A cento anni dalla marcia di Ronchi – Hic manebimus optime

Intervista a Monica Gasparotto Battaglia con la supervisione storica di Antonio Mucelli, entrambi della Federazione Nazionale Arditi d’Italia delle Sezioni di Trieste, Fiume, Istria e Dalmazia e Treviso. A cura di Giuseppe Longo

Nella notte tra l’11 e il 12 settembre di cento anni fa, Gabriele d’Annunzio al seguito dei suoi legionari, con un colpo di mano occupava la città istriana di Fiume. Il poeta, tra un tripudio di folla, fu accolto trionfalmente dalla popolazione e con tutti gli onori militari. In questo modo D’Annunzio, che già da tempo seguiva le sorti della città e che mostrava agli italiani di Fiume un profondo sentimento d’affetto, poté coronare il suo sogno: proclamare l’annessione all’Italia, un’avventura questa che durerà più di un anno.

Gruppo di Legionari fiumani con l’ultimo a destra il Tenente Elia Rossi Passavanti. Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele

Tuttavia, i piani inerenti ad una annessione di Fiume all’Italia, in virtù all’autodeterminazione dei popoli, risalgono sin dal 18 ottobre del 1918, quando Andrea Ossoinack, deputato al Parlamento di Budapest (unico rappresentante fiumano alla Conferenza di pace di Parigi del 1919), rivendicava l’annessione di Fiume all’Italia, respingendo ogni imperante ipotesi di accorpamento al regno dei serbi croati e sloveni (SHS). Più avanti, il 30 ottobre, il Consiglio Nazionale Italiano di Fiume (CNI) – il primo governo di Fiume indipendente – presieduto dal medico e patriota Antonio Grossich (1849-1926), con un plebiscito proclamò l’annessione della città fiumana al Regno d’Italia, appellandosi al diritto di autodecisione dei popoli.

Ciò nonostante le truppe croate ancora in servizio dell’Impero asburgico e stanziate nel piccolo porto Adriatico, occuparono gli Uffici del Comune. In risposta, il popolo di Fiume invocò l’intervento italiano. Infatti, il 2 novembre il CNI presieduto da Antonio Grossich e dal sindaco Antonio Vio inviarono a Venezia per chiedere aiuto, cinque suoi emissari: Giovanni Matcovich, Giuseppe de Meichsner, Mario Petris, Attilio Prodam e Giovanni Stiglich, questi ultimi ricordati come gli “Argonauti del Carnaro”.  Di conseguenza, il 4 novembre alcune navi della Regia Marina arrivarono nel porto di Fiume, ma non furono autorizzate a prendere possesso della città poiché essa si trovava fuori dalla linea di armistizio. Tuttavia, le truppe serbo-croate con un colpo di mano, tentarono di occupare la città istriana, ma trovarono l’intera cittadina coesa e forte nella propria decisione, quest’ultima, dimostrata largamente con la consultazione popolare del precedente 30 ottobre.  

Nel mentre, altre navi italiane raggiunsero i territori previsti dal Trattato di Londra quali: Zara, Pola, Sebenico, e le altre isole dalmate sino a Curzola, compresa Lesina e Pago, che furono occupate.

Intanto, il comando interalleato per tutelare l’autonomia della città di Fiume, inviò il 17 novembre, truppe italiane, americane e successivamente franco-inglesi. Tuttavia, per una sfrontata simpatia francese alla causa del Regno SHS, si originò un incidente tra il popolo fiumano e i soldati italiani e transalpini, storicamente ricordato come i “Vespri Fiumani”. Infatti, all’origine del grave episodio fu il gesto di un soldato senegalese1 che strappando ad una giovinetta fiumana la coccarda tricolore con la scritta “Italia o morte” la ricoprì d’insulti.

“…L’ira popolare divampò incontenibile. I francesi spararono sulla folla e ciò contribuì a centuplicare il furore dei fiumani al cui fianco si schierarono i granatieri e gli arditi. Fu un Vespro 2 di breve durata ma violentissimo: un eccidio di francesi e, nella quasi totalità, di senegalesi. Il numero delle vittime non si è mai saputo con esattezza ma l’episodio ebbe, almeno nei riguardi di Fiume, una importanza politica che provocò le intollerabili sanzioni della Commissione interalleata d’inchiesta le cui conclusioni si compendiavano nello scioglimento del Consiglio Nazionale, della costituita legione Volontari fiumani, nello sgombero della base navale francese e nella riduzione del contingente italiano parificato a quello anglo-francese e, infine, nell’imposizione della gendarmeria inglese, che, fatalmente, avrebbe finito con l’assumere il controllo della cosa pubblica ingerendosi nella vita della città…3”.

Il 25 agosto 1919 ebbe inizio il ritiro del contingente italiano; però, un gruppo di Ufficiali dei Granatieri, giunti a Ronchi, ossessionati dal desiderio di ritentare a qualunque costo la liberazione di Fiume (rischiando peraltro la Corte marziale), giurarono di ritornare a Fiume per salvarla all’Italia. Con il consenso di Gabriele d’Annunzio che si unì ai granatieri, al seguito di un’ingente forza militare da egli battezzata Legionari, avanzò verso Fiume e fu così che ebbe inizio la “Marcia di Ronchi”.

Gli antefatti dell’impresa Fiumana

Con la Terza Battaglia del Piave, combattuta tra le armate del Regno d’Italia e l’Imperiale e Regio Esercito austriaco, si concludeva a Vittorio Veneto con esito positivo l’offensiva italiana, quest’ultima, coadiuvata dalle divisioni anglo-francesi. La Battaglia di Vittorio Veneto (24 ottobre – 3 novembre 1918) causò la capitolazione dell’esercito austro-ungarico. In realtà, l’Austria il 3 novembre del 1918 firmava l’armistizio a Villa Giusti, nella residenza padovana del conte Vettor Giusti del Giardino. Sul fronte occidentale, anche la Germania dopo il fallimento dell’Offensiva di primavera (Kaiserschlacht), nota anche come “Offensiva di Ludendorff”, capitolava. Infatti, con il conseguente cedimento della linea Hindenburg, crollava l’Impero germanico. Pertanto, il giorno 8 novembre i plenipotenziari tedeschi giungevano a Rèthondes, per firmare anch’essi l’armistizio davanti ai delegati delle potenze Alleate; era la fine degli imperi di Austria, Germania, Russia e Turchia.

La Conferenza per la pace svoltasi a Parigi (dal 18 gennaio 1919 sino al 21 gennaio del 1920, e caratterizzata da alcuni intervalli), sotto la presidenza del Primo Ministro francese, Georges Clemenceau (1841 – 1929) parteciparono solamente le nazioni vincitrici, le quali si impegnarono a tracciare un nuovo contesto geopolitico in Europa e a redigere i seguenti trattati di pace:

Con la Germania (Trattato di Versailles) 28 giugno; con l’Austria (Trattato di Saint-Germain), 10 settembre 1919; con la Bulgaria (Trattato di Neuilly), 27 novembre 1919; con l’Ungheria (Trattato del Trianon), 4 giugno 1920; e con la Turchia (Trattato di Sèvres), 10 agosto 1920; pace, imposta e non negoziata con gli Imperi centrali usciti sconfitti dalla guerra.

Da questi Trattati, dunque, si ridisegnava la cartina europea e del Medio Oriente, sulla base del principio della autodeterminazione dei popoli, proposta dal presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson (1856-1924).

I principi della Conferenza di Parigi si ispirarono ai “Quattordici punti di Wilson”, dal nome dato al discorso che il Presidente pronunciò l’8 gennaio del 1918 al Congresso degli Stati Uniti d’America riunito in sessione congiunta. In questi “Quattordici punti” si elencavano le intenzioni relative all’ordine mondiale dopo la Grande Guerra. 

Dal Trattato con l’Austria, l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige sino al Brennero, la Venezia Giulia con Trieste, l’Istria fino al Monte Nevoso. Tuttavia, gli fu impedito di annettersi all’italianissima città di Fiume (non prevista dal Trattato di Londra), alla Dalmazia (con l’eccezione di alcune isole e della città di Zara), quest’ultima regione, promessa all’Italia con il Trattato di Londra ma che il Presidente Wilson appellandosi al principio di nazionalità, volle fosse assegnata alla Jugoslavia.

Infatti, il presidente statunitense non era intenzionato ad applicare in dettaglio i contenuti del Trattato di Londra, stipulato dal governo italiano con i rappresentanti della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) e non era disposto ad accettare le richieste di Roma a spese degli slavi, «poiché si spianerebbe la strada all’influenza russa e allo sviluppo di un blocco navale dell’Europa occidentale4»

A seguito di un appello del presidente Wilson rivolto al popolo italiano che lo invitava a dare dimostrazioni di generosità verso gli slavi (in questo modo scavalcando ufficialmente il nostro governo), la delegazione italiana guidata dal Presidente del Consiglio dei ministri, Vittorio Emanuele Orlando e il Ministro degli esteri Sidney Sonnino, abbandonò in segno di protesta la Conferenza. Nel breve intervallo della loro assenza, le potenze vincitrici proseguirono nelle trattative e il nostro paese fu escluso dalla trattazione sui compensi coloniali.

Ciò nonostante, la delegazione italiana tornò sui propri passi, e il nuovo presidente del consiglio del Regno d’Italia Francesco Saverio Nitti (1868-1953) il 10 settembre sottoscrisse il Trattato di Saint-Germain, che definì i confini italo-austriaci, escludendo quelli orientali.

Il risultato fu che all’Italia gli furono riconosciuti il Trentino, il Tirolo e l’Istria; Rodi e il Dodecaneso e il protettorato in Albania, però non gli furono riconosciuti la Dalmazia settentrionale e Fiume, quest’ultima data alla Iugoslavia.

Gli esiti della Conferenza di Parigi ebbero forti ripercussioni sull’opinione pubblica italiana, tanto che i nazionalisti parlarono di “vittoria mutilata”. Il 23 giugno del 1919, Emanuele Orlando si dimise dalla carica di primo ministro, gli successe Francesco Saverio Nitti, e al posto di Sonnino subentrò Tommaso Tittoni. Il nuovo Primo Ministro cercò di trovare una soluzione attraverso trattative dirette con la Iugoslavia, ma furono interrotte a causa della Questione Fiumana.

In realtà, nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1919, con un atto di insubordinazione una forza di circa 2500 uomini, partiti da Ronchi e guidata da Gabriele d’Annunzio (noto per le sue imprese patriottiche), composta da: Granatieri, Bersaglieri, Arditi, soldati della Brigata Regina, una squadriglia di autoblindo, soldati di una batteria d’artiglieria, alcuni garibaldini, sindacalisti rivoluzionari, intellettuali del movimento futurista, volontari irregolari di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, occupò militarmente la città di Fiume chiedendo l’annessione al Regno d’Italia.

Gruppo di Arditi alla mensa di Fiume, il seconda da sinistra è ancora la M.O.V.M. Tenente Elia Rossi Passavanti. Si possono notare sulla manica del braccio destro i cinque distintivi per ferite da guerra. E sopra il paramani i due distintivi per promozione sul campo. Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele.

L’8 settembre del 1920 fu istituito un governo di reggenza provvisorio: la “Reggenza italiana del Carnaro”, nell’attesa di una futura annessione all’Italia, e Gabriele d’Annunzio si proclamò Capo del Governo, segnando così il capitolo finale dell’impresa di Fiume.

Gruppo di Legionari Arditi a Fiume. Al centro si vedono il comandante D’Annunzio, sulla sua sinistra (con gli occhiali da sole a causa di una ferita di guerra la M.O.V.M. Elia Rossi Passavanti, Comandante della Compagnia D’Annunzio denominata “La Disperata”. Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele

Intanto il Primo Ministro Giolitti spinto dalle pressioni internazionali accelerò i contatti italo-iugoslavi che sfociarono con la stesura finale del Trattato di Rapallo, quest’ultimo firmato il 12 novembre. Il Trattato sancì la nascita dello Stato libero di Fiume: una repubblica autonoma amministrata dalla Società delle Nazioni.

Però l’accordo firmato dal nostro governo non fu riconosciuto da D’Annunzio, di conseguenza la reazione internazionale si fece sentire e fu imposto al governo italiano di muoversi militarmente.

Il 20 dicembre iniziarono le ostilità lungo la linea di confine con lo scambio di fucileria da entrambe le parti. Il 24 dicembre l’esercito italiano intervenne con un rapido attacco per sgomberare Fiume e i suoi Legionari. Gli scontri continuarono anche nei giorni successivi, tranne per il giorno di Natale, poiché da parte del Generale Caviglia (commissario straordinario per la Venezia Giulia) fu concessa una tregua. Pertanto, gli scontri ripresero il 26 dicembre con le truppe regolari che attaccarono la città di Fiume, mentre l’indomani, la corazzata “Andrea Doria” cannoneggiava il Palazzo del Comando fiumano.

Il 28 dicembre D’Annunzio riponeva il potere nuovamente nelle mani del Podestà e del Popolo di Fiume e il giorno dopo firmava le dimissioni. Le operazioni militari terminarono il 31 dicembre con la resa degli occupanti.

A Fiume si costituì un governo provvisorio che provvide alla realizzazione dello Stato Libero come stabiliva il Trattato di Rapallo. Tuttavia, come vedremo in seguito, la città di Fiume verrà annessa all’Italia nel 1924 mediante un ulteriore accordo tra il governo italiano di Mussolini e la Jugoslavia, e quest’ultima riceveva in cambio Porto Barros e il cosiddetto Delta.

Abbiamo chiesto a Monica Gasparotto Battaglia5 di raccontarci gli avvenimenti salienti che riguardarono le varie fasi dell’impresa fiumana condotta da D’Annunzio sino all’epilogo. 

Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele

Cosa fatta capo ha – Fiume: breve storia di una Santa Impresa Italiana

Il messaggio di Frassetto è arrivato questa notte”.

“Che avete risposto?” gli chiede Amaro.

“Che parto.” Gli risponde il Poeta.

“Quando?”

“Oggi alle due” risponde d’Annunzio.

“Ma voi siete ammalato” lo interrompe Amaro inquieto.

“Che importa? L’aria del Carnaro mi guarirà.”

(dialogo tra d’Annunzio e Luigi Amaro, suo fedele amico e medico, da Tom Antongini, D’Annunzio aneddotico)

“Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile… Sostenete la Causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio.”

(11 Settembre 1919 – lettera di Gabriele d’Annunzio a Benito Mussolini)

Sì, è malato Gabriele d’Annunzio quando, all’alba dell’11 settembre 1919, si alza dal letto nella famosa Casetta Rossa di Venezia, indossa l’uniforme del 5° Reggimento Lancieri di Novara, mostrine al bavero bianche e gradi di Tenente Colonnello ai paramani, sale su di un motoscafo e si dirige in terraferma, a San Giuliano. Ad aspettarlo una Fiat rosso scuro. Meta Ronchi, cittadina della Venezia Giulia ai più sconosciuta. Parte con capotte rigorosamente abbassata, nonostante la febbre. Indossa una palandrana bianca. Al fianco il suo fidato guascone, il pilota di caccia Tenente Guido Keller, personaggio multiforme, già famoso Icaro nella squadriglia del celebre Magg. Baracca, l’Asso di Cuori, lo spirito libero vegano, naturista, omosessuale ma gioiosamente promiscuo, cocainomane, la cui audacia rasenta la follia, tanto da arrivare a sorvolare Roma e gettare sul Parlamento un pitale – chiaro simbolo della sua opinione sul governo italiano. Guido è talmente prossimo al Vate da essergli stato concesso, privilegio raro, di dargli del “tu”. Ad accompagnarli il Tenente dei Granatieri Riccardo Frassetto, il Maggiore Carlo Reina e l’attendente Italo Rossignoli. Alla guida l’autista Giacomo Basso.

Ci sono utopie che cessano di esser tali quando l’Ardire sublima il Pensiero rendendolo Azione, a dispetto di tutto; ne è fulgido esempio il progetto, per molti versi quasi chimerico, dell’Impresa di Fiume.

Io partii solo da Venezia nel pomeriggio di giovedì 11, con due buoni compagni e con trentanove gradi di febbre. Scelsi il giorno 11 in commemorazione dell’impresa di Buccari. Il mio piccolo quartier generale notturno stava di faccia all’alberghetto dove gli sbirri sorpresero Oberdan. La partenza fu ritardata da più di una avversità. Potei superare ogni impedimento, e formare la colonna verso le cinque del mattino. Le stelle brillavano come in Quarto dei Mille. Erano tutte fauste. L’alba era corsa da un brivido garibaldino. Su la via di Fiume presi con me quanti volli. Poche mie parole bastavano a muovere compagnie, battaglioni, squadriglie.”(G. d’A.)

“Sento fetor di pace” predicava il Vate alle folle ancor prima dell’ingresso trionfale in quel di Vittorio. L’Orbo Veggente già prevedeva, in cuor suo, un accordo non del tutto favorevole all’Italia. Il 24 ottobre pubblicava sul Corriere della Sera un pezzo dal titolo “Vittoria nostra non sarai mutilata”. E invece vittoria mutilata fu. Dalle trattative di pace, apertesi a Parigi nel gennaio 1919, l’Italia ottenne le terre irredente di Trento e Trieste ma l’opposizione americana e francese condusse a un’impasse per quanto riguardava la Dalmazia e Fiume: la prima era promessa all’Italia col patto di Londra; la seconda era reclamata perché abitata prevalentemente da italiani. Poco cosciente di quanto la situazione fosse critica, il Presidente del Consiglio francese si lasciava andare a facili ironie: “Fiume? E perché non la luna?”. Già nell’ottobre 1918, nella città contesa, si andava costituendo un Consiglio Nazionale presieduto da Antonio Grossich che propugnava l’annessione al Regno d’Italia. Il 31 ottobre 1918 cinque cittadini fiumani denominati gli Argonauti del Carnaro, a costo della vita attraversano il golfo dell’Adriatico per raggiungere Venezia e chiedere disperatamente aiuto alla Regia Marina Militare, riferendo all’ Ammiraglio italiano Thaon de Revel la difficile situazione della città dalmata. E ancora, nell’aprile 1919 quando apparve fin troppo evidente che la vittoria mutilata stava per diventare una certezza e non era più solo un mesto presentimento, i volontari della Legione Fiumana del Cap. Giovanni Host-Venturi e del Magg. Giovanni Giuriati avevano il loro da fare a cercare di difendere la città dal contingente francese, dalle poco o per nulla velate simpatie filo-jugoslave. Il 30 di giugno d’Annunzio, mentre si trova a Roma, assume il comando del movimento di resistenza fiumano propostogli da Grossich durante un incontro nella capitale. Gabriele, in petto, è raggiante: il progetto di conquistare la Città Olocausta, che lo solletica da tempo, inizia a prender forma: esso alimenta la fiamma  “del pronti sempre a osare l’ inosabile” accesa nella notte tra il 10 e 11 febbraio 1918 nel mare di fronte a Fiume, quella Beffa di Buccari che trova continuità ideale nella Santa Impresa. Un embrione che lascia ai fatti lo spazio prima occupato dalle parole di fuoco con cui egli era tornato ad arringare la folla. Atto primo e necessario allo scopo: reclutare volontari per la costituzione di un corpo paramilitare che fosse equiparabile a un esercito.

Nel mentre, a Parigi, dopo un periodo di acuta tensione sfociata in violenti episodi di scontro con soldati francesi, si decide l’allontanamento da Fiume degli irrequieti Granatieri di Sardegna; il Reparto lascia la città il 25 agosto sfilando in mezzo alla popolazione quasi in lutto, che cerca di trattenerli con suppliche e manifestazioni patriottiche. I Granatieri si acquartierano a Ronchi, forse oltraggiati di certo non addomesticati; il 31 agosto sette ufficiali – che passeranno alla storia come “I Sette Giurati di Ronchi” (il Ten. Riccardo Frassetto, Ten. Vittorio Rusconi, S.Ten. Claudio Grandjacquet, S.Ten. Rodolfo Cianchetti, S.Ten. Lamberto Ciatti, S.Ten. Enrico Brichetti, S.Ten. Attilio Adami) – prestano giuramento alla Santa Causa di Fiume e inviano a d’Annunzio una lettera in cui lo invitano a porsi a capo di una spedizione che ne rivendichi l’italianità.

Sono i Granatieri di Sardegna che Vi parlano. È Fiume che per le loro bocche Vi parla. Quando, nella notte del 25 agosto, i Granatieri lasciarono Fiume, Voi, che pur ne sarete stato ragguagliato, non potete immaginare quale fremito di entusiasmo patriottico abbia invaso il cuore del popolo tutto di Fiume … Noi abbiamo giurato sulla memoria di tutti i morti per l’unità d’Italia: Fiume o morte! e manterremo, perché i Granatieri hanno una fede sola e una parola sola. L’Italia non è compiuta. In un ultimo sforzo la compiremo”.

Bandiera che adornava la città di Fiume durante la Santa Entrata, con i motti tra i più amati e voluti da D’Annunzio. Collezione privata di Nicola Gabriele.

La Fiat arriva a Ronchi. Ad attendere il Poeta-Soldato Granatieri e Ufficiali pronti a muovere su Fiume. Centoundici i chilometri da percorrere. Durante il tragitto verso la città dalmata alla colonna dei ribelli si uniranno uomini di tutte le armi e reparti, soprattutto Arditi e Bersaglieri acquartierati in zona, contagiati dal sogno che va prendendo vita.

Il primo coup-de-theatre avviene oltrepassato il confine orientale, a un chilometro dalla sbarra di Cantrida, presidiato dal Generale Vittorio Pittalunga. “Lei rovina l’Italia” è l’accusa che il Generale muove a d’Annunzio. “Lei rovinerà l’Italia, se si opporrà che il giusto suo destino si compia, se si farà complice di una politica infame” gli risponde il Comandante, senza nemmeno scendere dall’auto. Il Generale è disposto ad aprire il fuoco per fermare “colui che si crede l’Onnipotente al di sopra dell’autorità dello Stato”. Ed ecco l’affondo del Vate, che rimarrà  scolpito nella memoria dei presenti: si alza in piedi e mostra la divisa con le mostrine candide, al petto le medaglie guadagnate durante la Prima Guerra Mondiale. “Avanti allora! Sparate su queste medaglie”!  Il Generale ammutolisce, in quel momento realizza che nessuno aprirà il fuoco contro fratelli italiani e che d’Annunzio entrerà a Fiume. I militari preposti allo scopo, soggiogati dai nastrini blu con stellette Oro, Argento e Bronzo e dal distintivo da mutilato, si scostano.  La colonna riparte, con i suoi 2600 uomini, i “disertori in avanti”, come avrà a chiamarli Marinetti, al grido di “viva l’Italia, viva Fiume!”. A Cantrida la barra viene schiantata dall’autoblindo di testa; dall’interno del mezzo, all’intimazione di “Indietro o faccio sparare”, si risponde con il motto in uso tra gli Arditi del XXVII Reparto d’Assalto : “Me ne frego!”.

L’automobile percorre piano il viale alberato che porta nel cuore della città, rallentata dall’assedio della folla, civili e militari, che fa ala al suo passaggio. Verso mezzogiorno del 12 settembre 1919 il Comandante entra trionfalmente a Fiume “senza alcun disordine”, acclamato come liberatore dalla popolazione italiana e dai volontari presenti. Suonano a festa le campane del Duomo, suonano le chiese, suonano le sirene delle navi nel porto. Sventolano i Tricolori.

“Si può morire con gioia dopo aver vissuta un’ora come quella della Santa Entrata. Non avevo mai sognato tanti lauri. Ogni donna fiumana, ogni fanciullo fiumano agitava un lauro, sotto un sole allucinante.” (G. d’A.)

Foto 2
12 settembre 1919: a bordo della sua Fiat rossa decapottabile, D’Annunzio è pronto per entrare a Fiume. Foto tratta dalle rete web.

Dal balcone del Palazzo di Comando una delegazione del Consiglio Nazionale Italiano di Fiume dichiara la liberazione della città e l’annessione all’Italia. Nel pomeriggio la folla inizia man mano ad accalcarsi sotto al Palazzo del Governatore. E’ lui che vuole: aspetta solo una parola del Comandante. D’Annunzio, stravolto dagli avvenimenti e dalla febbre ancora molto alta, sta riposando all’Hotel Europa. Keller lo sveglia, gli comunica che il Consiglio lo ha nominato Governatore, non senza la sua intercessione. Alle 18 il Poeta si affaccia alla ringhiera del Palazzo, spiega il Tricolore del Timavo, “santificato” dal sangue del Maggiore Giovanni Randaccio, e parla ad una folla di forse 35.000 persone: “Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola cosa pura: Fiume; vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione…”

“Eccomi. Sono venuto per donarmi intiero. E non domando se non di ottenere il diritto di cittadinanza nella Città di Vita” (G.d’A.)

La notizia dell’impresa fiumana scuote profondamente il governo e molta parte della politica italiana. Da quelli che sembravano poco più che discorsi da caffè ci si trova di fronte a un’azione militare fatta e finita. Fiume diventa per l’Italia  una spina nel fianco: l’Impresa va condannata ma bisogna, nel contempo, mediare per evitare di innescare una reazione a catena da parte delle frange più rivoluzionare che stanno germinando nel Paese. Il Tenente Generale Gandolfo Asclepia, Comandante del XXVI Corpo d’Armata stanziato ad Abbazia e incaricato di sedare la rivolta, fa – dannunzianamente quanto inutilmente – cadere da un aereo dei volantini per esortare gli occupanti a lasciare Fiume e a rientrare nei ranghi. I tre reggimenti di Bersaglieri inviati con il compito di liberare la città si uniscono ai Legionari. Lo stesso accade con l’equipaggio al completo della nave della Regia Marina “Cortellazzo”. Un totale fallimento. Il Vate non ha alcuna intenzione di lasciare Fiume e il suo esercito si va ingrossando man mano che passano i giorni. “Hic manebimus optime” risponde dopo aver ricevuto il comunicato ufficiale che considerava l’occupazione un “atto inconsiderato come dannoso“.

Crescono le defezioni nell’esercito regolare e le adesioni alla Causa da parte dei più eterogenei gruppi umani: irredentisti, monarchici, repubblicani, socialisti, anarchici, aristocratici, intellettuali, borghesi, proletari, artisti, scrittori, poeti, futuristi, esteti, curiose figure di dandy, apolitici, dadaisti, giovani, ragazzini imberbi e financo individui senza arte né parte, tutti attratti dal quel trascinatore di anime che insegna a disprezzare la banale, comoda indolenza della moderazione borghese e ad amare, invece, l’avventura, il pericolo, la sfrontatezza, la passione.  E il Comandante ama in particolar modo proprio gli Arditi, simbolo di quella ardente, sfrontata passione per lo sprezzo del pericolo; adora questi giovani ebbri, felici, belli e fieri, che considera gli eredi dei Legionari romani. Da giovanissimi e scapestrati  Arditi sarà formata proprio la sua guardia personale, “La Disperata”, creata e inquadrata da Guido Keller.

Fin da subito ai Reali Carabinieri, che sono rimasti in città defezionando e seguendo l’esempio del Capitano Rocco Vadalà, viene affidato il compito di mantenere l’ordine pubblico. “Occupata Fiume da D’Annunzio, questi affidava ai Carabinieri Reali il compito del mantenimento dell’ordine in un momento torbido per l’affluire tumultuoso di reparti e di persone isolate, non controllate da alcuno. Data immediatamente disposizioni per il servizio d’ordine, la vita della città venne subito ricondotta ad un ritmo sereno e tranquillo. Associandosi alla impresa, però, i carabinieri intesero di concorrere al tentativo di salvare la generosa città e ciò per il bene della Patria e del Re”.

“Il nome giusto della città non è Fiume ma Olocausta: perfettamente consumata dal fuoco tutta” (G.d’A.)

Olocausta ma destinata a diventare città di “Arte-Vita” in un tempo breve; posto dove vivere e creare qui-ora-subito per costruire una nuova Patria, sospesa in un eterno presente, senza passato né futuro se non quello dell’immediato. Fiume città futurista per eccellenza, il luogo di ogni possibilità, un ambiente romanzesco; Fiume, madre di tutte le provocazioni, padre di tutti i sogni: “Siamo nella città inquieta e diversa” dice d’Annunzio. Centro di sperimentazione di forme “altre” di vita, nudismo, naturismo, omosessualità, libero amore, uso di droghe, è a qui che confluiscono le visioni più bizzarre e più diverse, i soggetti più bislacchi, primo su tutti, ma non di certo unico, quell’aristocratico di origine svizzera Guido Keller, futurista nudista, che gira con un’aquila in spalla di nome Guido, personaggio geniale e fuori controllo. Ma ce ne sono tanti, giovani e pieni di energia: Henry Furst, brillante giornalista, nottambulo malizioso e bevitore, Mino Somenzi, scultore avanguardista, Giovanni Comisso, il samurai ardito innamorato dell’Italia Harukichi Shimoi, Marinetti. Per Keller, e per quelli come lui, l’Impresa Fiumana non è che il prologo di una rivoluzione che deve cambiare il mondo.

Fiume è una città che vive ogni giorno come sospesa in una curiosa e affascinante atmosfera di esultanza: “I comizi e i cortei di Fiume si formano istantaneamente, con rapidità fulminea: basta che una sirena fischi o che una fanfara suoni, e la dimostrazione è composta, e dilaga per tutta la città… Basta vivere qui in un giorno di festa, per afferrare il lato veramente futurista di questi movimenti di folla. Il fatto che essa è composta per metà almeno di donne, contribuisce a renderla più fresca e più lirica.” (M. Carli). Una festa che nasce dalla strada anche senza motivo, senza regole o organizzatori: “Donne e uomini commisti, senza riguardo, senza bisogno di conoscersi, contatti di gomiti stretti, quasi a comunicarsi magneticamente un sentimento implacabile che straripava nei guizzi delle persone colte da frenesia…” (M. Carli)

A Fiume, nel marasma di sovvertimento dei costumi, anche le donne si adeguano al nuovo clima di libertà sessuale.  Come in uno stato di  sospensione temporale e morale  “prosperano gli accoppiamenti veloci, estemporanei, saltuari dei legionari con ragazze disinibite o con le prostitute che affollano i numerosi bordelli”. La stagione fiumana è “un periodo di follia e di baccanale, sonante di rumore di armi e di quello, più sommesso, degli amori”; “tutti si divertono qui e fanno all’amore con le ragazze fiumane che hanno fama di essere belle e non difficili”.

Frenetica d’arte ed avanguardie, qui vedono la luce pubblicazioni innovatrici, come la “Testa di Ferro” rivista diretta dal Capitano delle Fiamme Nere Mario Carli, “la voce libera dei Legionari di Fiume”,  di Arditi e avanguardisti che tengono a differenziarsi sia dai monarchici che dalle falangi più reazionarie dell’esercito e l’associazione (che diverrà in seguito anche  rivista) Yoga, “Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione” ideata dall’instancabile dadaista Keller e il giovane scrittore trevigiano Giovanni Comisso, il cui manifesto teorizza la necessità di “insegnare la scienza dell’Amore cioè della Trasformazione. L’Amore come sensazione, come sentimento, come idea; […] la filosofia non come amore della Scienza, ma come Scienza dell’Amore”. Yoga è il movimento che meglio incarna l’essenza della Reggenza; attraverso la beffa e l’irrisione dell’avversario si propone di contrastare le personalità “ammuffite” e conservatrici che circondano d’Annunzio. Le azioni di Yoga sono eclatanti e prive di  programmazione: un  futurista salto nel vuoto che ben si adatta allo spirito della nuova città.

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Futuristi a Fiume; si riconoscono – da sx in piedi – Guido Keller, Filippo Tommaso Marinetti e Ferruccio Vecchi; in basso a sx Mino Somenzi. Foto tratta dalle rete web.

E’ vero, Fiume è certamente tutto questo ma, nel contempo, è molto di più e di intensamente diverso, un’esperienza che vuole essere anticipatrice d’un nuovo ordine politico-sociale, un impasto incandescente e  ribollente di stati d’animo idealistici e utopici, di visioni della vita dinamiche ed anarchiche, di necessità di  rinnovamento; è una risposta radicale alla lacerazione e alla sofferenza di una generazione che aveva fatto la guerra e ne era uscita con un modo totalmente diverso di comprendere l’ esistenza. “L’Italia aveva compiuto non solo una guerra di liberazione di terre e di uomini, ma soprattutto di liberazione da principi, idee e costumi che le erano stati imposti dalla casta borghese del secolo passato” (G. Comisso).

Essa è  il luogo ove quello spirito retorico e mistico, che non ha poca parte nella costruzione di quella “opera d’arte” che è la vita di d’Annunzio, trova terreno fertile: con un linguaggio artificioso, elegante, raffinato, audacemente affascinante, assolutamente colto e coinvolgente al limite del religioso, riesce ad ammaliare e a trovare seguaci per tradurre le parole in azione e a prolungare, questa azione, nel tempo. Egli fa della politica il proprio spettacolo: tutto è palcoscenico. Ecco allora che  Fiume diventa il luogo ideale  ove i concetti di Patria e Amor Patrio, nati sui campi di battaglia della Grande Guerra, trovano continuità e coronamento anche per quei giovani che, per questioni meramente anagrafiche, non poterono partecipare al conflitto e che sentono dentro un vuoto che solo l’Impresa può colmare. Ideali patriottici che si trasformano in atti concreti, talmente audaci da poter condurre anche all’estremo sacrificio. La Patria è così intesa come unione spirituale  di animi pronti a donare la vita per essa, in comunione con i caduti della Grande Guerra, i veri padri mistici dei nuovi combattenti. Proprio come per quegli uomini che il conflitto ha reso eroi e che a Fiume hanno il loro culto, nel mito del soldato caduto che reclama il diritto dell’Italia ai giusti compensi per i sacrifici compiuti. L’Impresa trova la sua ragion d’essere nella giustificazione che “la più grande Italia” non può rinunciare alla Dalmazia. In una concezione spirituale e religiosa del proprio ruolo, d’Annunzio si pone come Condottiero di un esercito fatto non solamente di uomini in carne ed ossa ma, più largamente, di spiriti che portano seco il Mito degli Eroi, dell’audacia, della giovinezza creatrice che va a formare una nuova società scrollandosi di dosso il grigiume della vecchia classe dirigente, sia attraverso la rottura dei vecchi vincoli disciplinari che con la creazione di una nuova disciplina dello spirito e del valore personale. Questa nuova gioventù, forgiata dalle parole immaginifiche e dalla personalità magnetica del Poeta-Guerriero, insegue un sogno fatto di vitalismo, rottura degli schemi, estetismo, disprezzo per i luoghi comuni e le convenzioni, in una dimensione ideologicamente quasi eucaristica con la Religione della Patria, il culto dei soldati caduti e la loro  elevazione a martiri e santi, in un’atmosfera in cui d’Annunzio è il messia e i Legionari i suoi nuovi apostoli. ”La forma di vincolo che ha preso «il legionario» verso «il suo Comandante» ha dello spirituale, e del magnetico; è fatta di una forma interiore e di dedizione perfetta. Il Comandante ha in sé il fascino del dominatore. Anche quando parla in umiltà. Anzi; è proprio allora che maggiormente si manifesta la sua immensa forza magnetica. La sua presenza è istantaneo dominio dello spirito; la sua parola è un annullamento delle volontà” (U. Foscanelli).

“Poche mie parole bastavano a muovere  compagnie, battaglioni, squadriglie.” (G.d’A.)

A suggellare la promessa di reciproca appartenenza tra il maestro e i discepoli, quale simbolo di una comunione di spirito e d’intenti, indistruttibile marchio coniato nel bronzo, una medaglia da appuntare sul cuore.

Nel corso di uno degli incontri serali al circolo Yoga, Keller annuncia la sua ultima, balzanissima idea: la creazione di una compagnia di giovani quanto estrosi Legionari quale guardia personale del Comandante. Reclutati, formati e inquadrati gli animi più inquieti e sregolati presenti a Fiume, battezza la squadra con il nome de “La Disperata”.

“Molti soldati venuti volontari dall’Italia, essendo privi di documenti non erano stati accolti dal comando e invece di andare via si erano accampati nei grandi cantieri navali della città. Andato a vedere cosa vi facevano, Keller trovò che se ne stavano nudi a tuffarsi dalle prue delle navi immobilizzate, altri cercavano di manovrare vecchie locomotive che un tempo correvano tra Fiume e Budapest, altri arrampicati sulle gru, cantavano. Gli apparvero ebri e felici, li fece adunare e li passò in rassegna: erano tutti bellissimi, fierissimi e li giudicò i migliori soldati di Fiume. Inquadrò questi soldati che tutti chiamavano i disperati per la loro situazione d’abbandono e li offerse al Comandante come una guardia personale. La sua decisione fece scandalo tra gli ufficiali superiori, ma il Comandante accettò l’offerta.” (G. Comisso). Il comando de La Disperata viene affidato al Tenente Tommaso Beltrame che, dopo breve periodo, lascia il posto al suo successore “Il Tenente Elia Passavanti, il più prode ed il più buono dei legionari fiumani, un primissimo eroe tre volte mutilato, un italiano di antica gentilezza, esempio continuo di sacrificio e di costanza”. (G. d’A.).  Gli seguirà, quale ultimo comandante , il Tenente Ulisse Igliori.

“La Disperata” o “Compagnia D’Annunzio”, la “guardia personale” del Comandante, marcia al comando di Elia Rossi Passavanti. Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele

“La Disperata” o “Compagnia D’Annunzio”, la “guardia personale” del Comandante, marcia al comando di Elia Rossi Passavanti.Così descrive “I Disperati” Mario Carli: “Questa Disperata fu la falange eletta dei legionari, la guardia del corpo del Comandante, manipolo di uomini decisi, spregiudicati, violenti nell’adorazione e nell’impeto, fiore della rivolta e della libertà, passato attraverso il setaccio della guerra. Erano mastini ed erano fanciulli: sicuri come truppe di colore, consapevoli come «soldati della morte», lieti e canori come atleti in gara continua“.  Essi diventarono, ben presto, l’orgoglio del Comandante.

Madrina della “Compagnia d’Annunzio” (altro nome con cui era conosciuta La Disperata), unica donna a fare parte di una compagnia di Arditi e con il grado di Tenente, la Marchesa Margherita Incisa di Camerana. Margherita Maria Ella Adele Ludovica era nata a Torino, dal marchese Alberto e dalla baronessa Amalia Weil Weiss, appartenente ad una famiglia ebraica di banchieri di origine austriaca; diplomata infermiera volontaria nella Croce Rossa Italiana nel 1909 a Padova, mobilitata per la guerra nel maggio 1915, lasciati gli agi della corte Savoia, in agosto è al fronte, prestando servizio presso vari ospedali da campo. Successivamente segue a Fiume il Poeta-Guerriero.

Fra gli Arditi della D’ Annunzio c’è una donna…che sopra una succinta gonna grigio-verde porta la giacca coi risvolti neri. Ha il grado di tenente; prende parte alle marce, alle esercitazioni; con una virile grazia quest’anima ben temprata si piega alle necessità rudi del blocco, vigilando alla salute morale e alla disciplina delle sue truppe, perorando la causa loro presso il Comandante: costantemente la si vede a fianco di Rossi Passavanti: spunta il romanzo. Accadrà un giorno che il capo della Disperata sposi la marchesa Incisa di Camerana.” (L. Kochnitzky).

E’ Fiume a fare da sfondo all’amore nascente tra la Marchesa e il pluridecorato eroe della Prima Guerra Mondiale, Rossi Passavanti. Un amore che durerà tutta la vita, nonostante tra i due intercorressero 17 anni di differenza d’età.

La presenza di una donna in una formazione di Arditi provoca anche la reazione scandalizzata di molti: “Il povero Nitti è furibondo per le indegne cose di Fiume. Non solo proclamano la Repubblica di Fiume, ma preparano lo sbarco ad Ancona, due raids aviatori armati sopra l’Italia e altre delizie del genere. Fiume è diventato un postribolo di malavita e prostitute più o meno high life. Mi parlò di una marchesa Incisa, che vi sta vestita da ardita con tanto di pugnale. Purtroppo non può dire alla Camera queste cose, per l’onore d’Italia” (F. Turati).                                           

Assunto il comando, “Frate Elia dell’ordine della prodezza trascendente” (come Passavanti era stato battezzato da d’Annunzio durante la Grande Guerra) punta  tutto sull’esempio e sulla fede negli ideali di Italianità; sua l’idea di associare come “madrina” la sua futura sposa, la Marchesa  Incisa di Camerana; grazie al suo carisma il Tenente riesce ad ottenere dai suoi ragazzi sorprendenti risultati, in ordine di  efficienza e  dedizione.

Numerosissimi i colpi di mano messi a segno da La Disperata, l’unica Compagnia che si prestasse perché  composta da uomini di grande patriottismo e di comprovato valore, disposti a  morire difendendo il nome d’Italia, di Fiume e di Gabriele d’Annunzio.

“Non disobbediamo a nessuno perché obbediamo all’amore” (G. d’A.)

 

Da sinistra: il comandante de “La Disperata”, Elia Rossi Passavanti, il Poeta – Guerriero e la Marchesa Margherita Incisa di Camerana, madrina della Compagnia e sposa di Passavanti. Margherita fu la prima donna a vestire ufficialmente la divisa degli Arditi, col grado di Tenente Medico. Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele.

La città è come un tino in ebollizione. Sempre allegra, non dorme mai, scatenata in feste dove alcol e droghe circolano con impudenza; all’Ornitorinco, una taverna della vecchia Fiume che il Comandante ama frequentare con Keller e altri scapestrati, si beve senza moderazione uno cherry di marasche prodotto a Zara dalla famiglia Luxardo, che il Poeta ha soprannominato Sangue Morlacco.

La cocaina è un vezzo di tanti, che ne abusano con disinvoltura.

Fiume si lascia trascinare in amori travolgenti e passioni scarlatte. Riporta un rapporto di polizia: “Non vi è ufficiale e neppure legionario che non abbia un’amante fra le povere fiumane ormai perdute in un’atmosfera di immoralità. Fiume è per i primi l’eden terrestre, l’eldorado di tutti i piaceri e per gli altri volontari il paese della cuccagna. L’amor greco è di gran moda”. La città, ormai, non ha più una collocazione geografica: è altrove. La sua dimensione non è più politica o storica, è un’esaltazione mistica e profana, quel Porto dell’Amore che Comisso racconta con passione nella sua opera prima: “Tu devi sapere che sei giunto in una città pericolosa per i tuoi giovani anni. Qui si fa senza alcun ritegno tutto ciò che si vuole. Le forme di vita più basse e più elevate qui s’alternano non altrimenti che la luce e le tenebre.” (G. Comisso)

E’ in questo particolare e strano clima psicologico che Fiume diventa  la “Città di Vita”: una specie di piccola, sperimentale “controsocietà”, con idee e valori non esattamente allineati a quelli della morale corrente, con la trasgressione continua delle norme e del buon gusto; la ribellione quale gesto di massa daranno il via alla libertà sessuale, all’omosessualità non nascosta, alluso-abuso di droga, al naturismo, alle beffe continue, ad una esasperazione degli atteggiamenti sia tra i civili che tra i Legionari più comuni: nuove fogge nel vestire, nel modo di comportarsi, di addestrarsi, di marciare, di discutere.

Ai rimproveri, minacce, blocchi, censure che arrivano dall’altra parte dell’Adriatico il Comandante ed i suoi rispondono con scherno: “Ridiamo, compagni. Non siamo mai stati tanto sereni, tanto sicuri, tanto allegri. Laggiù a Roma, Cagoia e il suo porcile non immaginano quale schietta ilarità susciti in noi quello spettacolo di sopracciglia corrugate, di pugni grassocci dati a tavole innocenti, di menzogne puerili, di rampogne senili, di minacce stupide, di ringoiamenti goffi, in confronto della nostra risolutezza tranquilla, della nostra pacatezza imperturbabile. Noi ripetiamo: «Qui rimarremo ottimamente». Essi non sanno in che modo cacciarci…”(G. d’A.)

Ma la città non conosce solo l’euforia della festa, della sperimentazione, del libero amore, dell’esser  luogo dove tutto è concesso e il verosimile è più vero del vero.

Se Fiume subisce felicemente il fascino del vizio più anarchico, soffre anche di un’ondata di crimini e di azioni banditesche e delittuose. I Reali carabinieri non hanno vita facile e cominciano a dare segni di insofferenza: “Intanto dall’Italia vedeva arrivare gente sospetta che stava in lunghi conciliaboli con il Poeta (De Ambris, Marinetti, Mussolini, il Capitano Vecchi degli Arditi, ed altri lestofanti di tutta Italia) vicino a se aveva creato una segreteria speciale che elaborava con i suoi suggerimenti i piani più fantastici; uno fra i tanti era quello in cui veniva trattato l’invio di circa un centinaio di Ufficiali in Italia per avvicinare e lavorare gli ambienti più facilmente rivoluzionabili, studiare gli edifici che in ogni singola Città avrebbero dovuto essere occupati, come banche, stazioni ferroviarie, poste, telegrafi ecc. ecc. ed infine studiare il modo di armare la milizia cittadina. L’elaborazione di simili programmi eminentemente rivoluzionari avveniva mentre in Italia ferveva la lotta per le elezioni politiche, anzi a questo proposito, era intenzione del Poeta d’inviare in tutta Italia un adeguato numero di legionari col preciso mandato di rompere le urne il giorno delle elezioni. Già tutto era pronto per questa spedizione quando corse a Fiume Mussolini ad impedire l’attuazione. (Forse perché allora aveva l’illusione di riuscire eletto deputato). I legionari (ed erano la maggior parte) per cui Fiume non era un fine, ma un mezzo, si divisero a secondo del partito e così si ebbe la Fiume la rappresentanza dei bolscevichi, dei riformisti, dei repubblicani, dei popolari ecc. con relative riunioni, discussioni, progetti e liti, naturalmente tutte con grande scapito della disciplina e dell’idea che mosse noi da Ronchi. Fra tutti gli avventurieri di ogni risma che giornalmente piovevano a Fiume, non poche erano dei delinquenti veri e propri o dei degenerati, basti dire che non vi è specie di delitto che non sia stato consumato a Fiume, dall’assassinio al furto, non vi è specie di vizio che non fosse sfacciatamente ostentato dalla cocaina alla pederastia. D’Annunzio proteggeva i primi esigendone l’incolumità e favoriva i secondi tenendo lui steso un contegno depravato.” (C. Reina)

La popolazione civile e, in particolar modo i bambini, deve sopportare non pochi disagi quando il governo italiano decreta l’embargo commerciale e non arrivano più beni di prima necessità. Il Comandante e l’immancabile Keller instaurano, per far fronte ai bisogni della città, la “Pirateria dei Legionari” un modello economico di stampo piratesco: con piccole e rapide unità navali i Legionari, appositamente addestrati allo scopo, danno l’assalto a navi, treni, autocarri, attaccando per terra e per mare. Sono gli “Uscocchi” (dal nome dei pirati slavi che nel XVI° secolo dalle coste di Istria e Dalmazia assaltavano le imbarcazioni ottomane e veneziane) ben manovrati dal loro comandante, il Tenente Mario Magri. A occuparsi della pirateria un apposito ministero tra il serio ed il ludico, in perfetto stile futurista: l’Ufficio Colpi di Mano. Gli “Allegri Filibustieri” mettono a segno, con cadenza regolare, tutta una serie di scorrerie davvero notevoli: requisiscono dai cereali ai cavalli, dai gioielli al carbone, dai vagoni ferroviari ai bastimenti. Sono gli Uscocchi a procurare i veri introiti fondamentali per l’economia e l’approvvigionamento di Fiume, grazie anche a una fitta rete di relazioni assai utili: un folto gruppo di simpatizzanti dislocati tra Venezia e Trieste e molti uomini di fiducia presenti in tutta la penisola.

Il primo colpo di mano è quello del 10 ottobre 1919 quando, vicino all’isola di Lussino, catturano il piroscafo Persia diretto in Oriente con 13.000 tonnellate di rifornimenti destinati all’esercito controrivoluzionario russo: il carico viene trattenuto e, signorilmente, la nave resa al governo. “Si trovò un po’ di tutto a bordo del Persia che faceva rotta verso l’Estremo Oriente: marmellate, munizioni e sciampagna destinata allo Stato maggiore dell’ammiraglio Koltchak, pneumatici, stivaletti, e persino un ambasciatore abbastanza stupefatto dell’avventura, e che il giorno stesso fu lasciato andare”(L. Kochnitzky).

Con l’inverno alle porte gli Uscocchi mettono a segno un altro signor colpo: viene catturato il Trapani, ed è il bengodi: “Con la cattura del Trapani le riserve dei legionari si arricchirono di 600 sacchi di farina, 330 sacchi di pasta, 100 sacchi di ceci, 278 sacchi di caffè, 224 ceste di formaggio, oltre a fieno, avena, crusca, legnami da costruzione, 10.000 paia di scarpe… e persino 40 casse di estintori da incendio!” (F. Gerra ). Fiume, per diversi mesi, può dormire sonni tranquilli.

“Gli Uscocchi sono corsari che non predano se non per dar da mangiare agli affamati” (L. Kochnitzky).

“L’affaire Fiume” sta diventando un bel problema per il governo italiano. Nitti cerca la via diplomatica e nell’ottobre ricominciano gli incontri tra d’Annunzio e il Generale  Badoglio che, in capo a due mesi, si concludono con un nulla di fatto. Tra la fine di novembre e la prima metà di dicembre il Comando fiumano intavola una nuova serrata trattativa, sempre con Badoglio. I negoziati culminano con l’elaborazione di un “modus vivendi” con cui l’Italia s’impegna rispettare le istanze di Fiume, lo status di “città libera” a statuto speciale e a evitare ad ogni costo la possibile annessione alla Jugoslavia.

La proposta fatta dal Governo per tramite del Generale fa sì che l’entourage dannunziano si divida in due linee di pensiero ben definite: i legalisti, a favore del modus vivendi, e gli scalmanati, assolutamente contrari.

I primi hanno tra i più importanti esponenti il Maggiore Reina. Sono ufficiali di carriera che credono nelle finalità patriottiche della vicenda fiumana, contrari a qualsiasi devianza rivoluzionaria; credono negli ideali monarchici, nella disciplina, nell’ordine. La Marcia di Ronchi e l’occupazione della città non è rivoluzione o diserzione militare ma episodio che deve costringere il governo italiano a fare qualcosa per la sorte di Fiume.

Gli scalmanati sono ufficiali di complemento che, dopo l’esperienza della Guerra Mondiale, vedono nell’Impresa un momento di rivalsa personale. Questi uomini ritengono Fiume il primo passo verso il cambiamento dell’intera società globale. L’annessione della città dalmata all’Italia è solo uno degli obbiettivi. L’esempio  più eclatante di questa fazione è proprio il Tenente Guido Keller.

Le due linee di pensiero si scontrano. D’Annunzio convoca un plebiscito per il 18 dicembre, con il quale la cittadinanza avrebbe potuto esprimersi sull’accettazione del “modus vivendi”. A causa di frequenti episodi di violenza e di brogli elettorali, il plebiscito viene bloccato dallo stesso Comandante, che rimette nuovamente la decisione al Consiglio Nazionale. Il Consiglio, da parte sua, respinge il “modus vivendi” mettendo così la parola fine alle trattive. Il Maggiore Reina, già in aperto contrasto con il Poeta per la piega rivoluzionar-repubblicana che stava prendendo il Governo dannunziano della città, abbandona Fiume; il Maggiore Giuriati rassegna le proprie dimissioni da Capo di Gabinetto: “io sono venuto a Fiume per difendere le secolari libertà di questa terra, non per violentarle o reprimerle”; gli subentra Alceste de Ambris, anarcosindacalista ed interventista, chiamato in città dallo stesso Comandante. Anche Badoglio, scornato dai continui fallimenti militari e diplomatici in seno alla faccenda fiumana, si dimette e viene sostituito dal Generale Caviglia. Il 21 marzo 1920, dopo che il 26 gennaio il Consiglio Nazionale aveva emanato il primo bando per la leva obbligatoria per i cittadini fiumani, avviene la cerimonia per il giuramento  delle reclute. La formula non contiene nessun riferimento al Re ma solo alla fedeltà verso il Comandante.

“Giuro di difendere con tutte le mie forze e sino all’estremo il territorio nazionale e di obbedire agli ordini del Comandante Gabriele d’Annunzio. Lo giurate voi?”

Per gli animi più fedeli alla monarchia è  un chiaro segnale delle intenzioni repubblicane del Vate.

Questo, i reiterati episodi di violenza e azioni criminali non puniti dagli uffici preposti del regime e altri dissidi, contribuiscono ad allontanare parte delle personalità politiche più moderate e molte delle figure lealiste presenti tra le file dell’esercito (tra cui i Reali Carabinieri di Vadalà  ma anche ufficiali di altre armi). I vuoti provocati dalla defezione nei reparti lealisti si colmano con l’arrivo di nuovi volontari dallo spirito maggiormente rivoluzionario.

I principi progressisti di De Ambris avevano conquistato fin da subito d’Annunzio: egli vuole che la “Città di Vita” diventi esempio di una rinascita morale e sociale a più ampio spettro, una risoluzione più radicale che non si limiti ai confini geografici della città; la Santa Impresa deve trasformarsi in una crociata contro gli imperi coloniali e la Società delle Nazioni, il “trust” degli stati ricchi.

Crea l’ “Ufficio Relazioni Esteriori” (URE), dedicato a cercare contatti diplomatici e a diffondere il messaggio dannunziano nel mondo.

Spira una nuova aria a Fiume e d’Annunzio lancia, il 30 marzo, il proclama “Con me!” in cui rivendica il diritto di ribellarsi alla Lega delle Nazioni creando la Lega di Fiume: “Alla Lega delle Nazioni noi opporremo la Lega di Fiume; a un complotto di ladroni e di truffatori privilegiati opporremo il fascio delle energie pure. Questa è la nostra fede. Questa è la nostra causa… Chi non è con me è contro di me. Chi non è con noi è contro di noi… D’un solo cuore, d’un solo fegato, d’un solo patto, con me, spalla contro spalla, gomito contro gomito, braccio sotto braccio, come quando voi fate la catena per gettare al sole o alle stelle le vostre canzoni vermiglie, con me, compagni con me compagno, fedeli a me fedele, con me, fino alla meta e di là dalla meta, fino alla morte e oltre!”.

Il lirismo del Poeta-Guerriero e il suo potere estetico e mentale cozzano violentemente con la situazione in cui versa la città affamata dall’embargo e dalla carenza di beni di prima necessità, in cui la popolazione civile deve arrangiarsi come può anche solo per sopravvivere. Non circola denaro, le attività del porto sono ferme, disoccupazione e inflazione sono alle stelle. In aprile d’Annunzio si assume il compito di risolvere la controversia tra gli stremati lavoratori in sciopero, che chiedono l’introduzione di un salario minimo e un aumento delle razioni a prezzo ridotto, e gli imprenditori: “E in quella sala decente c’era veramente la figura della fame, c’era veramente la figura della miseria. Rivivevano le immagini delle mie domeniche d’udienza, con un rilievo crudele: le donne scarne, quasi esangui, esauste, che avevano venduto l’ultima masserizia e l’ultimo cencio; i bambini macilenti…gli uomini malati…”. (G. d’A.)

Quattromila bambini vengono sfollati in Italia dalla città ridotta alla fame, con il supporto dei Fasci di combattimento e delle associazioni femminili italiane che se ne prendono carico, l’aiuto di comitati cittadini “pro bambini fiumani”, di attiviste, di ricche borghesi ed personalità dell’aristocrazia.

Il 7 maggio con un eccezionale colpo di mano gli Uscocchi, armi in pugno, catturano il piroscafo Barone Fejerwary carico di grano e materie prime: alcuni mesi di pane e masserizie sono assicurati.

Ma le condizioni della città e la frattura sempre più profonda tra le due anime di Fiume – monarchica e repubblicana- rendono la situazione sempre più instabile.

L’11 giugno cade il ministro Nitti e Fiume festeggia il “de-cesso di Cagoia” alla sua maniera: “Chi Fiume ferisce / di Fiume perisce” lo schernisce il Poeta.

Il 12 agosto D’Annunzio annuncia la costituzione di Fiume come Stato libero: “L’orizzonte della spiritualità di Fiume è vasto come la terra; va dalla Dalmazia alla Persia, dal Montenegro all’Egitto, dalla catalogna alle Indie, dall’Irlanda alla Cina, dalla Mesopotamia alla California. Abbraccia tutte le stirpi oppresse, tutte le credenze contrastate, tutte le aspirazioni soffocate, tutti i sacrifizii delusi. Come il vessillo rosso dei ribelli sul Nilo porta la Mezzaluna e la Croce, esso comprende tutte le rivolte e tutti i riscatti della Cristianità e dell’Islam… Giovani, liberiamoci. Rompiamo tutte le scorze, fendiamo tutte le croste. Incominciamo a rivivere. Incominciamo la vita nuova. Io non voglio logorarmi, né abbassarmi, né perdermi. Io voglio salvare la mia anima, come voi dovete salvare la vostra. Io voglio morire lottando. Non voglio morire languendo.”

Il Poeta è esaltato dalla nuova proiezione trans-fiumana che sta assumendo la “sua” impresa: l’URE annuncia contatti con rappresentanti di varie minoranze etniche, di movimenti indipendentisti e persino con delegati della Russia sovietica. Il Comandante si sente depositario dello spirito dei tempi, dei grandi sconvolgimenti e movimenti che agitano la politica internazionale.

Ma il nuovo Stato libero deve avere una Costituzione, una emanazione di norme e regole sociali che vada a regolare la vita cittadina. La prima edizione, tirata in centodieci esemplari, della Carta del Carnaro è del 27 agosto 1920 ed è un progetto visionario che unisce le intuizioni sociologiche e politiche di d’Annunzio con lo spirito prettamente rivoluzionario di Alceste de Ambris: “La reggenza italiana del Carnaro. Disegno di un nuovo ordinamento dello stato libero di Fiume”.

Nella Carta, documento dal carattere straordinariamente moderno, si trovano propugnati i principi di una democrazia diretta, organica ed egualitaria: “La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione”; “Tutti i cittadini dello Stato, d’ambedue i sessi, sono e si sentono eguali davanti alla nuova legge”; “Le libertà fondamentali di pensiero, di stampa, di riunione e di associazione sono dagli Statuti garantite a tutti i cittadini”. La centralità sociale del lavoro produttivo e la sua preminenza rispetto al diritto di proprietà, il salario minimo garantito, il diritto allo studio compresa l’educazione fisica in idonee strutture, l’assistenza medica gratuita, la pensione, il diritto al risarcimento in caso di abuso di potere o errore giudiziario, il liberismo commerciale, l’autonomia comunale, la possibilità di riformare in qualunque momento la Costituzione, il diritto referendario, la revocabilità dei governanti e dei funzionari e la loro responsabilità civile e penale per eventuali errori o abusi, il diritto al libero culto religioso, il suffragio universale esteso anche alle donne, il divorzio, sono prerogative sostenute nel nuovo ordinamento. Si propugna una Repubblica (poi il termine verrà sostituito, nel testo definitivo del 1° settembre 1920, con Reggenza) decentrata e a-confessionale, in cui l’attuazione delle leggi è affidata a sette Rettori, con al vertice del sistema la figura del Comandante che, in caso di estremo pericolo, può assumere poteri dittatoriali. Il potere legislativo spetta a tre camere con competenze diverse: il Consiglio degli Ottimi, non meno di trenta membri in carica per tre anni, che si radunano una volta l’anno ad ottobre; il Consiglio dei Provvisori, sessanta membri in carica per due anni eletti proporzionalmente dalle corporazioni, che si radunano due volte l’anno a maggio e novembre e, infine, il Consiglio Nazionale, detto Arengo del Carnaro, formato dai membri dei precedenti consigli riuniti in seduta plenaria una volta l’anno.

Due articoli del codice incarnano l’ideale di Bellezza del Poeta: “E’ instituito nella Reggenza un collegio di Edili, eletto con discernimento fra gli uomini di gusto puro, di squisita perizia, di educazione novissima…Esso presiede al decoro del vivere cittadino…impedisce il deturpamento delle vie…allestisce le feste civiche di terra e di mare con sobria eleganza…si studia di ridare al popolo l’amore della bella linea e del bel colore”.  “Nella reggenza italiana del Carnaro la Musica è una istituzione religiosa e sociale. Se ogni rinascita d’una gente nobile è uno sforzo lirico, se ogni sentimento unanime e creatore è una potenza lirica, se ogni ordine nuovo è un ordine lirico nel senso vigoroso e impetuoso della parola, la Musica considerata come linguaggio rituale è l’esaltatrice dell’atto di vita, dell’opera di vita.”

La sera del  30 Agosto, presso il Teatro Fenice, d’Annunzio da pubblica lettura della Carta del Carnaro e la mattina del 31 la ripete all’adunata dei Legionari, con l’annuncio di una nuova concezione dell’esercito della Reggenza: “In mezzo a questo campo trincerato noi abbiamo posto le fondamenta d’una città di vita, d’una città novissima. (…) Qui, in questo breve libro, è il disegno della vostra architettura, è il lineamento del vostro edifizio. Voi avete posto mano a queste pagine. Queste pagine sono vostre. (…) Siamo liberi e nuovi, non oggi soltanto, ma dal giorno in cui la nostra prima autoblindata spezzò la barra dei buffoni con le due branche dei suoi tagliafili. La volontà di rivolta e la volontà di rinnovazione hanno creato in noi questo sentimento di libertà non conosciuto neppure dai più rapidi precursori. Non disobbediamo a nessuno perché obbediamo all’amore. Non prendiamo nulla perché tutto è nostro.”

Per ottenere un impatto che fosse spettacolare, d’Annunzio e De Ambris decidono di proclamare la Reggenza il 12 settembre, primo anniversario di Ronchi, con un’imponente celebrazione. L’iniziativa sorprende il Consiglio Nazionale che, l’8 settembre, si scioglie  e nomina un direttivo provvisorio; questo obbliga il Poeta e De Ambris a promulgare il nuovo corso con quattro giorni d’anticipo.

L’8 settembre viene così ufficialmente proclamata la Reggenza del Carnaro. La bandiera, rossa con in mezzo la costellazione dell’Orsa Maggiore circondata dall’Uroboro, mistico simbolo dell’infinito, con il cartiglio “Quis contra nos?”, fa invece la sua prima apparizione proprio il giorno dell’anniversario della marcia di Ronchi, con una sontuosa celebrazione che rafforza ulteriormente il “mito dell’Impresa”.

 

Gruppo di Arditi sotto a un gigantesco Tricolore; all’Impresa di Fiume parteciparono ufficialmente i Reparti d’Assalto VIII – XII – XIII e XXII quest’ultimo non al completo. Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele.

Intanto continuano i colpi di mano per rimpinguare le asfissiate casse di Fiume: il 5 settembre sette Uscocchi si imbarcano segretamente a Catania e dirottano il Cogne. Purtroppo la nave contiene molto materiale prezioso ma totalmente inutile al sostentamento della città. L’unica soluzione è di farla riscattare dal governo italiano. Il 17 novembre, grazie all’intercessione del Sen. Borletti, simpatizzante della Causa e amico del Vate, il Cogne viene riacquisito per un controvalore di 12 milioni di Lire.

La proclamazione della Reggenza riporta prepotentemente Fiume e la Questione Adriatica sotto i riflettori della politica internazionale.

Poco dopo l’ 8 settembre, d’Annunzio viene coinvolto in una seconda impresa “rivoluzionaria”: la fine di ottobre vede la stesura di un “Nuovo ordinamento dell’esercito liberatore” vergato dal Capitano Giuseppe Piffer  e perfezionato dal Poeta. Questo riassetto prevede la riforma della struttura e della gerarchia dell’Esercito. I concetti espressi nell’opuscolo piacevano agli scalmanati come Keller e Comisso quanto dispiacevano ai militari tradizionalisti come il Generale Sante Ceccherini: il principio base è “comandare senza comandare” perché la fiducia e l’obbedienza nel Capo devono essere totali e cieche senza imposizioni; la struttura e il funzionamento dell’esercito dovranno basarsi su principi di snellimento burocratico, semplificazione della gerarchia e indipendenza dei vari reparti.  “Ogni comando intermedio fra l’Esercito e il suo Comandante è abolito”. Fra le altre cose, nel Nuovo Ordinamento, si parla di libertà d’abbigliamento, del resto già in auge tra i Legionari: “Taluni portavano abbondanti cravatte a svolazzo, altri preferivano la scollatura, v’era chi girava col fez degli arditi, chi l’aveva definitivamente sostituito da folte chiome pettinate all’indietro; la compagnia «d’Annunzio» usava i pantaloni corti; tutti indistintamente avevano un debole per il pugnale a sghimbescio infilato in modo da rimanere a portata di mano”.

La promulgazione del Disegno porta a una ulteriore defezione di soldati e ufficiali inquadrati nell’esercito regolare.

Nonostante gli atteggiamenti anti-serbi dei nazionalisti alla guida di Fiume, Giolitti è determinato a stringere un accordo con Belgrado per risolvere definitivamente la faccenda: “Il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, desiderano stabilire tra loro un regime di sincera amicizia e cordiali rapporti, per il bene comune dei due popoli “ (dal testo del Trattato di Rapallo).

Il 12 novembre 1920 le trattative del ministro degli Esteri Sforza portano alla firma del Trattato di Rapallo. Il confine proposto dagli alleati viene esteso a oriente fino al Monte Nevoso, comprendendo parte della Slovenia e l’intera Istria. Sono annesse la città di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosta. Il Trattato prevede, inoltre, la possibilità – per gli italiani della Dalmazia – di optare per la cittadinanza italiana. Fiume ottiene lo status di “città libera”, rimanendo uno stato autonomo posto sotto la tutela delle Società delle Nazioni. L’art. IV sancisce ufficialmente lo Stato Libero di Fiume. Lo Stato avrà per territorio il cosiddetto “Corpus separatum… delimitato dai confini della città e del distretto di Fiume“, e un’ulteriore striscia che ne garantisce la continuità territoriale con il Regno d’Italia. Rimane segreta, seppur per poco, una trattativa riguardante Porto Baross (Porto Sauro, per la popolazione italiana), la zona del delta dell’Eneo che, essendo attiguo al porto principale di Fiume,  è parte integrante sia del porto che della vita economica della città; in base al Trattato – e per concessione del Regno d’Italia – diverrà lo sbocco sul mare della Jugoslavia: l’accordo prevede che “Porto Baross appartiene al Sussak (sobborgo croato nei pressi di Fiume in territorio Jugoslavo) e quindi al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni”.

La risoluzione, pur non aderendo a pieno alle intenzioni originarie dei dirigenti fiumani, è accolta abbastanza positivamente dall’opinione pubblica e dal mondo politico italiano. Fiume non verrà annessa al Regno d’Italia ma sarà comunque sottratta alle pretese slave.

Anche esponenti del mondo combattentistico, come Mussolini e De Ambris, suggeriscono a d’Annunzio di accettare. Il Vate, convinto che  ancora una volta si vada incontro a “inique rinunce”, rigetta gli accordi e ne rifiuta l’applicazione. Ha così inizio un’estenuante trattativa tra il governo italiano e il Comando dannunziano che insiste nel non riconoscere il Trattato di Rapallo e si incaponisce sulla cessione di porto Baross. Le violente arringhe di d’Annunzio e l’intenzione di occupare militarmente i territori sottratti al Regno d’Italia dal “Delitto di Rapallo” ( E. Cimbali) – le isole di Arbe e Veglia – ottengono come risposta l’intimazione, per due volte di seguito, ad evacuare i territori occupati e il dispiegamento di un blocco militare per terra e per mare.

Il Comandante D’Annunzio parla alla popolazione fiumana e benedice un vessillo tricolore. Foto per gentile concessione di Nicola Gabriele.

La situazione è convulsa, il Generale “senza macchia e senza paura” Sante Ceccherini (amico fraterno di d’Annunzio, che ha conosciuto durante la Grande Guerra, il più alto in grado tra i tantissimi Legionari che seguirono il Poeta a Fiume, al vertice della gerarchia militare e con il gravoso compito della responsabilità organizzativa ed esecutiva delle forze fiumane) il 25 novembre, con il figlio e il Capo del Gabinetto militare Colonnello Mario Sani, abbandona la città. Anche l’Ammiraglio Enrico Millo, Governatore della Dalmazia e sostenitore della causa, tenta di dissuadere il Poeta dal compiere qualunque incursione armata in terra dalmata.

Nel contempo, approvato in Senato il Trattato, il governo autorizza il Generale Caviglia a sedare definitivamente la ribellione dannunziana e porre fine alla questione fiumana con un ultimatum: l’abbandono, senza ulteriori discussioni, della Città da parte delle forze del Comandante che, nel frattempo, si trova sempre più in una posizione di isolamento. D’Annunzio, forte di quanto già accaduto quel 12 settembre 1919 a Cantrida, sottovaluta gli avvertimenti: è convinto che mai e poi mai Roma avrebbe attaccato Fiume, costringendo soldati italiani a sparare contro altri italiani; mantiene la sua posizione e così fanno i suoi uomini. Il 20 dicembre risponde al Generale Caviglia che non si piegherà alle richieste del governo, sostenendo che Fiume non ha ratificato il Trattato e che i Legionari non permetteranno la violazione del territorio della Reggenza. Il giorno seguente, 21 dicembre, d’Annunzio proclama lo stato di guerra. Sempre il 21 pubblica il proclama “Ai marinai d’Italia in Fiume italiana e a tutti i marinai d’Italia nell’Adriatico italiano”, rivolgendosi alle truppe della Regia Marina che stazionano, in attesa di ordini, nel Golfo di Fiume: “Orazio Nelson… stimava che ogni marinaio, come ogni altro servitore della Patria, dovesse avere il coraggio di obbedire agli ordini contro qualunque più disperato rischio. Ma anche stimava che vi fosse un coraggio più nobile e più raro: quello di disobbedire agli ordini quando gli ordini erano in conflitto con l’onore nazionale… Ebbene, miei compagni, tutti gli ordini che oggi vi sono dati nell’Adriatico offendono atrocemente l’onore della nazione, l’onore d’Italia… Io, miei compagni, pongo per pegno della mia e della vostra disobbedienza contro i venditori e i traditori di Roma la mia vita tutta intera devota alla più bella Causa che mai sia stata data all’uomo per la gioia e per la gloria di ben morire.” Un chiaro invito a disobbedire agli alti comandi, ribellarsi e unirsi ai Legionari nella difesa di Fiume.

Incoraggiato dal sostegno dei nazionalisti e dei fascisti locali, il Vate si trincera in città e invia emissari ai Fasci del Regno sperando in una sollevazione nazionale in suo favore. Invita a resistere senza arrendersi anche i sostenitori esterni, chiede che la rivolta si estenda oltre i confini della Città Olocausta. Mussolini, allineato con quanto già espresso a favore del Trattato di Rapallo, si limita a deplorare l’azione di forza del governo italiano. Caviglia detta quindi un termine di 48 ore, entro le quali uomini e mezzi di terra e di mare possono (o devono) lasciare Fiume volontariamente.  Nel frattempo le operazioni militari hanno inizio, già a partire dal 23 dicembre, con movimenti di truppe nelle zone di confine. Scaduto il termine di 48 ore concesso dall’ultimatum, pochi uomini e nessuna nave hanno lasciato il territorio della Reggenza. Il 24 dicembre 1920, vigilia di Natale, alle ore 18.00 le forza regolari scatenano il primo attacco. I presidi legionari intorno a Cantrida vengono circondati e catturati, Alpini e Carabinieri attaccano la linea di confine. I Legionari non cedono. Dal 24 al 29 dicembre si consumeranno “le cinque giornate di Fiume”, quelle che il poeta definirà come Natale di sangue. Dopo la tregua del giorno 25, disposta dal Generale Caviglia, alle ore 6:50 del 26 gli attacchi riprendono con forza. I Legionari oppongono una strenua resistenza. Nel pomeriggio l’unità della Regia Marina Militare Andrea Doria, che incrocia nel Golfo di Fiume, riceve l’ordine di aprire il fuoco direttamente sul Palazzo del Governatore, sede della rappresentanza delle Reggenza. Il primo colpo manda in frantumi l’architrave dello studio dove sono riuniti il Poeta e i Capitani Zoli e Colseschi. D’Annunzio ne esce miracolosamente illeso, con solo una lieve ferita alla testa, mentre il Sergente Antonio Gottardo, anch’egli presente nella stanza, viene colpito a morte. Il secondo colpo va a segno al piano superiore dell’edificio, dove si trova l’appartamento privato del Vate. La granata, distruggendo l’architrave, segna il punto di non ritorno della sorte dell’Impresa. Poco dopo esce il proclama del Comandante “Agli Italiani”: “O vigliacchi d’Italia, sono tutt’ora vivo e implacabile. E, mentre m’ero preparato ieri al sacrifizio e avevo già confortato la mia anima, oggi mi dispongo a difendere con tutte le armi la mia vita. L’ho offerta cento e cento volte nella mia guerra sorridendo. Ma non vale la pena di gettarla oggi in servigio di un popolo che non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia, mentre il suo Governo fa assassinare con fredda determinazione una gente di sublime virtù come questa che da sedici mesi patisce e lotta al nostro fianco e non è mai stanca di patire e di lottare. Hanno coperto l’assassinio tre giorni di silenzio bene scelti. E nel quarto giorno l’assassinio sarà glorificato. O vecchia Italia, tieniti il tuo vecchio che di te è degno. Noi siamo d’un’altra Patria e crediamo negli eroi.”

Sempre nello stesso giorno del 26, alle ore 20, viene emanato un bollettino straordinario su La Vedetta d’Italia (il quotidiano di Fiume): “Per ordine del governo di Roma, da 3 giorni le truppe regolari assassinano legionari e cittadini in violenti combattimenti… la superdreadnought Andrea Doria spara sulla città prendendo di mira la persona del Comandante… il capitano di una nave italiana che spara contro italiani e contro popolazioni italiane inermi commette tale atto di viltà da essere denunciato al particolare disprezzo del popolo italiano”.

Il 27 dicembre la città viene continuamente cannoneggiata; vengono colpiti obbiettivi militari e civili. I bombardamenti notturni danno il colpo di grazia alla già flebile resistenza psicologica della popolazione. Il 28 dicembre i Capitano Host-Venturi e il sindaco Gigante chiedono al Generale Ferrario di lasciar evacuare donne, vecchi e bambini. Ferrario, irremovibile, rifiuta ma si dice disposto a concedere una tregua fino alle 14. Poi, avvisa, inizierà nuovamente a bombardare sistematicamente a tappeto tutta la città.

La capitolazione è ormai inevitabile. La situazione che si è venuta a creare induce d’Annunzio alla rinuncia. Alle 8 del 28 dicembre tutte le operazioni militari cessano. Viste le ferme posizioni del Comando delle truppe regolari, lo stesso giorno il Poeta riunisce il Consiglio Nazionale che decide per la fine delle ostilità; mancandogli l’appoggio della rappresentanza cittadina (solo Grossich si schiera per una resistenza ad oltranza) e della maggior parte della cittadinanza, rassegna le dimissioni, dichiara lo scioglimento immediato del Governo dei Rettori, rimane a capo dei  soli Legionari e rimette tutti i poteri militari e civili; desidera che la resa sia il più onorevole possibile per tutti: per la città nella sua interezza, per i suoi Legionari, per se stesso.

Il giorno dopo scrive una lettera dal titolo La Rinunzia: …Essi confessano di non potere abbattere la resistenza eroica dei legionarii se non distruggendo la città, se non uccidendo i cittadini inermi.

Essi dichiarano di voler distruggere la città senza voler lasciare uscire il popolo!… Io non posso imporre alla città eroica la rovina e la morte totale che il Governo di Roma e il Comando di Trieste le minacciano. Io rassegno nelle mani del Podestà e del Popolo di Fiume i poteri che mi furono conferiti…Attendo che il Popolo di Fiume mi chieda di uscire dalla città, dove non venni se non per la sua salute. Ne uscirò per la sua salute. E gli lascerò in custodia i miei morti, il mio dolore e la mia vittoria.”

Secondo fonti ufficiali i caduti nelle fila dell’esercito regolare sono venticinque, ventidue quelli tra i Legionari e sei tra i civili, più numerosi feriti tra truppa e popolazione.

Il 31 dicembre è il giorno della definitiva resa. Con la firma da parte dei rappresentanti cittadini della “Convenzione di Abbazia” e l’accettazione del Trattato di Rapallo, che mette il punto definitivo sulla questione dei confini e risolve il “problema” di Fiume, la Reggenza vede concludere la sua breve esistenza. I Legionari vengono smobilitati senza conseguenza legali, fatta eccezione per i reati comuni.

Quello stesso giorno d’Annunzio dà alle stampe il suo “L’alalà funebre”: “Il 24 le truppe regie dovevano occupare la città. Oggi 31 le truppe regie non sono riuscite a imprimere nella nostra linea la più lieve inflessione. Noi siamo dunque vittoriosi… Il vinto di Fiume è il millantatore di Vittorio Veneto, perché noi desistiamo dal combattere, minaccia di distruggere la cerchia di San Vito con un bombardamento continuato, quartiere per quartiere…Tutti gli effetti del tirannico terrore erano stati premeditati e preparati con arte grossa da colui che passerà nella storia della ferocia sgrammaticata sotto il nomignolo di «Chiunque il quale» o miei allegri compagni… C’è qualcuno di voi, o miei Arditi, che abbia quella medaglia coniata dal XXX Reparto di Assaltatori…? Una testa di morto coronata di lauro serra fra i denti scoperti il pugnale nudo e guarda fisso dalle profonde occhiaie verso l’ignoto. Stanotte i morti e i vivi hanno il medesimo aspetto e fanno il medesimo gesto. A chi l’ignoto? A noi!”

Prende vita lo Stato Libero di Fiume.

Il 2 gennaio 1921, al cimitero di Fiume, di fronte ai morti dell’una e dell’altra parte, D’Annunzio pronuncia l’orazione “Riconciliazione”, mentre del 3 gennaio è l’ultimo documento pubblicato, il volantino “Il commiato fra le tombe”: “…Non eravamo legioni armate; eravamo un’armonia ascendente… Nessuno rimase in piedi: nessuno delle milizie, nessuno del popolo. E colui che versò più lacrime si sentì più beato. E qualcosa di noi trasumanava; e qualcosa di grande nasceva, di là dal presente. E ogni lacrima era Italia; e ogni stilla di sangue era Italia; e ogni foglia di lauro era Italia. E nessuno di noi sapeva che fosse e di dove scendesse quella grazia. Tale fu ieri il commiato che i Legionarii diedero alla terra di Fiume. E domani a un tratto la città sarà vuota di forza come un cuore che si schianta.”

Tra il 4 e il 13 gennaio 1921, in una città pervasa da un’aria grigia di mestizia, i Legionari abbandonano Fiume. Il 6 gennaio partono i ragazzi de La Disperata.

4 Gennaio 1921. Il Comandante D’Annunzio in ginocchio di fronte alle bare dei caduti delle 5 “Giornate di Fiume”, il cosiddetto “Natale di Sangue”. Cartolina per gentile concessione di Antonio Mucelli.

“I legionari erano furenti contro il governo nazionale e nella rabbia si strappavano i distintivi dell’esercito italiano, al posto delle stellette si mettevano i francobolli di Fiume. In Italia nessuno si era mosso a nostro favore, i partiti che dapprima ci avevano dato assistenza nulla fecero per noi. Tutta l’Italia ci avrebbe lasciati trucidare. Le truppe che ci erano venute ad assalire nella vigilia di Natale erano state eccitate con premi e con bevande. Il governo di Roma approfittò delle feste natalizie durante le quali non sarebbero usciti i giornali per compiere tranquillamente l’operazione. Il Comandante dalla nostra radio fece trasmettere a tutto il mondo l’annuncio del sacrificio mentre si compiva.” (G. Comisso).

Il 6 gennaio 1921, sulle pagine de L’Ordine Nuovo, Antonio Gramsci scrive un’appassionata lettera in difesa dei Legionari e contro la propaganda del governo liberale di Giolitti:

“L’onorevole Giolitti in documenti che sono emanazione diretta del potere dello Stato ha più di una volta, con estrema violenza, caratterizzato l’avventura fiumana. I legionari sono stati rappresentati come un’orda di briganti, gente senza arte né parte, assetata solo di soddisfare le passioni elementari della bestialità umana: la prepotenza, i quattrini, il possesso di molte donne. D’Annunzio, il capo dei legionari, è stato presentato come un pazzo, come un istrione, come un nemico della patria, come un seminatore di guerra civile, come un nemico di ogni legge umana e civile. Ai fini di governo, sono stati scatenati i sentimenti più intimi e profondi della coscienza collettiva: la santità della famiglia violata, il sangue fraterno sparso freddamente, la integrità e la libertà delle persone lasciate in balìa di una soldataglia folle di vino e di lussuria, la fanciullezza contaminata dalla più sfrenata libidine. Su questi motivi il governo è riuscito ad ottenere un accordo quasi perfetto: l’opinione pubblica fu modellata con una plasticità senza precedenti”.

Il Comandante lascia definitivamente Fiume il 18 gennaio. Parla un’ultima volta dalla ringhiera del Municipio: “Io posso aver errato qualche volta; voi siete stati perfetti sempre. Rifarò tra poco quella via che feci sotto il sole di settembre… verso quella Fiume che resterà sempre nel mio cuore. Se voi mi amate, se io son degno del vostro amore, quella Fiume voi dovete preservare contro ogni sopraffazione, contro ogni insidia, contro ogni vendetta. Viva l’amore. Alalà!”.

Riparte sulla Fiat rossa, guidata dal fido Giacomo Basso.

Al di là del confine, in terra Serenissima, lo attende – ancora una volta – la fedele, mite Luisa Baccara, la graziosa “piccina” che gli era rimasta sempre accanto, quella Smikra dal “viso olivigno da piccola greca dell’Asia Minore” dal naso che “scendeva dritto ed esiguo come quello della Psiche di Napoli” , “dai capelli selvaggi solcati d’argento” matassa di “capelli neri, capelli fulvi e capelli canuti, commisti in matasse che hanno per intrico un segreto notturno”,  la cui “ossatura era musicale come l’avesse congegnata un bonissimo liutaio; sembrava talvolta che i suoni fossero dati dai suoi nervi tesi e non dalle corde percosse”, esempio di abnegazione e dedizione, “unità dell’emozione e di bellezza, che fonde in un attimo tutti i tempi e tutti i segni” (G. d’A.). Il Poeta ne è completamente soggiogato fin dal loro primo incontro: “Davanti alla tastiera, la piccola Veneziana della parrocchia di Santo Stefano fa pensare agli spiriti e ai fuochi di un Concerto giorgionesco. Col vasto pianoforte a coda ella si accorta come il violinista col suo strumento sottile…nel modo che il legno liscio rispecchia il gioco delle sue mani forti, l’intera sonorità della cassa si foggia a somiglianza della sua bellezza patetica” (G.d’A.).

Quando decide di imbarcarsi nell’Impresa, il Vate porta con sé tre cose che gli sono indispensabili: “dieci scatole di cioccolatini Fiat, 500 grani  di stricnina e Smikra” (D. Musini). A Fiume la Baccara è invisa ai più, che la trovano fredda e antipatica; per Keller e Comisso è colpevole di rammollire e distrarre d’Annunzio con estenuanti giochi amorosi e abbondanti dosi di cocaina, tanto da far loro ideare un piano contorto per rapirla e portarla, nottetempo, su di un’isola deserta. Ma per Gabriele la mancanza di lei, spesso lontana per concerti, è come un faro spento in una notte tenebrosa di tempesta: “Senza di te sono come un condannato al supplizio, come un condannato che teme la luce e teme la notte. Le nostre sere di fuoco mi sembravano meravigliose, ma ora, in questa solitudine, mi sembrano più preziose della vita stessa, perché non vivo più”. Rimarranno assieme fino alla fine, l’uno succube dell’altro in un gioco che non ha padrone o servitore ma solo due modi diversi di completarsi l’un l’altro.

Il magico cerchio descritto dall’Uroboro di Fiume, ciò che sembra immobile ma è eternamente in movimento, apertosi a Venezia per quello che era solo l’embrione di una concreta utopia, si chiude con il ritorno alla città lagunare. Un nuovo inizio dopo una tempestosa fine.

“Io ho quel che ho donato” (G.d’A.)

Note

(1) Facente parte del Battaglione di fanteria coloniale francese

(2) N.d.r. la denominazione deriva dall’avvenimento siciliano del 1282 quando nei pressi della chiesa palermitana S. Spirito, fuori le mura, un soldato francese di nome Drouet, il 30 marzo, lunedì di Pasqua, si comportò in un modo irriverente nei confronti di una giovine donna in compagnia del suo consorte. La donna svenne, e lo sposo non esitò a trafiggere con una spada Drouet, iniziava da quell’episodio la rivolta denominata “I Vespri siciliani”)

(3) Paolo Venanzi 1972 Italia o morte! Vicende e figure nella storia di Fiume

(4) A. Scottà 2003 La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920)

(5) Monica Gasparotto Battaglia, nata a Bassano del Grappa nel 1970 è coautrice assieme ad Antonio Mucelli ed altri otto autori: Giacomo Bollini, Enea De Alberti, Antonio Melis, Roberto Roseano, Carlo Alberto Rosso, Raffaello Spironelli, Ezio Tormena e  Paolo Volpato di “Arditi d’Oro” (le 20 M.O.V.M. dei Reparti d’Assalto italiani 1917-1918) Dicembre 2018 – con relative presentazioni nazionali. La studiosa nel 2018 ha tenuto alcune conferenze sui Reparti d’Assalto. Inoltre, ha offerto diverse collaborazioni scritte con riviste e libri tematici sull’arditismo ed in procinto di pubblicare un’importante prefazione e introduzione per una prossima ristampa anastatica di una nota opera sugli Arditi.

Monica Gasparotto Battaglia

Essendo nata all’ombra del Monte Grappa, coltiva da sempre un particolare interesse verso gli accadimenti relativi alla Grande Guerra, attraverso letture, escursioni sui luoghi del conflitto, ricerca storica di documenti ed immagini. Monica Gasparotto Battaglia e Antonio Mucelli, insieme a Carlo Bianchi, sono i referenti storici della Federazione Nazionale Arditi d’Italia (F.N.A.I.) il cui Presidente è il Paracadutista Massimiliano Ursini. Essi, appartengono alla Sezione provinciale di Trieste, Fiume, Istria e Dalmazia ed anche della Sezione di Treviso.

 

Bibliografia:

Ferdinando Gerra, L’impresa di Fiume

Erik Goldstein, Gli accordi di pace dopo la Grande guerra,

Margaret MacMillan, Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo

Mimmo Franzinelli e Paolo Cavassini, Fiume: l’ultima impresa di D’Annunzio

Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale

Giordano Bruno Guerri, Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920

Giovanni Bernardini, Parigi 1919. La Conferenza di pace

Luigi Emilio Longo, L’Esercito Italiano e la Questione Fiumana (1918-1921)

Testi consultati da Monica Gasparotto Battaglia:

M.Carli, Con d’Annunzio a Fiume

Carli, Trillirì

Comisso, Le mie stagioni

Comisso, Il porto dell’amore

Frassetto, I disertori di Ronchi

Kochnitzky, Le quinta stagione o i centauri di Fiume

Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con d’Annunzio a Fiume

Gerra, L’Impresa di Fiume

G.B. Guerri, Disobbedisco

Vadalà, L’Arma dei Carabinieri Reali in Fiume d’Italia

D’Annunzio, L’urna inesausta

Foto di copertina: tratta da:  L’Arengario Studio Bibliografico

Giuseppe Longo
giuseppelongoredazione@gmail.com
@longoredazione

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