austriaca, del “Turbine” al comando del Capitano di Corvetta Luigi Bianchi.
«I piani di guerra approntati dalla marina austro-ungarica, in caso di guerra contro l’Italia, prevedevano: una serie di attacchi a sorpresa contro le principali basi navali (con l’intenzione di cercare di ridurre la superiorità della Regia Marina), il bombardamento delle città costiere dell’Adriatico al fine di provocare il panico nella popolazione civile (che se continuata, avrebbe provocato la richiesta di pace) e infine una grande battaglia navale finale. Invece, nel caso del protrarsi della guerra, il compito della K.u.K Kriegsmarine sarebbe stato la difesa delle coste. Da parte italiana, l’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, comandante in capo della flotta dal 1913, aveva elaborato un piano che prevedeva il concentramento del grosso della flotta presso le basi di Taranto e Brindisi, al fine di bloccare il canale di Otranto. Impedendo così l’accesso al Mediterraneo della flotta nemica, lasciando nell’Alto Adriatico solo il naviglio sottile, con l’eccezione di due corazzate pre-dreadnought, Saint Bon ed Emanuele Filiberto, dislocate a Venezia. La strategia di Thaon di Revel, si basava su un’intensa guerra di mine, facilmente attuabile data la bassa profondità dell’Adriatico del nord, che prevedeva oltre alla posa di sbarramenti difensivi davanti alle basi e alle coste italiane, anche una massiccia posa di sbarramenti offensivi, che avrebbe bloccato la flotta nemica nelle proprie basi.
A tal fine, le scorte di mine italiane, furono incrementate, passando dalle 200 armi del 1913 alle 3000 del 1915. Fino alla fine della guerra furono posate in tutto circa 13.000 mine, contro le circa 6000 austriache, queste quasi tutte posate in sbarramenti difensivi. La guerra di mine, associata alle crociere di vigilanza delle unità sottili e sommergibili avrebbero dato alla Regia Marina il controllo dell’Alto Adriatico. Il pomeriggio del 23 maggio 1915, l’ambasciatore italiano a Vienna, consegnò la dichiarazione di guerra, che prevedeva l’inizio delle ostilità a partire dalle ore 00.00 del 24. La marina Austro-Ungarica, privata degli attacchi di sorpresa contro le basi navali italiane (poiché il porto di Venezia, che era l’unico rientrante in questa tipologia di attacco e inoltre ritenuto un vero e proprio baluardo) decise di effettuare solamente i bombardamenti contro costa. Le unità austriache uscirono dalle loro basi la sera del giorno 23, in modo da portare l’attacco alle coste italiane nelle prime ore del 24. Gli obiettivi erano: la linea ferroviaria adriatica, le installazione semaforiche e le città della costa, anche se queste non essendo fornite di difesa, ad eccezione di Porto Corsini, erano state dichiarate città aperte. Appena fuori dalle basi, le unità austriache si divisero in piccoli gruppi, con l’intento di colpire il Porto Corsini, Rimini, Ancona, Porto Recanati, Senigallia, Potenza Picena, Termoli, Campomarino, Torre Mileto, le Isole Tremiti, Vieste, Barletta e Manfredonia. L’attacco contro Ancona, provocò circa 70 vittime e un centinaio di feriti, l’affondamento del piroscafo tedesco “Lemnos”, internato all’inizio della guerra, e leggeri danni ad altre unità mercantili presenti nel porto.
L’attacco a Porto Corsini, unica località difesa da batterie di medio e piccolo calibro, non riportò risultati significativi, proprio per la risposta delle nostre batterie, che danneggiarono se pur lievemente l’esploratore “Novara”, il caccia Scharfschütze e la torpediniera “TB 80”. Da parte italiana, nell’Alto Adriatico, furono effettuate missioni di bombardamento contro le coste nemiche. Nelle primissime ore del 24, i caccia Zeffiro, Bersagliere e Corazziere, di base a Venezia, attaccarono “Grado”. Lo “Zeffiro”, entrò nel porticciolo di Porto Buso (un’isola di fronte alla città di Grado), affondando alcuni motoscafi e tramite un drappello da sbarco, catturò 48 uomini del presidio nemico. Intanto “Bersagliere” e “Corazziere” bombardarono le installazioni militari di Grado, senza risultati di rilievo. Nelle stesse ore, anche nel Basso Adriatico, le navi austro-ungariche portarono attacchi contro la costa, quello effettuato dall’esploratore “Admiral Spaun” e i caccia “Wildfang”, “Streiter” e “Uskoke” contro la linea ferroviaria Adriatica nelle località di Termoli, Campomarino, Torre Mileto, Vieste e le isole Tremiti, causarono solo modesti danni. Intanto più a sud, l’esploratore “Helgoland”, protetto dai caccia “Csepel”, “Tatra”, “Orjen” e “Lika”, iniziava il bombardamento di Barletta. Dopo i primi colpi, che causarono danni a carri merci stazionanti nello scalo ferroviario e il castello, fu interrotto per la comparsa del caccia “Aquilone”.
Nel pomeriggio del 23, i cacciatorpedinieri “Turbine” e “Aquilone”, uscirono dal porto di Taranto, con l’ordine di perlustrare la costa sino a Manfredonia e da lì iniziare operazioni di pattugliamento. Circa alle 5 del mattino, come scritto in precedenza, l’Aquilone avvistò l’esploratore “Helgoland” (che aveva iniziato il bombardamento della città di Barletta) e si portò decisamente all’attacco. La nave austriaca cessò il bombardamento e si preparò ad affrontare il cacciatorpediniere “Aquilone”, che dopo i primi colpi, fece rotta verso sud. A questo punto l’esploratore “Helgoland” si mise a inseguire il cacciatorpediniere “Aquilone”. Nel frattempo, richiamato dalle cannonate, sopraggiungeva anche il “Turbine”, al comando del Capitano di Corvetta Luigi Bianchi. Egli una volta accertato che il caccia “Aquilone”, più piccolo e meno armato, si trovava in difficoltà, si portò all’attacco, attirando su di sé il fuoco nemico. Quindi, si diresse con rotta nord sull’isola di Pelagosa, dove sapeva trovarsi una formazione di incrociatori italiani intenti a effettuare uno sbarco di truppe. L’esploratore “Helgoland”, si lanciò all’inseguimento, richiedendo via radio l’aiuto dei suoi caccia. Intanto, il “Turbine” riusciva ad aumentare la distanza. Alle 5.30 furono avvistate due unità, si trattavano dei moderni caccia “Tatra” e “Csepel”. Il “Turbine” si trovò così accerchiato, con il “Cespel” sulla sinistra, di poppa il “Tatra” e a dritta l’esploratore “Helgoland”. Subito dopo le navi austriache aprirono il fuoco colpendo il “Turbine” e ferendo alcuni marinai, compreso il comandante Bianchi. Il “Turbine” rispose al fuoco, colpendo il “Csepel”, nave più vicina. Alle 5.50 apparve di prora al caccia italiano un’altra unità, per un momento si sospese il fuoco, che riprese, non appena il nuovo arrivato fu identificato come il caccia austriaco “Lika”.
Il “Turbine” ormai circondato, continuò il combattimento con tutte le armi di bordo, alle 6.30 un colpo raggiunse la caldaia prodiera della nave italiana, provocando un’esplosione e la perdita di velocità; nonostante tutto si continuava a combattere fino all’esaurimento delle munizioni. Un secondo tiro colpiva la caldaia di poppa, provocando l’arresto della nave. Il “Turbine” a questo punto in preda agli incendi, senza più munizioni, era in balia del nemico, che si avvicinava continuando a fare fuoco. Le navi austriache giunte alla distanza di 1000 m. dal Turbine sospesero di sparare, e intimarono all’equipaggio di arrendersi, e di prepararsi alla cattura. Ma, il comandante Bianchi, ordinava l’apertura dei kingstone (valvole di presa diretta a mare), per causare l’affondamento della nave. Distrutti i documenti segreti, il comandante si portava in plancia e ordinava l’abbandono nave. Bianchi, incurante dei ripetuti appelli del suo equipaggio ad abbandonare la nave, fu raggiunto a nuoto da un sottufficiale, che lo trascinò in mare. Il “Turbine” affondava alle 6.51. Mentre gli austriaci raccoglievano i superstiti italiani, comparvero sulla scena (provenienti da Pelagosa, dove avevano interrotto le operazioni di sbarco, non appena avvisati della battaglia in corso) l’incrociatore protetto “Libia” e l’incrociatore ausiliario “Città di Siracusa”, che cercarono di tagliare la rotta di rientro alla squadra nemica. Vista la situazione, gli austriaci si allontanarono a tutta velocità inseguiti dalle cannonate delle navi italiane, le quali ebbero il compito di terminare il recupero dei superstiti. Dei 53 uomini dell’equipaggio, 10 persero la vita, 32 tra cui il comandante Bianchi, furono fatti prigionieri dagli austriaci e 11 furono recuperati dalle navi italiane».
(1) Virginio Trucco è nato a Roma, ha frequentato l’Istituto Tecnico Nautico “Marcantonio Colonna”, conseguendo il Diploma di Aspirante al comando di navi della Marina Mercantile. Nel 1979, frequenta il corso AUC (Allievo Ufficiale di Complemento) presso l’Accademia Navale di Livorno, prestando servizio come Ufficiale dal 1979 al 1981. Dal 1981 è dipendente di Trenitalia S.p.A. Lo storico navale Virginio Trucco è membro dell’Associazione Culturale BETASOM (www.betasom.it)
Foto a corredo dell’articolo: La nave da battaglia Ammiraglio di Saint Bon
Giuseppe Longo
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