Il corpo «parla». Non ascoltato … «urla»

I sintomi psicosomatici, a lungo confinati in un calderone indifferenziato di patologie dalla dubbia identificazione diagnostica, indicano da un punto di vista psicologico, l’estrema conseguenza di un disagio e un modo alternativo per far emergere bisogni dell’individuo, a lungo taciuti e rimasti inespressi; vengono altresì spiegati in medicina, attraverso gli studi della neuro-fisiologia e della psico-neuro-endocrino-immunologia.

La materia è controversa, ma provo a fare un po’ di chiarezza ricorrendo al mio modello formativo, che ha sostenuto l’interesse da me sempre nutrito per questi temi.  

L’approccio di noi psicoterapeuti della Gestalt è “fenomenologico”, per cui rivolgiamo l’attenzione a ciò che appare e al “come” si manifestano i comportamenti di una persona a partire dall’osservazione del suo corpo.

In un individuo con modalità psicosomatiche, viene messa in atto ciò che definiamo “retroflessione” cioè il blocco o l’interruzione di un’azione. In altri termini quando la persona prova emozioni intense o forti tensioni, le “trattiene” e le rivolge verso se stessa, anziché tradurre la loro energia in un’azione verso l’esterno. Questo è visibile in un corpo contratto o irrigidito, in un respiro discontinuo e non fluido, in micro gesti ricorrenti come il giocherellare con le dita, indizi della lotta in cui ci si consuma nel non riuscire a fare o a dire qualcosa.

Quando non “sentiamo” il nostro corpo e soprattutto se non riusciamo a cogliere e decodificare i nostri bisogni, attraverso i segnali e i messaggi che da esso provengono, siamo in uno stato di non benessere.

Un corpo silenzioso, in cui tutto tace, non è il segno che tutto funziona quanto il sospetto che l’individuo non sia in contatto con le sue sensazioni/percezioni; “star bene” vuol dire equilibrio tra mente-corpo-mondo esterno e “fluidità” nel far seguire a ciò che sentiamo, una corrispettiva azione o espressione emotiva.

I soggetti che “retroflettono”, invece, hanno sperimentato “impossibilità” a manifestare bisogni, emozioni, vissuti per timore di riceverne svalutazione/disapprovazione/rifiuto/critica/punizione da parte di figure affettivamente significative che dunque non hanno saputo o potuto “contenerli” e “sostenerli”.

Così il “trattenere” e poi il sintomo sono stati un loro “adattamento creativo”, cioè l’unica cosa che gli è stato possibile fare in un certo momento della vita; il guaio è che ciò si è stabilizzato, diventando schema o modalità consueta che si ripete, sebbene anacronistica e non più “funzionale” nelle nuove situazioni relazionali.

Tale è il nucleo dell’esperienza nevrotica in generale e di quella psicosomatica in particolare.

Quest’ultima esprime un cortocircuito per cui l’individuo troppo centrato sul pensiero, perde la consapevolezza di ciò che “sente” e la spontaneità, agisce un deliberato controllo sul suo corpo finché gli diventa “estraneo”. Così esso esprime una sofferenza o tensione interiore “non dicibile”, la sua “presenza” è avvertita solo quando sta male e, cessando di “parlare” coi suoi segnali comincia a “urlare”attraverso i sintomi.

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