Hikikomori anche a Cefalù? Giovani reclusi in casa

Il fenomeno del hikikomori sbarca anche in Italia. A viverlo giovani di età compresa tra i 14 e i 25 anni che non studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Durante il giorno dormono e vivono di notte per evitare qualsiasi confronto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della Rete e dei social network con profili fittizi. Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”. Nel Paese del Sol Levante sono tanti ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi.

«E’ un male che affligge tutte le economie sviluppate – spiega Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia, la prima associazione nazionale di informazione e supporto sul tema – le aspettative di realizzazione sociale sono una spada di Damocle per tutte le nuove generazioni degli anni Duemila: c’è chi riesce a sopportare la pressione della competizione scolastica e lavorativa e chi, invece, molla tutto e decide di auto-escludersi».

Le ultime stime parlano che in Italia vi sono alcune migliaia di casi. Un numero destinato ad aumentare se non si riuscirà a dare al fenomeno una precisa collocazione clinica e sociale. “Molto spesso viene confuso con sindromi depressive e nei peggiori casi al ragazzo viene affibbiata l’etichetta della dipendenza da internet” – spiega Crepaldi – Una diagnosi di questo genere normalmente porta all’allontanamento forzato da qualsiasi dispositivo elettronico, eliminando, di fatto, l’unica fonte di comunicazione con il mondo esterno per il malato: una condanna per un ragazzo hikikomori”.

Come si diventa hikikomori? L’ambiente scolastico è un luogo vissuto con particolare sofferenza dagli hikikomori, non a caso la maggior parte di loro propende per l’isolamento forzato proprio durante gli anni delle medie e delle superiori. E’ in questo periodo che di solito si verifica il cosiddetto “fattore precipitante”, ovvero l’evento chiave che dà il via al graduale allontanamento da amici e familiari. Può essere un episodio di bullismo o un brutto voto a scuola, ad esempio.

“Un avvenimento innocuo agli occhi delle altre persone, ma che contestualizzato all’interno di un quadro psicologico fragile e vulnerabile, assume un’importanza estremamente rilevante – spiega Crepaldi – E’ la prima fase dell’hikikomori: il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola utilizzando scuse di qualsiasi genere, abbandona tutte le attività sportive, inverte il ritmo sonno-veglia e si dedica a monotoni appuntamenti solitari come il consumo sregolato di serie TV e videogames”. E’ fondamentale intervenire proprio in questo primo stadio del disturbo, quando si manifestano i primi campanelli di allarme. In questa fase i genitori e gli insegnanti rivestono un ruolo cruciale in chiave prevenzione: indagare a fondo sulle motivazioni intime del disagio e, nel caso, cercare in breve tempo il supporto di un professionista esterno può evitare il passaggio ad una fase più critica, che richiederebbe un intervento lungo potenzialmente anche anni.

In Italia la sindrome non colpisce solo i maschi, come avviene in Giappone, ma riguarda anche un discreto numero di hikikomori-femmine, con un rapporto di 70 a 30. “Per una questione culturale le famiglie considerano, tuttavia, la reclusione della figlia come un problema minore – spiega Crepaldi – Probabilmente perché la vedono come una futura casalinga o sperano che un domani si sposi ed esca di casa”. All’interno del contesto italiano, ci sono poi differenze addirittura tra una regione e l’altra: gli hikikomori del Nord Italia hanno, infatti, delle caratteristiche diverse rispetto a quelli del Sud Italia. Proprio per questo il sito di Hikikomori Italia mette a disposizione chat regionali, in cui i ragazzi possono discutere dei problemi con i loro conterranei affetti dalla stessa sindrome. C’è un’unica regola all’interno della chat: chi ci entra non è costretto ad interagire, ma è gradita una breve presentazione. Chi non la rispetta, viene “bannato”.

Per chi vuole raccontare la propria storia c’è anche il Forum, aperto sia ai ragazzi che ai genitori: un mondo parallelo, silenzioso, impalpabile. Una bacheca di richieste di aiuto e di sofferenza, ma anche di storie a lieto fine. Come quella di Luca, 25 anni: «Il giorno e la notte erano identici, dormivo quando avevo voglia, mangiavo quando avevo voglia. Ho perso tutti gli amici e lo schermo era uno “stargate” per un altro universo. Il tempo si dilatava quando cliccavo sulla tastiera e non volevo mai smettere. Quando dovevo lavarmi fremevo sotto la doccia per rimettermi a giocare.  Ho passato così più di due anni giocando a Wow [World of Warcraft, un videogioco di strategia ndr] in totale isolamento. Non riuscivo neanche più a camminare. Tutto questo è successo senza che mia madre si accorgesse di nulla: lavorava dalle 8 alle 17 e io facevo finta di andare a scuola. Non avevo più voglia di tornarci. Troppa pressione. L’isolamento è una battaglia che alla fine diventa una cura. Cresceva dentro di me come un’onda, lentamente, fino al momento in cui tutto iniziava a darmi fastidio, non sopportavo cosa facevo, non sopportavo chi ero. Oggi ne sono fuori, vivo all’estero e ho una fidanzata bellissima. Sono o sono stato un hikikomori? Non lo so, ma quello che so è che la forza per combattere quel demone sta e risiede solo dentro di voi, nessuno vi può aiutare, nella taverna di qualche montagna virtuale dove voi stessi vi siete persi, con la sensazione di pace che vi avvolge la mente. L’unico consiglio che mi sento di darvi è: scappate da quel computer».

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