Un saluto molto cordiale a Sua Eminenza, al ministro De Vincenti, al Presidente della Regione, con gli auguri di buon lavoro, al sindaco di Partanna che ci ospita e a tutti i sindaci del Belìce che sarò ben felice di riceverli come sono sempre lieto di incontrare i sindaci di ogni parte d’Italia perché rappresentano il riferimento primo delle comunità che compongono il nostro Paese.
Ricordiamo oggi – e lo abbiamo fatto vedendo documenti di grande efficacia – a mezzo secolo di distanza, il sisma che devastò la Valle del Belìce, primo terremoto devastante del dopoguerra. Otto anni anni dopo avvenne quello del Friùli.
Centodieci anni fa erano state colpite Reggio Calabria e Messina, con oltre 100.000 morti: la prima devastazione di queste proporzioni a ferire l’Italia unita.
Le caratteristiche geo-morfologiche del nostro Paese nnon ci hanno risparmiato una serie di cataclismi che hanno accompagnato le vicende del nostro popolo anche in questi ultimi decenni. Parlano le ferite dell’Irpinia e della Basilicata, dell’Umbria, delle Marche, dell’Abruzzo, dell’Emilia Romagna, del Lazio.
Le capacità dell’intero Paese di reagire alle calamità naturali hanno rappresentato momento della verità, misura della coesione nazionale, del riconoscersi in un comune destino.
Via via si sono affinate capacità previsionali e di pronto intervento, superando lo stato di impreparazione di allora rispetto alle emergenze, sino all’attuale modello, frutto di approfondimento; e sperimentato.Nel 1970, due anni dopo il terremoto in questo territorio, intervenne la prima legge sulla protezione civile.
Contemporaneamente un’altra legge, due anni prima di quella sull’obiezione di coscienza, prevedeva per i giovani del Belìce la possibilità del servizio civile in luogo di quello militare.
Questa zona ha sollecitato l’intero Paese, per più aspetti a rinnovarsi.
In prima fila, allora come oggi, gli istituti dello Stato e della Regione, ma, sul terreno, soprattutto i Sindaci e le amministrazioni locali, le parrocchie, i volontari di tante realtà.
Il nostro ringraziamento, rinnovato, va a quanti ebbero parte nell’opera dei soccorsi, a quanti avviarono il processo di ripresa.
Fra le vittime, cinque soccorritori -poc’anzi ricordati con la consegna delle targhe – ai quali la Repubblica ha voluto riconoscere la Medaglia d’oro al valor civile e che anche io desidero ricordare: i vigili del fuoco Giuliano Carturan, Alessio Mauceri, Giovanni Nuccio, Saverio Semprini; il carabiniere Nicolò Cannella.
La sequenza sismica che seguì a quella notte del 14 gennaio 1968 si protrasse quasi per un intero anno. Se possibile, una sofferenza aggiuntiva a quelle delle morti e delle distruzioni.
Chiunque sia stato pesantemente colpito da un terremoto può testimoniare come le scosse e la catastrofe che provocano – accanto ai lutti e ai danni materiali – lascino tracce irreversibili negli animi. La memoria di ciò che è accaduto non si separa più dal vissuto di ciascuno.
Non è stato diverso nella Valle del Belìce che qui, oggi, ricorda le sue tante vittime, l’accidentato percorso della ricostruzione, la fatica accompagnata al tormento delle scelte di vita personale e di quelle complessive delle popolazioni colpite.
Non è stato facile, non è facile per nessuno.
Al disastro naturale in questi centri si aggiunse un ulteriore danno sociale, che non si riuscì a evitare, e che toccò famiglie e comunità, con episodi di emigrazione verso il Nord Italia e verso l’estero che coinvolsero migliaia di siciliani. Un ulteriore dissanguamento per queste terre.
A mezzo secolo di distanza si misura qui come non basterà mai, nelle tragedie della natura, la lena dei soccorritori, la generosità dei donatori, l’impegno delle istituzioni, la laboriosità dei cittadini, a colmare un vuoto, a ricostruire l’anima di un luogo, a indicare un futuro. Tutto questo è indispensabile, reca sostegno e sollievo, ma rappresenta una premessa, per quanto preziosa.
Al centro delle esigenze non può che esservi la determinazione di adoperarsi per la sopravvivenza delle identità, della cultura del luogo colpito.
La risposta elaborata da parte delle pubbliche autorità intendeva essere ambiziosa: non solo provvedere alla semplice ricostruzione delle case e dei paesi distrutti, ma avviare, altresì, politiche di sviluppo che valessero a sottrarre la Valle del Belìce alla sua condizione di ritardo.
Questo alla base del decreto legge varato dal governo Moro il 22 febbraio successivo all’evento.
L’equilibrio tra funzione dello Stato, funzione della Regione, ruolo ed effettiva partecipazione alle scelte da parte della popolazione locale, non si è sempre composto in modo armonioso e positivo, gravando sulla efficacia degli interventi.
Profonde le trasformazioni: interi paesi riedificati in nuove aree, con architetture e scelte urbanistiche figlie di visioni nuove, talvolta con l’aspirazione ad affidare all’arte la ricerca di una identità proiettata verso la modernità.
Accanto alle rovine abbandonate, a villaggi fantasma che si stagliano all’orizzonte, si sono aggiunti, non senza sofferenza, centri abitati della ricostruzione, luoghi nei quali non è sempre stato facile riconnettere i legami delle collettività così duramente percosse, ricollocandovi appieno le identità perdute.
Accanto ai ruderi – monito permanente: è doloroso separarsi dai simboli in cui ci si riconosce, il campanile, il palazzo del Comune, che hanno marcato una appartenenza – la memoria collettiva si nutre del Museo voluto a Santa Margherita Belice, nella chiesa madre, con l’obiettivo di testimoniare l’immagine e i valori di questa terra.
Possiamo insieme rievocare il percorso di riscatto di questo territorio, orgogliosamente perseguito in questi anni.
Le iniziative di mobilitazione popolare hanno sempre accompagnato, fin dalla discussione in Parlamento del decreto legge sulla ricostruzione, le vicende di questo mezzo secolo.
Come non ricordare, fra le altre, la voce di mons. Riboldi, allora don Antonio Riboldi, parroco di Santa Ninfa, scomparso di recente, animatore della storica lettera dei ragazzi delle scuole elementari e medie, rivolta ai parlamentari; e del “viaggio della speranza”, come ebbe modo di definirlo lui stesso, con i piccoli che incontrarono, a Roma, Sandro Pertini, Aldo Moro, Giovanni Spagnolli, Giovanni Leone, massime autorità della Repubblica.
Oggi facciamo memoria del passato, e, insieme, vogliamo ricucire gli elementi della storia di comunità allora lacerate dal terremoto.
E’, per citare ancora don Riboldi, il “misurarsi sulla storia”. Una storia che di strada ne ha fatta nonostante insuccessi e ritardi.
La strada percorsa dal Belìce, terra di produzioni di qualità, con iniziative sperimentali, di turismo, con la volontà di impegnarsi per consentire ai propri giovani di spendere i propri talenti qui e ora, disegnando concreti e approfonditi progetti di sviluppo.
Intendiamo confermare l’aspirazione alla vita e la volontà di famiglie e di popolazioni così pesantemente segnate cinquant’anni addietro e che, tuttavia, hanno trovato e trovano, in sé, le forze necessarie a sconfiggere un evento che sembrava pretendere rassegnazione.
Si tratta della costante sfida che si presenta nella società siciliana, nell’intera società italiana.
Per vincerla – si sia cittadini, amministratori pubblici, uomini delle istituzioni, intellettuali, soggetti sociali ed economici – occorre essere agenti di efficacia e di legalità attivi e determinati, nella realizzazione del proprio destino e nelle scelte per disegnarlo.
Nei giorni scorsi alcuni sindaci del Belìce hanno detto: stiamo costruendo il futuro. Questa affermazione non è soltanto un messaggio di rassicurazione ma manifesta orgoglio protagonista, determinazione per lo sviluppo della vita di queste comunità, convinzione di poter superare, con il necessario sostegno della comunità nazionale, le difficoltà che rimangono nel presente. Quelle parole manifestano ragionevole, fondata fiducia nel futuro.
E’ un messaggio che tengo a condividere con tutti voi.