Soluzioni concrete per la crisi dei rohingya

A quasi sei mesi dall’inizio delle sanguinose violenze nello stato del Myanmar del Rakhine, che hanno spinto circa 700.000 musulmani dell’etnia rohingya a scappare verso il Bangladesh, è arrivato il momento — secondo le Nazioni Unite — di affrontare con più decisione il problema, «affinché i profughi si sentano sicuri a tornare in patria».

Le cause della fuga dei rohingya «non sono state approfondite; non abbiamo ancora visto progressi sostanziali nell’affrontare la negazione dei diritti umani, che si è acuita negli ultimi decenni», ha detto durante una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), Filippo Grandi. «È una corsa contro il tempo, mentre si profila una nuova importante emergenza» ha aggiunto, spiegando che l’area di Kutupalong, a Cox’s Bazar, in Bangladesh, è diventata il più grande insediamento di profughi al mondo. «Il governo del Bangladesh sta guidando uno sforzo massiccio per prepararsi alle emergenze, ma serve un’accelerazione del sostegno internazionale per evitare una catastrofe», ha continuato l’Alto commissario, ribadendo che «risolvere questa crisi significa trovare soluzioni all’interno del Myanmar». Discriminati e perseguitati da anni, l’Onu ha definito la violenza contro questa minoranza un caso di «pulizia etnica». E la situazione per le centinaia di migliaia di rohingya ammassati nei campi profughi è destinata a peggiorare ulteriormente nelle prossime settimane. L’acqua potabile e il cibo scarseggiano, la situazione igienica si è deteriorata e mancano le medicine. Migliaia di famiglie, compresi i bambini (si stima che il 60 per cento dei rohingya arrivati in Bangladesh siano minori), dormono all’aperto perché non hanno altro posto dove andare.

E con la stagione dei monsoni che inizierà a marzo, i rohingya saranno costretti anche a vivere, tra enormi difficoltà, in aree soggette a inondazioni o frane. (Fonte L’Osservatore Romano)

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