Oggi vi invito metaforicamente a entrare nello studio di uno psicoterapeuta e … ad accomodarvi sulla sua poltrona.
Per il nostro deontologico obbligo di privacy, non parliamo di ciò che succede nei nostri studi, come spesso non siamo inclini a dire di noi, per quel sottile confine tra professionalità e personalità che ci rende più disposti all’ascolto e addestrati alla riservatezza.
Questa impenetrabilità ha creato e crea convinzioni a volte molto lontane dalla realtà.
Le fantasie sono tante, una in particolare è quella per cui avremmo il “controllo” sulla mente altrui e un “grande potere”, quasi fossimo detentori di verità e soluzioni assolute.
Come persone, questo a volte ci priva agli occhi altrui di quei tratti umani che possono renderci come tutti, fragili, fallibili, stanchi, indisponibili, esposti agli scossoni della vita.
Ma al di là di questo, cosa succede in uno studio di psicoterapia?
Spesso il paziente arriva con grandi aspettative o si rivolge a noi come “ultima spiaggia”, dopo vari, infruttuosi tentativi. Tali visioni vanno riequilibrate, ma non con spiegazioni razionali; non si tratta di convincere ma di co-costruire e sperimentare una relazione umana e terapeutica, basata sulla fiducia, sull’autenticità, sull’etica.
Durante il processo ci troviamo a calibrare atteggiamenti protettivi ed accudenti, con la necessità di dare un sostegno che sia “spinta” e non più solo “rifugio”.
A volte ci sentiamo in dubbio, ma se ne cogliamo la fertilità, esso ci guida con umiltà ad avere un’apertura “curiosa” e interessata verso l’altro.
Possiamo confrontarci col senso di frustrazione o sentire una profonda gratificazione, ma conservando una lucida consapevolezza: come la nostra soddisfazione non deve essere frutto di un “delirio di onnipotenza”, allo stesso modo accettiamo che una persona può non evolvere come vorremmo, riconoscendo e rispettandone l’impegno e la fatica.
Infine, come dopo un intenso viaggio in cui abbiamo scoperto nuovi luoghi, alcuni graditi e altri meno, in cui ci sono stati imprevisti ma anche bellissimi momenti, si può far ritorno a “casa”.
E’ il tempo del saluto e della chiusura della terapia, vissuti nel contrasto tra il dispiacere e la bellezza del lasciare andare.
Un grazie va ai nostri pazienti, poiché è tanto ciò che apprendiamo da loro.
Noi, dobbiamo poter “stare” saldi e comodi sulla nostra poltrona, sostenuti da un modello teorico che ci orienta e dalla consapevolezza delle nostre emozioni.
In ogni seduta c’è una continua messa in gioco di sé; non siamo depositari inanimati di unici, delicati, dolorosi, smarriti mondi interiori, ma abbiamo il privilegio di diventare figure di riferimento che non possono fingere o astenersi dall’essere se stessi.
Così condividiamo vissuti e sensazioni fisiche che la relazione ci suscita, nella fiducia che insieme e in quel momento, gli stiamo dando vita; questo “rispecchiarsi” è dare senso a ciò che accade e per noi terapeuti della Gestalt, è potente, irrinunciabile strumento di lavoro che rende consapevole e spontaneo il contatto di ognuno, con se stesso e con l’altro.