‘Il dottor Mengele era l’anima nera del lager, un sadico crudele e spietato, che si divertiva a torturare migliaia di vittime con i suoi tenebrosi ‘esperimenti’
Nel dicembre del 1943 Sofia Schafranov, medico di origine russa, fu arrestata a Sondalo in provincia di Sondrio. Dopo alcuni giorni di prigionia trascorsi a San Vittore fu deportata ad Auschwitz insieme ad altri 1200 ebrei italiani. Ecco alcuni brani tratti da ‘I campi della morte’ che narrano il suo calvario durato due anni, fino alla liberazione avvenuta il 15 maggio del 1945.
Il Revier. ‘Io e Bianca Marpurgo fummo destinate al Revier o lazzaretto di Birkenau… Quelle ammalate non erano che dei cadaveri viventi, quando erano viventi; degli esseri in cui non vi era più nulla di umano, all’infuori di un disperato sconforto dipinto sui volti macilenti ed esangui ….. Erano tutte giovani donne dai diciotto ai venticinque anni, ma non avevano più età; erano tutte coperte di ascessi, di ulcere, di eczemi purulenti, prodotti dalla scabbia; la loro pelle era una sola crosta ……. Altre presentavano in varie parti della persona, soprattutto nelle gambe, morsicature paurose; erano state azzannate dai feroci cani di scorta, mentre, recandosi al lavoro, cadevano a terra estenuate. Di queste infelici ne arrivavano al reparto da dieci a venti al giorno. Almeno trenta disgraziate giacevano già morte sulle cuccette e accanto ai cadaveri giacevano quelle che ancora erano in vita.
La macellaia. ‘Ed io ho visto come, con i mezzi di cui disponeva, ella curava le sue ammalate. Tagliava gli ascessi con un semplice coltello da cucina, operando come una macellaia, sotto gli urli disperati delle pazienti. Ma si era abituata anche lei a questa specie di assassinio premeditato’.
Le selezioni. ‘Per sfoltire il Revier, di quando in quando, solitamente ogni settimana o dieci giorni, si procedeva alle ‘selezioni’. I medici tedeschi passavano rapidamente in rassegna le ammalate e, talvolta basandosi sui rapporti delle dottoresse, più spesso al loro proprio giudizio, facevano piazza pulita condannando le incurabili alla cremazione’.
‘Il dottor Mengele, sui trentacinque anni, biondo anche lui, alto, robusto, di bella presenza, ma con nel volto ben pasciuto e nello sguardo sfuggente qualcosa di repulsivo. Quando egli parlava, non guardava mai in faccia i suoi interlocutori, quasi temesse che nei suoi occhi si potessero leggere chissà quali mostruosi segreti. Era l’anima nera del lager, un sadico crudele e spietato , che si divertiva a torturare migliaia di vittime con i suoi tenebrosi ‘esperimenti’. Sembrava che fosse specializzato, soprattutto, in ricerche scientifiche sui gemelli …. Per noi, il dottor Mengele era un orco. Quando egli giungeva nel Block, io e le mie colleghe c’impalavamo sugli attenti e abbassavamo riverenti il capo alle sue contumelie. … le selezioni a cui egli presiedeva erano spietate …’.
‘Alle camere di asfissia erano addetti dei deportati che eseguivano la macabra incombenza non certamente per loro volontà, tanto più che il loro ufficio durava soltanto due mesi durante i quali erano tenuti segregati, per poi finire essi pure in quelle stesse camere ed essere sostituiti da altri operatori, perché il segreto di quelle camere e di quelle torture non trapelasse ….. Veniva simulata una doccia alle vittime, per quanto queste sapessero, ormai, di che genere di doccia si trattasse, si fornivano perfino un asciugamano e un pezzo di sapone; dopo di che, erano fatte denudare e venivano cacciate in basse camere di cemento, ermeticamente chiuse: venticinque o trenta persone per camera. Al soffitto erano applicati dei rubinetti, da dove, invece di acqua, era irrorato del gas tossico. Spesso, l’irrorazione era scarsa e l’azione del gas non era abbastanza efficace, cosicché le vittime venivano gettate nei forni ancora vive’.
La liberazione. ‘Non si vedevano più che poche tedesche, ed erano diventate tutte, improvvisamente, gentili e servizievoli. C’erano delle volte in cui ero perfino la ‘signora dottoressa’. Poi, un bel giorno, scomparvero esse pure. Era il 15 maggio. Vi sono delle date che restano impresse in eterno nella memoria. A Milano, nessuno dimenticherà mai la data del 25 aprile; io non dimenticherò mai quella del 15 maggio. Né dimenticherò quell’istante in cui alcune donna irruppero nel Block, in cui io mi trovavo, e ci annunziarono, piangendo, che erano arrivati gli americani. …. Eravamo salve; anzi, eravamo salvi: perché non c’erano più campo maschile e campo femminile: c’era una sola moltitudine in festa, che benediva la libertà riconquistata, che ritrovava la propria dignità umana, che invocava – e invoca ancora – giustizia e vendetta’.
Fonte I campi della morte di Alberto Cavaliere (paolinestore.it)
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