Cosa ti manca della Sicilia?
 «U scrusciu du mari». Ricordando Camilleri

Pubblichiamo un ricordo di Andrea Camilleri a firma di Teresa Triscari.
Era il 2009 quando Andrea Camilleri salì il palco del Teatro Parioli di Roma per ricevere il riconoscimento alla carriera conferitogli nell’ambito del “Premio Letterario Elsa Morante” della cui giuria mi onoro di far parte. Dacia Maraini, Presidente del Premio, nella motivazione, specificò, tra l’altro, che si trattava di un “grande”. Camilleri, con il suo sorriso sornione, ammiccante e accattivante che gli era tipico, intervenne subito dicendo : “Certo che sono grande, ho ottant’anni!”.
L’anno dopo il Nostro entrò a far parte della giuria del Premio ed ebbi così il privilegio di poterlo incontrare abbastanza spesso. Credevo di conoscere Camilleri perché ero una sua vecchia lettrice ma non conoscevo, e non lo avrei mai immaginato, la prontezza e la vivacità di certe sue riflessioni dove ogni parola era pesata e soppesata, ”usata” come collegamento ipertestuale e filo conduttore di una logica interna al discorso, non di rado abbastanza sottesa e misteriosa, che, pian piano, che si faceva strada, diventava quasi un disegno che usciva come una filigrana. Cominciammo così a parlare fitto fitto, lui, “scrittore italiano nato in Sicilia”, come amava definirsi; io, una siciliana nata altrove.
È stato proprio questo “altrove” la nostra liaison interna, il filo sottilissimo e invisibile di un’ironia e di un afflato che ha poi sempre accompagnato la nostra frequentazione, sporadica eppure intensa, ricca di calore e colore che mi faceva riandare con la memoria a Guttuso e a quella sua indimenticabile espressione: “Anche se dipingo una mela, c’è sempre la Sicilia”. La Sicilia c’era sempre in Camilleri, tesa e sottesa, soprattutto in quei grandi affreschi che sono i romanzi storici la cui cifra letteraria ha una valenza particolarissima che forse andrebbe riscoperta. Ma, ancora di più, parlando con lui, la memoria mi portava a un altro agrigentino, a Leonardo Sciascia e alla sua “sicilitudine” come “stato antropologico dell’essere siciliano”.
Per Camilleri, invece, la “sicilitudine” non era altro che “il lamento che il siciliano fa di sé stesso” una sorta di vittimismo non privo di una certa forma di autocompiacimento. Camilleri non era certamente tipo da “lamentationes”, troppo autoironico, persino sulla sua vista che tendeva a diminuire sempre di più, persino sul suo dover salire sul palco del Teatro Parioli brancolando, appoggiandosi alla fedele e vigile Valentina Alfieri e a noi, fieri tutori della sua presenza. Era un Omero, Camilleri, un vate, un indovino che è riuscito, alla fine, a lasciare questo mondo dicendoci: “Ora devo andare” (“Conversazione su Tiresia” pag. 51)
e concludendo il libello con queste parole: “Può darsi che ci rivediamo tra cent’anni in questo stesso posto. Me lo auguro. Ve lo auguro”.
Era il 17 luglio dell’anno scorso quando se ne andò. Quest’anno il 17 luglio cade di venerdì: chissà quanto avrebbe ironizzato lui su questa doppia coincidenza. Magari avrebbe detto: “Io avrei scelto il mercoledì, come appunto era l’anno scorso.” Pensando a Camilleri, a Sciascia, a Bufalino, Vittorini, Brancati, Quasimodo fino ad arrivare a Verga, a Capuana e a Pirandello, solo per citare alcuni nomi di quella superba rosa di cui si circonda la nostra Terra, spesso mi chiedo: ma l’area della Sicilia da dove questi grandi provengono, è forse un’altra isola? Forse. Forse le categorie metafisiche lì, da quelle parti, tra colonnati di templi greci ed epici pianori; tra miti e ricordi ancestrali; tra divinità e ninfe, hanno subito una certa qual trasformazione, fino ad arrivare a una forma di rarefazione del pensiero e delle immagini.
Ma torniamo alla “sicilitudine” dell’amico Andrea Camilleri. Considerata come un adattamento del termine “negritudine” coniato dal poeta-presidente senegalese Léopold Sédar Senghor, il concetto di “sicilitudine” implicava per Camilleri una dubbia idea di “diversità”. E se l’identità è sempre stata una nozione che gli stava a cuore, diffidava comunque delle sue connotazioni mitiche. D’altra parte la “sicilitudine” evocava anche, e non solo per l’assonanza, la solitudine tipica dell’insularità. Era la tesi di Giovanni Gentile, che partiva dall’idea di una Sicilia “sequestrata”, cioè esclusa dal movimento della cultura europea, e facendo derivare da questa teoria una “forma di cultura indigena, e tutta schiettamente siciliana” destinata a spogliarsi del proprio carattere regionale attorno all’inizio del Novecento.
All’opposto di Gentile, altri intellettuali sottolineavano il carattere aperto e comunicante dell’isola, i suoi contatti italiani ed europei. “La verità, – scriveva Sciascia – come al solito, sta tra le due tesi”. Parlando della famosa teoria di Vittorio Nisticò (il direttore del giornale “L’Ora” di Palermo) secondo cui esistono i siciliani di scoglio (quelli che rimangono sempre nei pressi dell’isola) e quelli di mare aperto (che prendono il largo e se ne vanno), Camilleri ironizzava sul suo amico Leonardo raccontando che la prima volta che era andato a Parigi si era beccato tre giorni di influenza, ma più che l’influenza ad affliggerlo era stato il male del sentirsi “esiliato”.
Era proprio questa l’insularità di Camilleri, quella di essere un siciliano di scoglio. E questa sua appartenenza fu fotografata benissimo dall’amatissimo Vitaliano Brancati, quando diceva che a due siciliani che abitano sullo stesso pianerottolo muovere qualche passo per incontrarsi è come fare una traversata atlantica. Per questo motivo, forse, sono stati sempre gli altri ad avvicinarsi a Camilleri, persino da Paesi lontani come la Polonia dove io ho operato per alcuni anni e dove ho avuto il privilegio, tra l’altro, di conoscere intelletti della levatura di Jarosław Mikołajewski, poeta, scrittore e traduttore appassionato di Camilleri che, quando gli chiesi come facesse a tradurre certi suoi termini dialettali particolarissimi, mi rispose: “Non è difficile: Camilleri quando si esprime in siciliano parla il polacco!”.

Ecco, Il siciliano di scoglio è stato raggiunto nei suoi anfratti ed è stato stanato. Me lo ricordo, ce lo ricordiamo. Il narratore crea una terra dove poter far stare i suoi personaggi. Andrea Camilleri, “Come la penso”.

Teresa Triscari

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