Il 7 dicembre di settantacinque anni fa la base navale americana di Pearl Harbor veniva attaccata di sorpresa in due ondate da una nutrita forza aerea giapponese: bombardieri, aerosiluranti e caccia. Fu la più grande concentrazione di aerei mai visti fin d’allora nel Pacifico, e che in circa due ore misero fuori combattimento buona parte della flotta statunitense. L’attacco giapponese a Pearl Harbor, porto naturale nell’isola di Oahu nelle Hawaii, fu eseguito senza aver prima dichiarato guerra agli Stati Uniti, pertanto, questo episodio segnerà indelebilmente l’animo del popolo americano. Infatti, all’indomani dell’infausto avvenimento, dure furono le parole del Presidente americano Franklin Delano Roosevelt, pronunciate al Congresso: «Ieri, 7 dicembre 1941, una data che entrerà nella storia come il giorno dell’infamia, gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati dalle forze aeree e navali dell’impero del Giappone» (1). Il piano d’azione giapponese contro l’importante base navale, sede della flotta americana del Pacifico fu predisposto dall’Ammiraglio Isoroku Yamamoto allo scopo di distruggere preventivamente la flotta navale americana insieme alle sue portaerei. In questo modo si sarebbero eliminati gli eventuali ostacoli per la conquista dell’Estremo Oriente. Infatti, soltanto gli “States” sarebbero stati l’unica forza militare a contrastare i nipponici, dato che gli imperi coloniali, inglese, francese e olandese oramai usciti dalla sfera delle influenze, certamente non potevano più impedirlo. In realtà, dopo l’aggressione giapponese alla Cina e in seguito all’Indocina, i rapporti tra le due potenze, USA e Giappone si erano deteriorati a tal punto da causare il blocco dei crediti giapponesi negli Stati Uniti, e l’embargo; a cui si aggiunse da parte inglese il blocco delle forniture petrolifere. Pertanto, all’Impero del Sol Levante, l’unica alternativa per la riuscita della sua politica espansionistica fu la guerra, e la fece con un’azione aeronavale improvvisa, proprio sul suolo americano a Pearl Harbor, alle prime luci dell’alba del 7 dicembre 1941. L’azione militare giapponese chiamata col nome in codice “Operazione Z”, ebbe una vasta eco. Le tre portaerei (Lexington, l’Enterprise e la Saratoga) uno dei principali obiettivi da colpire secondo i piani strategici dei giapponesi, fortunatamente per gli americani, non erano presenti in rada, poiché erano salpate poche ore prima dell’aggressione. Il giorno 8 dicembre gli Stati Uniti e l’Inghilterra dichiarano guerra al Giappone, e l’11 dello stesso mese per il gioco delle alleanze, la Germania e l’Italia dichiarano guerra agli Stati Uniti. Per avere un quadro più dettagliato di ciò che successe in quella giornata funesta che seminò morti e distruzioni nella baia di Pearl Harbor, abbiamo chiesto allo storico navale Virginio Trucco (2) di parlarcene.
«La politica espansionistica del Giappone in Asia, deteriorò i rapporti con gli Stati Uniti, che nel luglio del 1940 imposero un primo embargo al Giappone, nonostante questo, il Giappone continuò la sua opera di espansione, fino a firmare il 27 settembre 1940 il patto Tripartito con Germania ed Italia. Il 26 luglio del 1941, in risposta all’invasione dell’Indocina meridionale, gli Stati Uniti dichiararono l’embargo totale verso il Giappone, il congelamento dei beni dei cittadini nipponici ed il divieto di transito del Canale di Panama alle navi giapponesi. Nonostante l’avvio di trattative fra i due paesi, e la riluttanza dell’Ammiraglio Yamamoto ad una guerra contro gli Stati Uniti, nell’agosto del 1941, lo Stato Maggiore della Marina Imperiale iniziò lo studio di un attacco alla flotta americana, che dall’ottobre del 1940 su ordine del presidente Roosevelt era stata concentrata alle Hawaii nella base Pearl Harbor. Lo stato maggiore, dopo aver studiato l’attacco della Royal Navy nell’ottobre del 1940 a Taranto, decise per un attacco aeronavale alla base americana, al fine di ridurre il rischio che i siluri passassero sotto le navi nemiche (un siluro lanciato da un aereo quando entra in acqua, affonda per un certo numero di metri prima di portarsi alla quota impostata) si addestrarono i piloti a lanciare a pelo d’acqua e si modificarono i siluri ingrandendo le superfici dei timoni verticali. Il piano prevedeva l’attacco combinato di aerosiluranti e bombardieri, coadiuvati dai caccia, contro le navi, gli aerei basati a terra e i depositi di armi e carburante, al fine di poter dare al Giappone un vantaggio di un paio d’anni prima che le forze statunitensi si potessero riprendere. La data dell’attacco fu decisa per una domenica prima del 15 dicembre, data in cui i monsoni invernali avrebbero reso gravose le operazioni di sbarco per l’attacco alle coste asiatiche.
La flotta destinata all’attacco, doveva essere costituita da due divisioni, la prima agli ordini del viceammiraglio Chũichi Nagumo era composta da sei portaerei “Akagi”, “Kaga”, “Soryu”, “Hiryu”, “Shokaku” e “Zuikaku”, per un totale di 389 aerei imbarcati, 350 di questi furono destinati all’attacco, mentre 39 dovevano rimanere di copertura alle portaerei; la seconda divisione con il compito di scorta era composta da: 2 corazzate, 2 incrociatori pesanti, nove cacciatorpediniere, tre sommergibili ed otto navi cisterna per il rifornimento. Al comando del viceammiraglio Mitsumi Shimizu era una flotta di sommergibili di cui 5 tascabili, che avrebbero dovuto attaccare le navi eventualmente uscite dalla base sotto attacco. Per non destare sospetti, le navi lasciarono le loro basi a piccoli gruppi da metà novembre, con destinazione la Baia di Hitokappu, nelle Curili del Sud, isola scarsamente abitata e con condizioni meteorologiche tali da poter mascherare la grande flotta. Il 26 di novembre le navi salparono seguendo una rotta del tutto ignorata dalle navi mercantili. Nel pomeriggio dello stesso giorno gli Stati Uniti presentarono una proposta ai rappresentati giapponesi, ma tale proposta fu considerata umiliante dal governo di Tokyo, ed il giorno 1 il governo nipponico, in accordo con l’Imperatore decise la guerra contro gli Stati Uniti. Il giorno 2 la flotta in navigazione ricevette il messaggio in codice “ scalate il Monte Niitaka” che confermava la missione di attacco.
Intanto il 27 di novembre il segretario della Marina Knox diramò alle forze statunitensi il preavviso di guerra contro possibili attacchi nell’area asiatica, l’ammiraglio Kimmel (capo delle forze navali del pacifico) non ritenne possibile mantenere le navi in continuo stato di allerta, mentre il generale Short, temendo azioni di sabotaggio decise di raggruppare gli aerei in modo che fossero facilmente sorvegliabili. Nella notte fra il 6 e il 7 dicembre il ministro degli esteri giapponese, inviò all’ambasciata a Washington, le 13 parti di un documento finale inteso come una vera e propria dichiarazione di guerra e venne ordinato all’ambasciatore che il documento doveva essere consegnato alle 13.00 corrispondenti alle 07.30 delle Hawaii, con l’intenzione di iniziare l’attacco mezzora dopo la consegna del documento, tuttavia a causa di contrattempi nella decifrazione del messaggio lo stesso venne consegnato alle ore 14.20 mezzora dopo l’inizio dell’attacco.
Nonostante gli americani fossero a conoscenza del testo sin dalle ore 11.00, solo alle 11.25 si decise a diramare l’allarme generale, che a causa di errori burocratici e formalità tecniche raggiunse le Hawaii ad attacco già iniziato. Il giorno 6 i comandi giapponesi, erano stati informati che le tre portaerei “Enterprise”, “Lexington” e “Saratoga”, non erano presenti in porto, ma venne confermata la presenza di otto corazzate e gran parte del naviglio minore. Alle 05.00 del giorno 7 gli equipaggi furono svegliati ed iniziarono i preparativi per l’attacco. Alle ore 06.00 furono lanciati gli aerei della prima ondata, e alle 07.15 quelli della seconda ondata, a 440 Km dall’obiettivo. Gli attacchi aerei erano stati programmati dai capitani di fregata Mitsuo Fuchida e Minoru Genda, e prevedevano che la prima ondata in caso di sorpresa riuscita avrebbero attaccato prima gli aerosiluranti, poi i bombardieri ed infine i caccia, in caso di sorpresa non riuscita tutti i gruppi avrebbero attaccato assieme, la seconda ondata avrebbe colpito gli obiettivi a terra ed era prevista una terza ondata per colpire gli obiettivi rimasti indenni.
La prima ondata era costituita da tre gruppi per un totale di 183 velivoli, il primo gruppo con obiettivo le corazzate era composto da 49 bombardieri Nakajima B5N armati con bombe perforanti da 800 Kg, 40 aerosiluranti Nakajima B5N armati con siluri tipo 91.
Il secondo gruppo avente come obiettivi le basi, era costituito da 51 bombardieri in picchiata Aichi D3A armati con bombe da 249 Kg.
Il terzo gruppo con obiettivi gli aerei a terra era costituito da 43 caccia Mitsubishi A6M Zero.
Alle ore 07.02 gli aerei vennero avvistati dalla postazione RADAR di Opana Point, ma si ritenne che si trattaste di un gruppo di bombardieri B17 attesa per la mattina.
Alle 07.30 i giapponesi giunsero sopra Oahu, e rilevando che la sorpresa era riuscita, alle 07.40 Fuchida lanciò un razzo bianco (segnale concordato) e le forze di attacco iniziarono a dispiegarsi, ma il segnale non fu visto dai caccia così che Fuchida fu costretto a lanciarne un secondo che fu interpretato dai bombardieri e aerosiluranti come il segnale di sorpresa non riuscita e tutti si lanciarono all’attacco, così mentre gli equipaggi delle navi americane si preparavano all’alzabandiera, iniziarono a piovere le prime bombe e siluri che colpirono navi e installazioni a terra con sistematica precisione. Vennero colpite la nave bersaglio “Utah”, l’incrociatore leggero “Raleigh”, l’incrociatore “Helena”, le corazzate “Oklahoma”, la “West Virginia”, la “Nevada”, la “California”, la “Maryland”, “Tennessee” e la “Arizona” che incassate 4 bombe si spezzò in due uccidendo 1177 uomini, finita la prima ondata dopo una breve pausa che permise alla “Nevada” ed alla “Alwyn” di prendere il mare, alle 08.55 arrivò la seconda ondata, anch’essa suddivisa in tre gruppi, il primo gruppo composto da 54 Nakajima B5N armati di bombe da 249 e da 54 Kg, con obiettivo gli aeroporti.
Il secondo gruppo composto da 78 Aichi D3A armati con bombe da 249 Kg con obiettivo gli incrociatori, ed il terzo gruppo formato da 35 Mitsubishi A6M Zero con compiti di scorta e mitragliamento a bassa quota. Oltre alle basi aeree, furono colpiti la “New Orleans”, i caccia “Cassin” e “Downes” e la corazzata “Pennsylvania”, ammiraglia della flotta.
Alle 11.00 tutto era finito, l’ultimo aereo quello del comandante Fuchida appontò alle 13.00, si discusse sull’opportunità di una terza ondata, ma l’Ammiraglio Nagumo diede l’ordine di ritirarsi.
Il raid, aveva causato, l’affondamento di 6 navi, 7 furono gravemente danneggiate, 2 mediamente danneggiate e 4 riportarono lievi danni. Furono distrutti 151 aerei e le perdite umane ammontarono a 2403 morti e 1178 feriti.
I giapponesi persero 29 aerei, e le perdite umane furono di 189 morti».
(1) lastoriaoggi.wordpress.com
(2) Virginio Trucco è nato a Roma, ha frequentato l’Istituto Tecnico Nautico “Marcantonio Colonna”, conseguendo il Diploma di Aspirante al comando di navi della Marina Mercantile. Nel 1979, frequenta il corso AUC (Allievo Ufficiale di Complemento) presso l’Accademia Navale di Livorno, prestando servizio come Ufficiale dal 1979 al 1981. Dal 1981 è dipendente di Trenitalia S.p.A. Lo storico navale Virginio Trucco è membro dell’Associazione Culturale BETASOM (www.betasom.it).
Testi consultati da Virginio Trucco: Grandi battaglie del XX secolo, Curcio Editore di Arrigo Petacco. Storia della Marina Fabbri Editori.
Foto a corredo dell’articolo: Nave da battaglia USS Arizona in fiamme, da Wikipedia
Giuseppe Longo
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