Messa del Crisma: l’Omelia del Vescovo

Carissimi Sacerdoti,
Papa Francesco nella Lettera Apostolica Patris Corde tira fuori i sacerdoti dall’ombra del nascondimento e li annovera tra coloro che assicurano una presenza umile e nascosta; tra coloro che operano “in seconda linea”, nel segreto del Padre, e non cercano una ricompensa, ma operano il bene perché esso va fatto e non per essere visti e applauditi.
Seguendo il consiglio del Santo Padre vorrei quest’anno orientare la vostra attenzione verso il Santo Sposo di Maria e il Custode del Signore Gesù: «L’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta»[1] per coglierne l’esemplarità di una vita totalmente consacrata a Dio e i diversi aspetti che danno forma alla paternità sacerdotale.
San Giuseppe è il grande maestro spirituale del Vangelo perché insegna ad essere padre che accompagna l’opera di Dio nelle persone che gli sono state affidate. L’incarnazione del Figlio di Dio passa non solo per il grembo di Maria, ma anche dall’obbedienza di un uomo che accetta l’azione di Dio.
Giuseppe si spoglia di una generatività legittima secondo la carne, per assumerne una più feconda che incarna i tratti della Paternità divina.
La simbolica del padre che adotta un figlio che non ha mai generato nella carne avvicina San Giuseppe al sacerdote:
La vita con Gesù fu per san Giuseppe una continua scoperta della propria vocazione a essere padre. Lo era diventato in un modo straordinario, senza dare il corpo al suo Figlio. Non è forse questa la realizzazione della paternità che viene proposta a noi, sacerdoti e vescovi, come modello?[2]
Papa Francesco precisa che:
Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti[3].
In Sicilia è d’uso chiamare il sacerdote Padre. È il segno che il presbitero esercita una paternità originale in seno alla comunità. Di fatto, però, dobbiamo constatare il paradosso tra la paternità e il celibato.
Se la paternità nella carne ci dice dell’esercizio della genitalità e della genitorialità, il celibato ci rende coscienti di una mancanza di un legame esclusivo e l’esclusione di una paternità nella carne. Non lo nascondiamo, queste mancanze, strutturali al celibato, specialmente in certe stagioni della vita, si avvertono in modo scarnificante.
La questione è come assumerle in maniera generativa all’interno del celibato, nelle diverse età sacerdotali e che diventano la sorgente feconda di una paternità altra.
La serietà di questa mancanza si può assumere solo nella prospettiva del Regno di Dio e della carità pastorale per cui la metafora nuziale e genitoriale si esprime nell’intimità con Dio, nella beatitudine dei poveri che consegnano tutto per il Regno dei Cieli, e nel lavoratore innamorato della vigna del Signore.
La vita di Giuseppe è intessuta di sogni che lo guidano nell’esercizio della nuzialità e della paternità.
I sogni non significano l’evasione dalla realtà, ma il modo più profondo di guardarla oltre le apparenze. Nel sogno si rinunzia alla pretesa di programmare tutto, per lasciarsi stupire dall’inatteso, l’inedito, dalla novità di Dio.
Il sogno è lo spazio della coscienza in cui ci si lascia illuminare da Dio che ha una visione più profonda e, lasciatemelo dire, più reale della realtà. Il sogno rivela a Giuseppe una parola che diventa luce sulle decisioni da prendere, tanto che al risveglio egli si sente impegnato nel discernere l’essenziale che lo aiuta a trovare una soluzione giusta secondo la giustizia di Dio.
Accogliere.
Il primo sogno apre gli occhi di Giuseppe per vedere in una nuova luce la sua promessa sposa tale da scorgere in Lei un mistero più grande di quello che potesse immaginare: il bambino che porta in grembo viene dallo Spirito.
San Giuseppe, seguendo il sogno, si decide per dare giusta reputazione e dignità alla vita di Maria e accogliere il frutto del Suo grembo. È in quella decisione che Giuseppe “mette al mondo” Gesù e mettere al mondo richiede uno sbilanciamento e un decentramento da sé, un movimento di uscita verso l’altro.
Questo sogno suscita in me il ricordo del mio primo impegno come parroco; nel saluto di accoglienza nella parrocchia San Giuseppe Lavoratore di Albano, un laico venne fuori con questa espressione: “Non temere Giuseppe di prendere come tua sposa questa comunità”.
Devo confessarvi che malvolentieri ho accettato l’obbedienza di lasciare la Sicilia per andare a Roma, ma quel saluto mi diede la certezza che stavo compiendo la volontà di Dio e quindi mi infuse l’entusiasmo per dare inizio a una nuova esperienza pastorale.
Ci fa bene ritornare a questo primo sogno di Giuseppe quando l’obbedienza ci chiede un cambiamento come il passaggio ad una nuova comunità o ad un nuovo impegno. Ogni comunità, anche se piccola povera e dispersa è Chiesa, cioè la Sposa di Cristo e quel che è generato in Lei viene dallo Spirito.
Si fa ingresso in una comunità a piedi nudi: è come entrare in una terra santa, rispettandone l’identità e la storia.
Il primo movimento del cuore è quello dell’accoglienza della vita suscitata dallo Spirito nel grembo di una comunità cristiana.
Custodire.
Nel secondo sogno Giuseppe, obbedendo al comando di Dio di fuggire in Egitto, dà alla paternità la forma della custodia. Giuseppe si prende cura di Gesù e di Maria e si affida alla sua creatività pronta e generosa; fisserà certamente delle tappe del cammino, offrirà l’alimento necessario, curerà l’integrazione in un mondo straniero, garantirà un riparo, si procurerà un lavoro per il sostentamento.
Papa Francesco sottolinea nella lettera questa cura con il termine “tenerezza” e Gesù stesso ha sperimentato la tenerezza del Padre celeste sul volto di Giuseppe.
Custodire è un compito difficile e faticoso. Questo perché non esistono prontuari, manuali o ricette. Non esiste un parametro standardizzato che dica quanta cura è necessario dare oppure quali risorse è necessario attivare. Una sola è la regola: stare in continua relazione con quanto è stato generato. Ascoltare, guardare, toccare, partecipare e lasciarsi interpellare, finanche lasciarsi mettere in discussione.
Entriamo nel grande tema del discernimento e dell’accompagnamento spirituale. Dalla cura delle relazioni è possibile capire di cosa ha veramente bisogno una comunità per crescere. Solo in questo modo è possibile rendersi conto di quanta e di che tipo di cura è necessaria.
Sul volto del pastore deve splendere la tenerezza del Padre.
Così Papa Francesco:
È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza[4].
Curare e Consegnare.
Dopo il terzo e il quarto sogno, Giuseppe organizza la via del ritorno dall’esilio, e con coraggio creativo riesce a correggere il percorso, cambiare programma, pur di salvare la vita dei due tesori che gli sono stati affidati.
Giuseppe si stabilì a Nazareth in Galilea e lì aiuta Gesù a crescere in età, in sapienza e grazia, come riferisce Luca, fino al giorno in cui comprende che il suo compito si è concluso ed è arrivato il momento di licenziarsi, di consegnare la paternità e questo momento lo intuisce quando Gesù dodicenne ritrovato nel Tempio dirà: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2, 49).
Il Vangelo che abbiamo proclamato e ascoltato introduce Gesù, ormai cresciuto, nella Missione affidatagli dal Padre celeste e coltivata e custodita da Giuseppe.
Scrive ancora Papa Francesco:
La paternità ha come fine ultimo la libera realizzazione dell’altro e tutto ciò che è stato fatto fino a questo punto deve andare in questa direzione. Siamo, dunque, veramente generativi solo quando ci realizziamo contribuendo alla realizzazione dell’altro; solo quando generiamo qualcosa per l’altro affinché la sua vita possa fiorire e portare frutto a sua volta […]. Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita […]. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione[5].
La paternità ha come fine ultimo la libera realizzazione dell’altro e tutto ciò che si opera all’interno di una comunità deve andare in questa direzione.
Siamo, dunque, veramente padri solo quando generiamo qualcosa per l’altro affinché la sua vita possa fiorire e portare frutto a sua volta: ciò implica accettare che ciò che si è messo al mondo e di cui ci si è presi cura così a lungo possa seguire strade che non avevamo previsto, possa assumere forme diverse dal nostro desiderio originario.
Nell’esercizio della paternità prende risalto l’autorità non l’autoritarismo, il servizio non il servilismo, il confronto non il potere, la carità non il paternalismo.
Dalla paternità spirituale e dalla sponsalità vergine del presbitero cresce una comunità matura dove è possibile il libero contributo di tutti. In tale prospettiva va letto il messaggio per le Assemblee pastorali parrocchiali che oggi vi consegno insieme agli statuti per le Assemblee e i Consigli pastorali parrocchiali.
Nell’omelia feriale a Santa Marta del 30 maggio 2017 Papa Francesco, commentando il discorso di Paolo agli anziani di Efeso (At 20,17-27), parlò del “congedo dei pastori” e, riferendosi principalmente ai vescovi, tra l’altro, ha fatto notare che tutti i pastori dobbiamo congedarci:
Arriva un momento dove il Signore ci dice: vai da un’altra parte, vai di là, va di qua, vieni da me. E uno dei passi che deve fare un pastore è anche prepararsi per congedarsi bene, non congedarsi a metà.
Anche perché il pastore che non impara a congedarsi è perché ha qualche legame non bello col gregge; un legame che non è purificato per la croce di Gesù.
Al momento del congedo, si rivela se un pastore ha costruito una comunità attorno a Cristo, un popolo ben disposto e «non si è appropriato del gregge».
Carissimi concludo con un invito: lasciamoci riconciliare con la gioia di Cristo vivendo con entusiasmo questo tempo che è gravido della vita nuova della Pasqua. Amen.

[1] Francesco, Patris cordae, premessa.

[2] Giovanni Paolo II, Alzatevi, andiamo, Mondadori, Milano 2004, p. 108.

[3] Francesco, Patris cordae, 7.

[4] Francesco, Patris cordae, 2.

[5] Francesco, Patris cordae, 7.

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