Quel salvataggio ad un anno dalla morte di Bellipanni

Era trascorso un anno dalla morte del suo collega medico, e compagno di corso, Franco Bellipanni. Era il 19 agosto 1980. Quel giorno il mare era di nuovo agitato ed in programma c’era una messa in ricordo proprio dell’eroe Franco. Mario Cirincione esce di casa e sale in bici per andare a dare un’occhiata ad una piccola barca a vela che teneva al porto di Cefalù. Quella mattina, al suo arrivo, proprio in quelle acque agitate dalla mareggiata stava annegando un ragazzo caduto da un materassino gonfiabile. In un attimo Mario si ritrova in acqua a nuotare verso quello sconosciuto con in mente la sfortunata fine del suo amico Franco.

«Stavo vivendo, ad un anno dalla tragica ricorrenza, un’esperienza simile, spinto da una emulazione inconscia, attratto dallo stesso rischio e dalla stessa sfida. In casi come questo il pericolo non è percepito, si pensa, con molta incoscienza, che la morte sia un fatto che riguarda gli altri e che non possa assolutamente sfiorarci. Intanto ero arrivato sul posto, il ragazzo non era più in superficie, era sparito, ingoiato dai flutti. Ho guardato giù un paio di volte: nulla, troppo torbido, volevo tornare, ma dal pontile un piccolo gruppo di persone mi faceva cenno che era giù. Ho riprovato e l’ho visto. A distanza di tanti anni l’immagine, nelle mia mente, è chiara e definita come una foto appena scattata: giaceva sul fondo, con braccia e gambe penzoloni, faccia all’ingiù, tenuto appena in sospensione dal dorso, per l’aria dei polmoni, con i capelli neri e lunghi mossi dalla corrente, simili ad un ciuffo di posidonie. In una quiete da destino ormai compiuto».

Mario lo recupera proprio per i capelli. Lo porta in superficie. Tantissima schiuma dalla bocca e dal naso: il fungo degli annegati in acqua salata, un sintomo caratteristico molto infausto. «L’ho considerato morto – racconta – ho pensato di abbandonarlo e tornare a riva. Poi all’improvviso, dal nulla, partita da non so dove, è comparsa una piccola barca, un vuzzareddu, spinta a remi da qualcuno. Era mastro Gianni Cascio. Difficilissimo spingere dal mare agitato un corpo inanimato su una barca ondeggiante, però alla fine è finito dentro, inerte e passivo. Quanta schiuma dalla bocca, alla fine avevamo perso anche un remo ed io ero sempre certo che il ragazzo fosse morto. Poi mentre cercavamo di rientrare, una grossa onda, provvidenziale, ci catapultò a riva con un’unica spinta. Gli annegati a Cefalù, l’ho vissuto varie volte in spiaggia, venivano sottoposti da volenterosi a inutili manovre rianimatorie, a fin di bene per carità, ma con risultati nulli. La più classica era la sospensione per i piedi, testa in giù, nel tentativo di svuotarli dall’acqua respirata. Naturalmente non serviva a nulla, quindi, per risparmiare questo trattamento alla nostra povera vittima, ho imposto la mia volontà e, in Fiat seicento, siamo corsi al vecchio Ospedale G. Giglio. Arrivati per miracolo, più che corsi, perché l’autista impressionatissimo dalla presenza di quel corpo alloggiato malamente, in un groviglio di arti ciondolanti, sul sedile posteriore, ci fece patire in terra più pericoli di quelli rischiati in mare. Io cercavo di tenerlo calmo, al suo fianco, dicendogli di andar piano perché tanto il ragazzo era morto».

Mai parlare a sproposito, in casi come questi: perché dietro, ma nella concitazione Mario non nota che c’era pure il padre, poveretto, dello sfortunato giovane.

«In ospedale un medico amico mi lasciò fare. Io avevo esperienza di rianimazione maturata presso il pronto soccorso di un grosso ospedale milanese, quindi mi riuscì automatico intubarlo, ventilarlo con un respiratore meccanico, praticargli infusioni e forse la defibrillazione, non ricordo. Tutto come d’abitudine, tranne che per il mio abbigliamento: ero scalzo ed in costume da bagno, in una saletta ospedaliera di rianimazione. Poi all’improvviso il nostro annegato si trasformò in miracolato, perché, con meraviglia mia e dei presenti, si scosse, si mise a sedere sul lettino e si strappò tubi e cateteri. Tornai a cercalo nel pomeriggio, ma i parenti lo avevano portato a casa o in ospedale, non so, a Palermo: non ne ho sentito più parlare, so solo che aveva diciassette anni e si chiamava Franco come, per incredibile coincidenza, il Dott. Franco Bellipanni. Mi piace pensare di averlo avuto accanto a me in mare, oltre che nei miei pensieri. Anzi sono certo che, dietro quell’onda, a spingerci a riva c’era lui sorridente».

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