Luca Zambianchi: il regista che non segue le mode dell’industria

“Accettare di fare film con poco, uscire dal dogma imposto dalle scuole di cinema secondo cui se non hai tre assistenti per ciascuna funzione la tua troupe non è ottimale, e soprattutto cercare di produrre film che abbiano significato esistenziale e artistico prima di tutto per te che lo hai creato, senza voler imitare a tutti i costi le mode dell’industria”. E’ quanto pensa il regista Luca Zambianchi che con un suo cortometraggio partecipa alla terza edizione del Cefalù film festival. Lo abbiamo intervistato.

Chi è Luca Zambianchi e come nasce la passione per il cinema e per il cortometraggio in particolare?
Sono un giovane regista con quattro cortometraggi alle spalle e un quinto in post-produzione. La mia passione è nata durante la scuola e, in modo più deciso, durante il primo anno di università. Non ho ricevuto una formazione da una scuola di cinema per varie ragioni, una delle quali è la mia necessità di vivere la mia esperienza artistica con serenità e senza elemosinare lavoro pubblicitario per mantenermi. Scrivo quando ne sento la necessità, e la sento spesso, dirigo e auto-produco i miei lavori a modo mio. Ma prima di tutto, forse, dovrei dire che sono un essere umano e uno spettatore.

Hai un particolare progetto al quale sei particolarmente legato?
Sono molto a legato ad una sceneggiatura di lungometraggio che ho scritto e aggiornato negli ultimi tre anni. Mi piacerebbe un giorno vederle prendere vita. Per quanto riguarda i progetti già realizzati, sono molto legato al mio ultimo cortometraggio intitolato “Il Ballo”, attualmente in post-produzione, anche se forse “Lo Spettatore” resta ad oggi il lavoro in cui mi riconosco maggiormente. Realizzato con una troupe di due, massimo tre persone, è un lavoro molto libero e personale e credo che rappresenti bene tutti i pregi (e anche i difetti, di cui non mi vergogno) di quella autarchia a cui sono molto affezionato.

Giri il mondo. C’è un paese al quale sei maggiormente legato e perché?
Ho vissuto, per ora, in Inghilterra e in Belgio. Grazie alla mia famiglia, ho avuto la fortuna di visitare diversi Paesi e altri continenti, però – e non potrebbe essere diverso – il Paese a cui mi sento più legato è l’Italia. E’ il Paese in cui sono nato e cresciuto, la cui cultura umanistica mi fa da impalcatura e in cui, nonostante i tanti difetti di cui ci lamentiamo passivamente, mi sento essenzialmente a casa. E poi non si trovano più tanti mandolini in giro…

Cosa pensi della situazione del cinema indipendente?
Penso che in Italia ci siano tanti autori nuovi e coraggiosi che, malgrado le difficoltà, facciano grandi sforzi per portare avanti una propria visione, e questo dà un senso alla mia vita di spettatore. Penso, però, che ci sia anche un’altra categoria di giovani autori che sin dall’inizio ha affrontato il cinema come un’indagine di mercato, andando a scovare quelli che sono i temi e le “morali” che garantiscono più finanziamenti pubblici, patrocini e sponsor privati. Primi fra tutti ci sono i film a tema sociale e l’immigrazione, spesso e volentieri scritti superficialmente e con opportunismo ideologico.
Insomma, credo che anche il giovane cinema indipendente stia disperatamente cercando una “dipendenza”. E mi dispiace.

Quali difficoltà si incontrano per emergere nel mondo della cinematografia?
Non credo ci siano più difficoltà ora di trenta o quarant’anni fa. Anzi, la mia generazione può produrre e distribuire il proprio film ad un costo più contenuto e con maggiore facilità. Il problema, semmai, sta proprio in questa “facilità”, che rende la mano più veloce del pensiero, il mezzo più veloce del fine. Molti miei coetanei si preoccupano più del modello della telecamera che del soggetto del film e degli attori.
Al contempo, credo anche che lamentarsi del sistema “ingiusto” serva a poco. Io mi approccio alla creazione cinematografica umilmente e con un atteggiamento affine a quello della “Nouvelle Vague” e del “Free Cinema” inglese: accettare di fare film con poco, uscire dal dogma imposto dalle scuole di cinema secondo cui se non hai tre assistenti per ciascuna funzione la tua troupe non è ottimale, e soprattutto cercare di produrre film che abbiano significato esistenziale e artistico prima di tutto per te che lo hai creato, senza voler imitare a tutti i costi le mode dell’industria.

Che messaggio senti di lasciare agli organizzatori del Cefalù Film Festival?
Mi piacerebbe che i festival si connotassero con una chiara missione artistica e culturale che determini la selezione dei film in concorso. In Italia siamo pieni di festival inutili che si imitano tra loro, che selezionano grosso modo gli stessi film (quelli con più allori in mostra). E quasi nessuno che supporti i film a basso costo, se non a parole. Il messaggio, quindi, che mi sento di lasciare è: supportate i registi che producono film interessanti con basso budget e pochi mezzi, accettate e valorizzate l’imperfezione della sperimentazione, e non premiate un film solo perché ha vinto i David di Donatello. Facendo queste due-tre cose, vi distinguereste automaticamente da tutti gli altri festival di cortometraggi d’Italia.

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