Nel primo conflitto mondiale le marine belligeranti utilizzarono ampiamente le mine navali. Questi ordigni furono impiegati sia per la difesa dei porti (attacchi navali e sottomarini) oppure utilizzati in fase offensiva nella realizzazione di campi minati. Abbiamo chiesto a Virginio Trucco (1) di parlarci di quest’ordigno e del suo impiego durante la Grande Guerra.
«Nella Iª Guerra Mondiale, fu fatto largo uso di mine, anche in sbarramenti offensivi. I tedeschi effettuarono il minamento delle acque inglesi, con 43.000 mine che provocarono la perdita di quasi un milione di tonnellate di naviglio, comprese corazzate e incrociatori e più di 200 mezzi di dragaggio. Nel 1915 i campi minati posati dai turchi a difesa dello Stretto dei Dardanelli, impedirono l’appoggio dei reparti da sbarco inglesi a Gallipoli. Gli italiani posarono sbarramenti di mine in funzione antisommergibile nel Canale d’Otranto. Nel 1916 i campi difensivi posati dai tedeschi a difesa dell’accesso del Baltico, impedirono gli inglesi di inseguire la flotta dopo la battaglia dello Jutland. Solo nel 1918 gli anglo-francesi posarono più di 70.000 mine nel mare del Nord.
La storia: La mina è una carica di esplosivo che viene posta sotto la superficie del mare, in modo da arrecare danni sia a navi sia a sottomarini. La mina è composta di tre parti, la cassa che contiene l’esplosivo e i congegni d’innesco, il cavo di ormeggio e l’ancora. Tramite quest’ordigno si possono creare dei campi minati difensivi al fine di proteggere l’ingresso ai propri porti o i litorali, oppure realizzare sbarramenti offensivi lungo le rotte di accesso ai porti nemici o passaggi obbligati. L’unico problema della mina è che questa, una volta posata non distingue le navi amiche da quelle nemiche. L’idea della mina navale nacque nel 1600, gli inglesi usarono barili galleggianti pieni di polvere nera che per dispositivo di accensione avevano un acciarino da moschetto. Questi barili furono utilizzati contro le navi di Luigi XIII, ma non ebbero successo, poiché la polvere si bagnava e non esplodeva. L’uso della mina come arma per la difesa dei porti, venne utilizzata da un ufficiale della marina pontificia, per difendersi dalle scorrerie dei pirati barbareschi. I barili erano ancorati con grosse pietre. Tuttavia, rimaneva il problema dell’umidità e del contenitore, poiché il legno impregnandosi d’acqua affondava. Durante la Guerra d’indipendenza americana, David Bushnell, (l’inventore del Turtle) utilizzò alcuni barilotti, con una cintura di detonatori a frizione e li affidò alla corrente per cercare di colpire la flotta inglese, ancorata alla foce del Delaware. Attorno al 1795 Robert Fulton sperimentò una torpedine da blocco (navale) giungendo alla conclusione che la carica di esplosivo per essere efficace, doveva essere di almeno 100Kg. Il suo esperimento lo propose invano a Napoleone, e visto il rifiuto abbandonò gli studi. Solo verso la metà dell’Ottocento le varie marine ripresero gli studi sulla torpedine. La prima vittima di una mina fu la cannoniera (a ruote) inglese Merlin, che nel maggio 1854, durante la guerra di Crimea, urtò, l’ordigno messo a protezione di un forte russo; ma la carica era troppo leggera per subire gravi danni. La mina era del tipo messo a punto dall’ingegner Moritz Hermann Jacobi. L’ordigno era dotato di un dispositivo di accensione, costituito da un urtante di piombo che al suo interno accoglieva una fiala di vetro contenente acido solforico. L’urto contro la nave provocava la deformazione del piombo e la rottura della fiala, il cui contenuto, cadendo in una miscela di clorato di potassio e zucchero, innescava una reazione esotermica che accendeva l’esplosivo. Durante la guerra civile americana, la mina fu molto adoperata. Si utilizzarono sia mine tipo Jacobi, sia nuovi modelli. Samuel Colt, ne ideò un tipo che veniva innescato tramite un comando elettrico che giungeva alla mina attraverso un cavo isolato. Il cavo attraversava una sottile resistenza immersa in piume d’oca, intrise di fulminato di mercurio: era nato il gimnote, una mina comandata da un operatore dalla terraferma, mentre la nave si trovava nei pressi dell’ordigno. Questo tipo di mina, era più efficiente, ma i cavi elettrici e le batterie ne aumentavano il costo. Nella Guerra civile americana le varie tipologie di mine, provocarono l’affondamento o il danneggiamento di 35 navi. Durante la guerra russo-giapponese del 1904, tutte e due i contendenti fecero uso in larga scala sia di mine sia di gimnote. I Russi, tramite l’ammiraglio Stepan Osipovič Makarov, perfezionarono i loro ordigni, con un nuovo tipo di urtante, ossia l’urtante Herz: nella fiala, l’acido solforico fu sostituito dal bicromato di potassio. Al di sotto della fiala stava una batteria a secco, collegata con il detonatore, quando la fiala si rompeva, il bicromato alimentava la pila, quest’ultima con la sua corrente alimentava il detonatore. Questo tipo d’innesco si prolungherà fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo Macharov perse la vita proprio a causa dello scoppio di una mina che affondò la Corazzata Petropavlovsk. Le mine giapponesi erano invece dotate d’interruttore a inerzia che le rendeva sensibili alle condizioni del mare. Tuttavia i russi non tardarono a rendersi conto dei limiti imposti dall’ordigno. Infatti, un posamine saltò su un proprio ordigno, affondando con gli ufficiali e il carteggio del piano di posa. Si dovette esplorare lungamente la Baia di Dalny, prima di potervi navigare in sicurezza. Nel corso della guerra russo-giapponese, oltre che sottocosta, le mine iniziarono a essere utilizzate anche in mare aperto. Il problema principale nell’uso delle mine era proprio la posa. Come abbiamo già detto, all’epoca, la corazzatura delle navi si fermava appena sotto la linea di galleggiamento. Quindi, la mina, per ottenere i suoi effetti, doveva essere posta tra i 3 – 5 metri sotto il livello del mare. Questo comportava che prima della posa si doveva scandagliare il fondale, regolare il cavo di ancoraggio al fine di avere la quota richiesta e poi procedere alla posa delle mine che avveniva tramite gru, con il pericolo di esplosioni. Alla fine del 1800, grazie ad un italiano il guardiamarina Emanuele Elia (1), la mina fece un salto di qualità. Elia brevettò un nuovo tipo di ancora a carrello. L’ancora era dotata al suo interno di un tamburo che portava avvolto 1000 metri di cavo, ed era dotata ai suoi lati di quattro ruotine. Queste, tramite rotaie stese sul ponte, venivano agevolmente fatte scivolare in mare dalla poppa del battello. Una volta in mare la mina rimaneva a galla, grazie alla spinta positiva della cassa e dell’ancora. Nello stesso momento dall’ancora si sganciava uno scandaglio (che aveva una lunghezza pari alla quota desiderata), e una volta spiegato, sbloccava il tamburo del cavo e apriva una via d’acqua nell’ancora. Quest’ultima iniziava ad affondare, mentre la cassa rimaneva in superficie. Nel frattempo il cavo si srotolava. Quando lo scandaglio toccava il fondo, il cavo dello stesso, andando in bando, provocava l’arresto del cavo di ancoraggio; nel mentre l’ancora affondava, trascinando l’ordigno alla quota voluta e un piatto idrostatico armava la mina. Emanuele Elia, nel 1897, con il battello Washington e 20 uomini pose uno sbarramento di torpedini, chiudendo il porto di La Spezia in solo un’ora (col vecchio sistema di ancoraggio ci sarebbero voluti circa quattro giorni e più di 200 uomini) Oggi, questo tipo di cassa è ancora in uso. Altre nazioni utilizzarono un sistema di ancoraggio a spinta negativa. La mina collegata alla cassa, veniva calata sul fondo. Il rullo del cavo d’ancoraggio era fermato da un perno di sale che sciogliendosi, rilasciava la cassa, giunta alla quota prefissata; un piatto idrostatico provocava l’imbando del cavo e a sua volta il blocco del rullo. Questo tipo di ancoraggio rimase in uso per il minamento, tramite sommergibile, al fine di non rilevarne la posizione. Nonostante tutto, allo scoppio della guerra, solo la marina russa e tedesca, disponevano di un adeguato arsenale di mine e mezzi idonee alla posa, sia di superficie sia sottomarina. Gli inglesi disponevano di un arsenale di 4.000 mine, mentre francesi e italiani ancora meno. Nonostante questo, solo gli inglesi alla fine della guerra, ne avevano posate più di 130.000. I tedeschi, furono i primi a utilizzare le mine, mediante l’uso delle torpediniere, dei sommergibili e delle navi corsare. Infatti, il 27 ottobre 1914, affondarono la corazzata Audacious di oltre 26.000 tonnellate. Intanto, tutti i paesi belligeranti iniziarono a sperimentare nuove armi e nuovi tipi d’innesco, fra cui quelli a influenza magnetica e acustica. Gli americani fabbricarono un particolare tipo mina antisommergibile, detta ad antenna. Dalla cassa partiva un cavo di rame sostenuto da un gavitello. Il contatto fra il cavo di rame e lo scafo d’acciaio del sommergibile provocava una leggera corrente che faceva chiudere un relè che attivava la mina. Queste mine (battezzate MK6) ne furono costruite complessivamente 120.000 esemplari, di cui più 56.000 ne furono posati fra le Orcadi e l’Utsire Bank a profondità variabili fino a 80 metri, al fine d’impedire l’accesso ai sommergibili tedeschi in Atlantico. Si ritiene che questo sbarramento provocò la perdita di almeno 6 sommergibili. Parallelamente allo sviluppo delle mine, iniziarono i tentativi per neutralizzarle. All’inizio, si utilizzarono due pescherecci che navigavano su rotte parallele alla stessa velocità. Rimorchiavano tra loro un cavo d’acciaio (sciabica), che incocciando nel cavo d’ancoraggio, trascinava le mine verso un basso fondale, fino a farle affiorare, e poi fatte affondare o esplodere con le armi leggere in dotazione all’equipaggio. Le navi militari furono dotate di particolari dispositivi che partendo da due cavi (uno per lato) fissati alla prua, venivano fatti divergere da un particolare congegno dotato d’impennaggi (paramine) al fine di allontanare le mine dalla nave. L’ammiraglio francese Ronarc’h, introdusse una nuova tecnica: un dragamine filava di poppa, un cavo dotato di un particolare dispositivo (che tramite la resistenza al moto) manteneva il cavo a una determinata quota (immersore). Dall’immersore dipartivano due cavi che rimorchiavano due apparecchi che sfruttando la resistenza al moto divergevano verso l’esterno i cavi (divergenti). Sui cavi divergenti erano montate speciali cesoie, che incocciando il cavo della mina lo tagliavano e la facevano emergere. Questo metodo con le dovute innovazioni tecnologiche è ancora in uso per il dragaggio delle mine ormeggiate».
(1) Virginio Trucco è nato a Roma, ha frequentato l’Istituto Tecnico Nautico “Marcantonio Colonna”, conseguendo il Diploma di Aspirante al comando di navi della Marina Mercantile. Nel 1979, frequenta il corso AUC (Allievo Ufficiale di Complemento) presso l’Accademia Navale di Livorno, prestando servizio come Ufficiale dal 1979 al 1981. Dal 1981 è dipendente di Trenitalia S.p.A.
(2) Elia Giovanni Emanuele (1866 – 1935). Nel 1880 partecipò al primo corso della neo costituita Accademia Navale, fu promosso Guardiamarina nel 1855 e Sottotenente di vascello nel 1887. Promosso Tenente di vascello nel 1890, nello stesso anno presentò il brevetto della sua mina e si congedò per proseguire gli studi. Elia registrò un cospicuo numero di brevetti. La ditta Vickers, adottò il suo brevetto per le mine utilizzate nella Prima Guerra Mondiale.
Foto a corredo della’articolo: Mina navale della Prima Guerra Mondiale
Giuseppe Longo
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