Prima Guerra Mondiale: relazione di prigionia dell’aspirante Ufficiale Parlavecchio Gaetano

Riportiamo per i lettori la relazione di prigionia (1) dell’Aspirante Ufficiale, Gaetano Parlavecchio (2) di Montalbano Elicona, classe 1898. Parlavecchio che apparteneva 6° Regg. Fanteria (3) della Brigata Aosta, fu catturato dagli austro-ungarici il 17 novembre del 1917 durante un combattimento sul Col Bonato, nella regione del Grappa. Il suo resoconto bellico ci è stato inviato in redazione dal nipote, l’ingegnere aeronautico Francesco Fortunato, per essere pubblicato e reso noto. Lo storico Fortunato, è già conosciuto dai lettori di Cefalùnews per aver collaborato nella stesura dei miei articoli inerenti alla storia dell’aeronautica militare italiana durante la Prima Guerra Mondiale.

(1) Il sottoscritto, avendo ricevuto ordine di compilare una relazione, veritiera e diffusa, intorno alla sua prigionia, espone quanto segue.

Catturato in un combattimento sul Col Bonato, nella regione del Grappa il 17.11.1917 (giusta Relazione di cattura fatta in seguito a rimpatrio nel Concentramento ex prigionieri di guerra di Senigallia <Ancona>) accompagnato da sentinelle nemiche fui con altri portato ad un Comando vicino, da cui fui mandato ad un posto di medicazione, dove dietro ad insulti e minacce fui obbligato a trasportare un ferito a Cismon, piccolo paesello della Val Brenta.

Il paese era completamente sgombro e devastato, tutte le porte erano aperte e frantumate. Tutto era sossopra: libri, sedie, stoviglie, lenzuola, coperte, materassi, biancheria, tutto era sparso per le camere, per le strade. Sembrava uno di quei paesi distrutti dai terremoti.

Attraverso la passerella sul torrente Cismon, fui condotto con altri in una casa poco distante dal fiume, dove fui trattato malissimo. Ad un tratto mi si avvicinarono due soldati nemici, che brutalmente mi tolsero la mantella da su le spalle e di più pretendevano il portamonete, l’orologio ecc. Alle mie opposizioni risposero con spintoni, con offese e con atti brutali. Mi rivolsi per protezione ad un loro ufficiale, ma questi, che balbettava qualche parola veneta, mi fece capire che tutto ciò che facevano i loro soldati, con i nemici dell’Austria, era ben fatto. Dovetti allora soddisfare e rassegnarmi.

Il mio morale era depresso: affamato e smunto, con gli occhi incavati, avevo la febbre. Spingevo lo sguardo lontano, sulle ultime cime; pensavo che quei monti erano ancora nostri, che là sventolava ancora il tricolore e le lacrime mi solcavano le gote. Buttati li, negli angoli dello stanzone, ci guardavamo, comunicavamo con gli occhi le nostre angoscie e i nostri pensieri.

Verso le ore 16 aeroplani nostri si presentarono su Val Sugana, buttando bombe. Una gioia passeggera si vedeva nei nostri occhi: ci sembrava che essi venissero a liberarci. Ah come preferivamo morire colpiti dalle nostre bombe, ma esse lo facevano a posta, andavano quasi tutte a cadere nell’acqua.

Allo scompiglio derivatone fra i nemici una idea balenò nella nostra mente: la fuga. Ma come varcare la linea nemica? Ben presto però gli aeroplani sparirono e la calma subentrò fra gli austriaci. Ogni idea di fuga dovette essere bandita.

Alle ore 17 fui portato a Primolano per dare le mie generalità e da qui a Grigno, dove fui trattato mediocremente. Mi fu dato da mangiare un pezzo di carne con patate e un bicchiere di vino, dopo di che mi accompagnarono a Borgo, da dove partii col treno delle 5, giungendo dopo poche ore a Trento. Quivi ci riunimmo con parecchi altri prigionieri fra cui parecchi ufficiali e fra questi il Ten. Colonnello Gilberti Cav..? Comandante del 149° Regg. Fanti, catturato il 18 Novembre su posizioni vicino al Grappa; alcuni Capitani di cui non ricordo i nomi; il Ten. Baldelli Sig. Cesare mitragliere del 77° Regg. Fanti; il S.T. Concone Sig. Delfino del ? Regg. Alpini. Quest’ultimo lo incontrai a Borgo con una ventina di suoi soldati con i quali fu catturato. C’era pure il Ten. Ruscica Sig. Erzechia mitragliere del ? Regg. Fanti; l’Asp. Princifri Sig. Torquato del 236 ? Fanti; l’Asp. Bonelli Sig. Umberto, stesso Regg., e molti altri ufficiali (circa 26).

Accompagnati da parecchie sentinelle fummo portati al Castello in mezzo allo scherno della popolazione, che ci guardava come se fossimo tanti ladroni. Nell’atrio del Castello, lo stesso maresciallo, portò al patibolo il martire italiano (Cesare Battisti) ci mise per due (i soldati da una parte e gli ufficiali dall’altra) ci contò e poi ci domandò se avessimo delle armi per versarle. Naturalmente nessuno si presentò ma al momento di essere condotti alle stanze superiori (prigioni) il S.T. Randazzo Sig. ? del 77° Fanti, si avvicinò al suo ex attendente, dandogli a nascondere una pistola, temendo di una perquisizione. Una sentinella però si accorse di tutto ed allora, sequestrata l’arma, ci portarono subito sopra e c’imposero di versare tutti gli oggetti che avevamo addosso ad eccezione del portamonete e dei denari. Credendo alle parole dello spergiuro e bugiardo nemico, che ci assicurava ritornare tutto prima di partire, ingannati, quasi tutti abbiamo consegnato loro i nostri oggetti, che mai più abbiamo riavuti, malgrado tutte le richieste al Ministero della Guerra austriaco, ai generali che venivano a ispezionare il Campo ecc. Taluni ci dicevano che erano bottino di guerra e che quindi inutilmente li reclamavamo.

Fatto il versamento ci portarono in un grande stanzone con parecchie finestre, munite di grosse inferriate che davano sul cortile. Nello stanzone c’erano parecchi pagliericci, che ben presto furono occupati, poiché tutti eravamo stanchi, affamati, sfiniti, demoralizzati. Muti, sdraiati sui pagliericci i nostri pensieri volavano alla nostra amata Patria, alle nostre famiglie lontane, che chi sa se, e quando avremmo potuto rivedere.

Verso le ore 17 si sentì aprire la porta ed entrò una sentinella la quale venne a distribuirci del pane (circa g. 200) patate e un po’ di carne d’asino o di mulo, dura e puzzolente da fare schifo, però l’abbiamo divorata in un batter d’occhio, tanta era la fame.

Dopo il misero pasto ciascuno si buttò sul pagliericcio senza proferire parola. Tristi, con gli occhi chiusi, pensavamo al triste avvenire, pensavamo che ormai tutto era perduto per noi, che forse avremmo lasciata la nostra vita là, nel suolo del barbaro nemico, pensavamo e rivedevamo gli ultimi combattimenti, i compagni lasciati morti o feriti sul campo, pensavamo a tante cose che ci rendevano più infelici di quanto eravamo.

Alle ore 21 circa vennero a svegliarci, ci fecero vestire, ci misero in riga e poi, accompagnati da parecchie sentinelle, ci portarono alla stazione, dove ci buttarono dentro carri di 3a classe, con i vetri rotti e con l’acqua che veniva giù dall’imperiale. Si partì fra le tenebre con un treno (credo merci), arrivando alla stazione di Franz Sfesh a Nord di Bolzano verso le prime ore del mattino. Scendemmo dal treno. Un gran numero di sentinelle ci attendevano, ci obbligarono metterci in riga, fecero l’appello nominativo, dopo di che ci incamminammo per la strada che va al forte, giungendo dopo circa 20 minuti al Campo di Concentramento. Questo era circondato da alti reticolati e guardato da molte sentinelle. Ci fecero fermare, ci ricontarono e poi aperto il cancello entrammo. Quando esso si chiuse dietro le nostre spalle ci sembrò che il mondo fosse finito per noi. Col cuore gonfio avevamo voglia di piangere, di sfogarci e fuggire lontano lontano.

Ci portarono in una baracca che serviva da corpo di guardia. Quivi c’era accesa una grossa stufa alla quale ci avvicinammo tutti per riscaldarci, giacché faceva freddo ed il nostro corpo era coperto da pochi indumenti, avendoceli tolti il nemico.

Ognuno sdraiato per terra per mancanza di pagliericci e di sedili, con gli occhi chiusi, pensava o dormiva. Pensava o sognava i tempi passati, la trincea, rivedeva i superiori, credeva di trovarsi ancora in Italia e contento riapriva gli occhi, ma ahimè. Oh bei sogni svaniti! si ritrovava là, in quel lurido baraccone in mezzo alle sentinelle, ed allora tristi pensieri venivano in mente. Perché non son morto in combattimento? si pensava. Non è forse preferibile la morte alla prigionia? Venne così il giorno e riapparve il sole sull’orizzonte. Dalla finestra del baraccone guardammo il Campo. Era un concentramento di prigionieri russi e contemporaneamente serviva da Punto di Smistamento di prigionieri italiani.

Alla vista dei russi il nostro cuore si strinse: laceri, scalzi, sporchi, scheletrici, con gli occhi infossati, muti, ci guardavano tristemente e qualcheduno in tono pietoso domandava: Brot. Ci chiedeva del pane. Ma dove lo avevamo mai? Dove potevamo prenderne noi che eravamo più affamati di loro e che per un tozzo avremmo dato 5, 10, 20 lire, insomma tutto ciò che ci si chiedeva?

In mezzo ai russi si vedevano soldati nostri di tutte le Armi e di tutti i Corpi. Essi erano obbligati assieme ai russi di recarsi sulla montagna, a parecchi chilometri, per prendere della legna e portarla nel Campo, dietro il compenso di mezza pagnotta anziché un quarto (razione del prigioniero).

Verso le ore 7 ci diedero del caffè, ossia acqua sporca che colà prendeva il nome di caffè. Alle 12 poi ci passarono un po’ di carne in brodo e due patate. La sera altre poche patate, un po’ di marmellata e un quarto di pane, che ci doveva bastare per un giorno. Appena terminato di mangiare si aveva più fame di prima, si raccoglievano diligentemente le molliche, si mettevano nel palmo della mano e si mandavano giù con avidità. Tutto il resto del giorno si stava sdraiati nel pagliericcio, muti, pensando al felice passato, al triste futuro, all’infelice presente.

Pregando e ripregando le sentinelle, dietro compensi abbiamo potuto avere dall’erario, a pagamento, della marmellata che malgrado cattiva ci sollevava un poco, tanto più che quasi tutti, catturati da poco, avevamo del denaro e fare quindi delle spese, tranne qualcuno a cui i soldati nemici avevano tolto anche il portafogli. Esempio l’Aspirante Bertoli Sig. Marco del 77° Reggimento Fanteria.

Il giorno dopo l’arrivo a questo Campo di Smistamento, il comandante ci tolse gli elmetti, sostituendoli con dei berrettacci austriaci. La maggior parte di noi si oppose, dicevamo preferire l’elmetto a questi berretti, non appartenenti alla uniforme italiana, però ci rispose che gli elmetti erano bottino di guerra. Allora abbiamo dovuto rassegnarci, ma alla distribuzione del rancio alla truppa, ci avvicinammo a qualche soldato nostro, a cui abbiamo dato del denaro e il berretto austriaco in cambio di quello italiano.

Erano trascorsi pochi giorni dalla cattura, ma quasi tutti eravamo smunti, magri, pallidi. La malattia morale ci cominciava a travolgere, le malattie fisiche ci cominciavano a toccare. Si stava immobilizzati tutto il giorno, poiché non si aveva la forza di stare in piedi. Avevamo sempre fame, fame.

Al terzo giorno ci portarono al bagno, ci fecero rasare la barba e tagliare i capelli, ci obbligarono a disinfettare tutti gli abiti. Al ritorno sentivamo piegarci sulle gambe tanta era la debolezza. Giunti alla baracca, a contrabbando abbiamo potuto avere per 16 korone una pagnotta, che abbiamo divisa in parecchi e divorata in un fiat.

Dietro viva richiesta del colonnello che si trovava con noi, si è potuto avere una cartolina a testa per poter dare alle nostre famiglie la triste notizia della nostra cattura.

Il 24 (o 25) Novembre fummo svegliati per tempo, contati, poi in mezzo alle sentinelle fummo accompagnati alla stazione vicina, dove arrivammo stanchi malgrado avessimo camminato non più di una mezzoretta, tanto eravamo deboli. Quindi siamo stati ad aspettare per più di un’ora fino all’arrivo di un treno. Fummo caricati in luridi vagoni e partimmo lentamente da sembrare non un treno ma un convoglio funebre. Ad Innsbruck ci fu data una fetta di pane con del the e un po’ di marmellata.

Abbiamo viaggiato per parecchi giorni di seguito, e a dire il vero, per istrada, fummo trattati mediocremente riguardo al vitto. Il freddo si faceva sentire poco il giorno ma la notte si intirizziva tanto più che alcuni vetri degli sportelli erano rotti.

Il 27 sera giungemmo alla Stazione di Dunaszerdahely, nella freddosa pianura Ungherese, e propriamente in una isola del Danubio. Qui altre sentinelle ci attendevano, ci fecero discendere, ci misero per quattro, ci contarono, fecero l’appello, indi ci portarono al Concentramento che distava parecchi chilometri dalla stazione.

Appena entrati nel Campo molti tristi pensieri si affollarono nella nostra mente. Qualcuno mormorava il verso di Dante:

Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Qualche altro aveva le lacrime agli occhi, tutti eravamo pensierosi.

Faceva buio e freddo. Quelli vecchi del campo (un centinaio circa) vennero a visitarci, ci fecero parecchie domande e poi ci descrissero la tremenda vita che si menava in quel luogo di sofferenze.

Alle parole dei nostri colleghi, la nostra tristezza aumentò ancora di più. L’idea della fuga balenò ancora nella nostra mente; ma come metterla in attuazione la prima sera arrivati, senza ancora nulla conoscere, senza poter scegliere il punto meno guardato dalle sentinelle e senza avere una piccola scorta viveri, per non morire di fame per istrada? E poi come si poteva viaggiare senza falsi documenti di viaggio? Questi pensieri ci tolsero per il momento ogni idea di fuga.

Verso le ore 19 ci avvertirono che era l’ora della mensa. Felici di poter mettere qualche cosa in corpo, ci avviammo alla baracca a ciò destinata ed entrammo. Era un baraccone lungo da 25 a 30 metri e largo da 8 a 10 a forma di canile e diviso in 2 settori, separati fra di loro da un tavolato. Nel 1° settore c’erano parecchi lunghi tavoloni dove mangiavano quelli vecchi del campo. Nel 2° c’erano preparati due tavoloni per noi nuovi venuti (circa 26).

Per quella sera ci fu dato da mangiare un po’ d’orzo in brodo senza sale e un pezzo d’aringa salata. Questo fu il pasto, il quale si diceva provvisorio e cioè per i primi giorni, perché in seguito si credeva dovesse migliorare, ma invece fu tutto il contrario.

Consumato il misero pasto, ognuno si recò in baracca per procurarsi qualche pagliericcio. Ciò non ci riuscì difficile perché ce n’erano parecchi disponibili: erano specie di lettini con pagliericci mezzi vuoti, un lenzuolo, due coperte corte che non bastavano a riparare la persona dal freddo, essendo la baracca di legno, il settore vasto, tanto che vi dormivano 26 ufficiali e sei finestre ad una sola imposta, in maniera tale che il freddo s’infiltrava da per tutto.

Quella prima notte si poté dormire per il tanto sonno perduto, però molti furono i sogni che travagliarono la nostra mente. Noi non pensavamo più alla nostra persona, però un desiderio ardente avevamo: Rivedere almeno una volta l’amata Patria, le famiglie, rivedere il nostro Esercito vittorioso sull’odiato e barbaro nemico, che là, in quei luoghi sudici, in quell’orride prigioni, teneva inchiodata tanta povera gioventù affamata.

L’indomani mi alzai verso le 8. Fuori non faceva freddo e allora cominciai a girare il Campo. Esso consisteva in parecchie baracche (circa 10) della dimensione sopra detta, però solo 6 di queste erano o dovevano essere abitate da ufficiali. Poi una serviva per il Comando austriaco, una come sala da mensa, una da sala convegno e magazzino, però quest’ultimo fu ben presto tolto essendo sempre vuoto e sprovvisto di generi, ed una per la truppa. Ad ogni baracca era attaccato un baracchino con latrine.

Dentro al Campo c’erano le fontane a pompa. L’acqua era cattivissima e sporca.

Il Campo era lungo 150 metri circa ed altrettanto largo. All’intorno di esso c’era un reticolato di ferro e a cinque metri distante da questo ce n’era un altro, alto circa tre metri e con sopra del filo spinato. Al di fuori di questo reticolato c’erano parecchie sentinelle. Gli ufficiali prigionieri potevano avvicinarsi solo a tre metri dal primo reticolato interno. La sentinella aveva ordine di far fuoco sul prigioniero che si fosse avvicinato ad una distanza minore e che non avesse subito ubbidito all’intimazione di essa.

Il Campo era di forma quadrata. Alla distanza di 100 metri dal lato di sinistra (guardando la strada carreggiabile) c’era il 1° Reparto ufficiali italiani prigionieri; a 50 metri dal lato delle spalle c’era il Campo della truppa. Il paese aveva una popolazione di circa 7mila abitanti. Distava dal campo di 3 Km circa.

A pochi metri dalla Stazione ferroviaria c’era il Campo dei soldati russi, il quale era bene organizzato perché vecchio: si diceva dal principio della guerra.

Il Campo nostro era chiamato il 2° Reparto ufficiali italiani prigionieri di Dunaszerdahely. Questo Reparto, che prima era comandato da un nostro Ten. Colonnello adesso veniva comandato dal Ten. Colonnello Gilberti Cav. ? del 149° Fanti perché più anziano del primo.

Il Comandante austriaco era un capitano che ben presto cedette il comando ad un maggiore. Tutti razza austriaca e canaglia per eccellenza.

Nel Campo c’era la Commissione della mensa, quella della sala convegno, e quella del magazzino. Ciascuna delle Commissioni era composta da un Capitano e da vari subalterni. C’era poi un ufficiale incaricato della tutela degli interessi della truppa.

Ogni 6 ufficiali avevano un soldato che li serviva, al quale ogni mese si dovevano dare 3 korone per ufficiale. In seguito questi denari venivano trattenuti direttamente dall’ufficiale di amministrazione nostro, il quale li dava all’ufficiale incaricato per la truppa, che dava a ciascuno non so quante korone ed il resto andava a beneficio del miglioramento rancio.

In quanto al vitto si stava molto male. Tanto la mattina quanto la sera si mangiava un po’ di orzo in brodo o miglio, o cavoli in brodo o polentina in brodo e raramente tagliatelle in brodo (per brodo bisogna intendere acqua bollita con del sale). Poi un pezzettino di carne (non più di 30g.), o baccalà ecc., 100 g. di pane nero, pesante, cattivissimo per pasto.

Si usciva dalla mensa e si era più affamati di prima, tanto che, quando il tempo lo permetteva, passeggiavamo per una mezzoretta e poi via in baracca sul pagliericcio. Talvolta si sognava di essere in un Ristorante o seduti a una bella tavola apparecchiata, con cibi abbondanti ecc. Questi erano i sogni del prigioniero, specie nell’inverno del 1917-18, periodo criticissimo per la mancanza di viveri negli Stati nemici e perché causa della chiusura della frontiera non arrivavano pacchi.

Le poche korone che tenevamo in tasca (poche perché mensilmente, pagata la mensa e le altre ritenute, ci rimanevano non più di 10 o 15 korone) si spendevano dal cantiniere per comprare delle paste o altro.

Nel campo c’erano pure alcuni laboratori, malgrado fossero sforniti della materia necessaria: es. calzolai, sarti e barbieri. Più difficile riusciva il lavoro ai sarti e ciò per la grande carenza del filo. I lavori a cui si davano le precedenze erano quelli per la preparazione delle fughe, come ad es. per i sarti, quello di fare berretti austriaci, giubbe, cappotti, ecc. Però ben presto gli austriaci si accorsero di ciò ed allora spesso facevano delle perquisizioni, catturando la roba che non apparteneva all’uniforme italiana.

Grande fermento si ebbe un giorno nel Campo, essendo scappato un nostro ufficiale, il quale conosceva benissimo la frontiera austro-svizzera ed italo-svizzera, ciò che agevolava moltissimo l’impresa, perché le frontiere erano il difficile per i fuggitivi.

Accortisi gli austriaci della fuga del nostro ufficiale, tutte le mattine ci facevano passare in riga, ci contavano, oltre che la notte, più volte, venivano le ronde ad ispezionare le camerate, assicurandosi che nessun letto fosse vuoto e che quindi nessuno mancasse. La sera poi, ad una data ora, (credo le 22) ci obbligavano spegnere i lumi ed andare a letto.

Malissimo funzionava la commissione mensa per la scarsezza dei generi. Quasi tutti eravamo indeboliti e molto dimagriti, tanto da non poterci reggere in piedi.

Spesso col freddo a molti gradi sotto zero, qualcuno andava in giro per il Campo, con la persona curva e col viso rivolto a terra, come se ricercasse qualche oggetto smarrito. Cosa faceva? Andava in cerca di radici di pianta che potessero anche minimamente rifocillarlo.

Il freddo e la fame erano i nostri peggiori nemici che ci torturavano.

La sera, appena finito d’ingoiare quell’acqua calda, si correva in baracca, dove, quando c’era qualche po’ di legna (e ciò raramente), si accendeva la stufa, ci accoccolavamo di sopra e tutti, riuniti col ventre vuoto, rimembravamo i tempi in cui ci alzavamo satolli da tavola, felici e contenti del dovere compiuto. Poveri illusi. Noi non pensavamo che il giorno del ritorno era ancora lontano.

Quando il fuoco cominciava a spegnersi si andava a dormire, vestiti, col passamontagna in testa, solo senza scarpe, ma con i piedi avvolti in fascie per non gelarci la notte, poiché la temperatura si abbassava molto, tanto che il freddo talvolta era insopportabile. La mattina ci svegliavamo per tempo per il tanto freddo. Volgevamo lo sguardo intorno e non si vedeva altro che colonne d’alito che uscivano da sotto le coperte. Tutto era gelato.

Ma il freddo tosto si dimenticava perché la fame atroce si faceva sentire e nulla c’era da mangiare. Qualcuno domandava l’ora, qualche altro col vicino del letto rimembrava i tempi andati, altri raccontavano i sogni, parecchi scommettevano sulla fine della guerra. Si continuava così fino alle undici circa, ora in cui ognuno si levava, approssimandosi l’ora della mensa.

Alle 11 e 20 minuti tutti eravamo dietro la porta della baracca della mensa a intirizzirci dal freddo, per arrivare in tempo, per tema di non trovare nulla o poco qualora si fosse ritardato di qualche minuto. Alle ore dodici o prima tutto era terminato, ed allora mogi si usciva dalla mensa e, se la stufa era accesa, si andava in sala convegno dove si cercava scacciare qualche po’ di tempo, giuocando a carte o a domino, oppure leggendo qualche giornale o rivista o discorrendo con amici. Poi si ritornava in baracca. Se c’era della legna si accendeva subito il fuoco, in caso contrario andavamo in giro per il campo a scavare sotto la neve qualche frasca o si toglievano dalle baracche i rastelli che venivano subito bruciati e ciò a nostro gran danno, perché oltre ai fori che si lasciavano scoperti e quindi più freddo la notte, in seguito ce li facevano pagare e salati.

Qualcuno invece si metteva nuovamente a letto oppure in un angolo vicino la stufa a leggere romanzi avuti in prestito da qualche amico o dalla piccola biblioteca del Campo.

Altri ufficiali prigionieri nel gennaio sono arrivati al Campo e poi altri ancora, fino a che furono occupate tutte le baracche. Eravamo circa 300 ufficiali e circa un centinaio di uomini di truppa.

La prima gioia del prigioniero era quando si riceveva da casa la prima lettera o il primo pacco. Questi ultimi cominciarono ad arrivare nel febbraio. Da allora in poi la vera fame fu bandita quasi per tutti.

Malgrado i fastidi e i disaccordi che regnavano nel campo, col tempo cominciammo a creare qualche piccolo passatempo. Dietro una quota versata da tutti gli ufficiali, la commissione della sala convegno fece abbonamenti a giornali, a riviste tedesche e ungheresi, comprò il giuoco degli scacchi e della dama, qualche violino, chitarra, in modo da passare riuniti e meno tristi qualche oretta.

Talvolta, e ciò nelle grandi ricorrenze come ad es. Natale, Pasqua e feste nazionali, la mattina ci riunivamo nella sala convegno, dove il nostro comandante del campo faceva discorsi patriottici, parlando del valoroso nostro esercito, della futura nostra vittoria, delle sofferenze che ci faceva patire l’odiato nemico ecc. Noi tutti ascoltavamo silenziosi e col cuore pieno di speranza, qualcuno con le lacrime agli occhi, ma tutti pensierosi. Poi, quando il Colonnello finiva il discorso e c’incitava a gridare W. l’Italia, W. il Re, Viva l’esercito italiano, un grido forte e poderoso echeggiava nella sala, un grido sperduto in un lembo della pianura ungherese faceva battere tanti cuori, faceva nascere tante speranze. La sera di queste feste c’era riunione nella sala convegno, dove ascoltavamo qualche conferenza o recitare delle poesie oppure il concerto musicale.

Tutte le domeniche, nella sala convegno, veniva celebrata, dai nostri cappellani prigionieri, la messa. Verso le otto c’era quella per la truppa, alle nove quella per gli ufficiali. Intervenivano molti, e quasi sempre c’era il Colonnello nostro comandante.

Col tempo il desiderio della fuga si fece più vivo e più incessante. Molti avevano tentato, ma fughe male organizzate, tanto che taluni furono arrestati non appena tentarono varcare il reticolato, altri per istrada ed il resto alla frontiera austro-svizzera. Uno solo, e fu quello fuggito nell’inverno, riuscì a raggiungere l’amata terra italiana.

Fermi in questo proposito facevamo dei preparativi. Nella baracca N. 8, settore 2°, nel quale abitavo anch’io, nel piccolo camerino attiguo, avevamo deciso di sollevare alcune tavole del pavimento e fare una galleria che andasse a sbucare al di là della strada. Si trattava di fare un lavoro di una quarantina di metri. Difatti ci mettemmo all’opera, però il lavoro ci riusciva difficile per il fatto che non c’era posto dove mettere la terra scavata, senza destare il sospetto degli austriaci, essendo essa di colore biancastro e diversa dall’altra.

La galleria perciò non poté essere portata a termine per il fatto sopra esposto e per tanti altri motivi. Al lavoro presero parte quasi tutti gli ufficiali del settore (25 circa), fra cui il Tenente Romano Sig. Lorenzo Comandante la 30° Comp. Mitr. S. Etienne; il Ten. Faustini Sig. Tommaso stessa Compagnia; Ten. Del Re Sig. Giacomo 1060° Comp. Mitr. del 5° Regg. Fanti; Ten. Di Marco Sig. Gabriele, ? batteria bombarde. Ten. Piccinelli Sig. Ivo 9° Fanti; S. Ten Troso Sig. Luigi 9° Fanti; Asp. Bianchi Sig. Giuseppe ? Reg. Alpini; Asp. Bertoli Sig. Luigi 77° Fanti; Asp. Corallo Sig. Giuseppe 9° Fanti; il sottoscritto ed altri.

Questa galleria, quantunque non portata ad ultimazione, fu di molta utilità, essendo servita come nascondiglio di indumenti austriaci in caso di perquisizione, e più volte è servita a nascondere più soldati nostri, venuti dal Campo della truppa per sostituire ufficiali nostri fuggiti, in modo che gli austriaci non se ne potessero accorgere. Però in seguito siccome alcuni degli ufficiali fuggiaschi furono ripresi, al nemico, non risultando mancante nessuno, sorse dei dubbi, ed allora fece nuovamente l’appello rigoroso, e mentre che noi eravamo in riga, alcuni ufficiali nemici fecero un’accurata ricerca nelle baracche, credendo di scoprire il trucco. In questo frattempo i soldati nascosti nella galleria, se la ridevano in barba al nemico, sicuri di non essere scoperti. Ho dimenticato dire che la sorveglianza, dalla parte del campo nostro con quello della truppa, era poca. Difatti di là avvenivano da principio le fughe finché il nemico se ne accorse.

In seguito alle fughe, le passeggiate giornaliere (di 20 ufficiali al giorno esclusa la domenica) vennero sospese; però nessuno ne soffrì giacché pochi ufficiali giornalmente vi prendevano parte, siccome si andava sempre in campagna e mai in paese e accompagnati da sentinelle.

Il continuo affluire dei pacchi ci fece sentire poco la fame, però non tutti quelli spediti dalle famiglie o dalla Croce Rossa arrivavano. Gli altri ci arrivavano quasi sempre manomessi e dimezzati.

Il Comando austriaco poi, prima di consegnarceli, li perquisiva, facendo spesso aprire anche le scatolette.

Col ritorno della primavera, diminuirono le sofferenze. Il freddo non ci tormentava più.

Molto si leggeva e studiava seduti al sole, quando questo si faceva vedere, e spesso con i più cari amici si passeggiava in lungo e in largo per il campo finché ci stancavamo le gambe.

Gli austriaci per giustificare tutte le restrizioni che facevano a danno nostro, dicevano che in Italia così o peggio venivano trattati i prigionieri austro-ungarici. Talvolta ci dicevano che il loro Governo aveva fatto proposte di scambio di prigionieri ma che l’Italia rifiutava recisamente. Ciò essi lo facevano per darci ad intendere che l’Italia poco si occupava di noi, credendo che in tal modo ci avrebbe fatto odiare la Patria nostra. Ah poveri illusi! Vigliacchi, veri vigliacchi, privi del sentimento cavalleresco. Il vero nome: austriaci.

Spesso ci riunivamo per leggere alcune circolari del Krigs-Ministerium (Ministero della Guerra). Erano tutte sullo stesso tono: “È permesso agli ufficiali, alla truppa di richiedere pacchi alle loro famiglie, ma è severamente vietato scrivere lagni di fame” oppure “Sono vietati fino a nuovo ordine giuochi, divertimenti, teatri. Il Krigs Ministerium ha dovuto ricorrere a ciò in seguito all’inumano trattamento dei prigionieri austro-ungarici in Italia” ecc…

Diminuite le sofferenze fisiche aumentarono quelle morali per il cattivo trattamento e per le grandi restrizioni. Parecchi degli ufficiali austriaci mancavano di quel sentimento cavalleresco di cui dovrebbero essere ricchi gli Eserciti delle nazioni civili. Qualcuno si mostrava educato ma altri erano vera canaglia. Come ad es. il Tenente ungherese Won Simon del campo di Dunaszerdahely era cattivo in modo incredibile, con tutti gli ufficiali prigionieri di grado inferiore o superiore al suo.

Parecchie proteste facemmo con l’astenerci dall’andare all’appello per il mal trattamento agli ufficiali nostri fuggitivi e poi ripresi. Essi venivano bastonati per bene, veniva requisito loro tutto ciò che portavano, indi li chiudevano in prigione, dove moltissimo si soffriva fisicamente e moralmente.

Altra volta fu ucciso un soldato nostro, per essersi avvicinato al reticolato ad una distanza minore da quella prescritta.

Con l’inoltrarsi del tempo crebbe il caldo ed aumentò la noia. Nel pomeriggio il caldo era eccessivo. Non si poteva resistere né dentro né fuori all’ombra.

Cominciavamo a diventare a poco a poco nevrastenici. Tutto ci urtava; per una piccola cosa si veniva a discussioni lunghe e interminabili, si veniva a battibecchi, a liti, a duelli. Si diventava irascibili, indolenti: si era un’altra volta bambini.

Nella seconda quindicina di maggio si sparse la voce che ben presto quel campo doveva sgombrarsi. Gli ufficiali venivano divisi tra i campi di Dunaszerdahely, 1° Reparto, Somorye, Nagymegyer, Soproniek e qualche altro campo. Quantunque nel campo dove eravamo si stesse male, ciò nonostante queste notizie ci dispiacquero abbastanza.

Il 20 Maggio l’ordine del Giorno austriaco portò delle novità. Fra pochi giorni il campo doveva essere sgombro.

Cominciarono le partenze. Prima quelle per Soproniek, il 24 quelli per Nagymegyer, fra i quali ero compreso anch’io. Il giorno prima di partire avevamo l’ordine dal Comando austriaco di portare al corpo di guardia tutti i bagagli, dove subivano un’accuratissima perquisizione.

L’indomani per tempo ci portarono alla stazione ferroviaria di Dunaszerdahely, da dove partimmo verso le ore 8, giungendo prima delle nove a Nagymegyer, paesello di circa duemila abitanti.

Il campo era a pochi metri dalla linea ferrata e vicinissimo alla stazione. Entrati nel campo il Colonnello austriaco, (Felenic) comandante il Concentramento, ci fece mettere per due e poi per mezzo dell’interprete (un rinnegato triestino) fece dire al Capitano più anziano di presentargli i Sig. Ufficiali. Il Capitano non sapeva che fare e tentennava, ciò che fece adirare il Colonnello austriaco, che cominciò a sbraitare in tedesco, minacciando il capitano di punizioni.

Tutti gli ufficiali eravamo indignati, tanto che ciascuno invece di stare in riga si allontanava per protesta, destando ancora di più l’ira del nemico, il quale fu costretto far chiamare un maggiore nostro, vecchio del campo. Questo venne subito e capito di che si trattava diede l’Attenti e poi il comando Sigg. Ufficiali a rapporto. A ciò, come ben s’intende, ciascuno rimase fermo, questo fece adirare moltissimo il Colonnello austriaco, il quale a quest’ultimo comando pretendeva il saluto da tutti gli ufficiali. Messe finalmente le cose a posto ci assegnarono le baracche dopo di che ci lasciarono liberi.

Il campo era composto di baracche simili a quelle di Dunaszerdahely, però in qualcuna di esse c’erano le suddivisioni in scompartimenti.

La maggior parte dei nuovi venuti (una quarantina circa) occupò il secondo settore di una baracca, dove mancavano tutte le comodità e dove si era tanto stretti da non potersi muovere. Per di più, essendo la latrina vicinissima, c’era un odore da non poter resistere.

Questo Concentramento si diceva provvisorio, dovendoci spostare fra giorni, però nessuno vi credeva, essendo questa notizia messa in giro dagli austriaci e quindi falsa come sempre.

Oltre al reticolato, attorno c’era anche un tavolato che c’impediva di vedere la campagna e le strade che passavano vicino.

Il campo era coltivato a frumento, invece quello di Dunaszerdahely era a patate, fagiuoli, verdura ecc, coltivando tutto a spese degli ufficiali, difatti parecchie diecine di quintali di patate c’erano piantate in quel campo; patate comprate a spese nostre e che poi alla nostra partenza nulla abbiamo visto. Dove è andato a finire tutto il raccolto e il ricavato degli strumenti musicali venduti? Io non lo so!

Il Concentramento di Nagymegyer era composto da circa 200 ufficiali. Anche qui c’erano le commissioni della mensa, magazzino, sala convegno, laboratorio, ecc. Commissioni che funzionavano abbastanza bene, lasciando contenti tutti gli ufficiali.

In quanto al vitto si stava meglio di Dunaszerdahely. La razione del pane era più grossa e di qualità migliore. Spesso ci davano da mangiare tagliatelle e gnocchi. La sera quasi sempre semolino e polentina.

C’era poi una bibliotechina ricca di buonissimi romanzi e libri istruttivi. Avevamo una orchestrina, che concertava ogni domenica e in occasione delle feste nazionali.

Dapprima quasi giornalmente c’erano le passeggiate, in numero di trenta ufficiali alla volta; però in seguito furono sospese per le fughe, le quali, quasi sempre male organizzate e quindi con nessun risultato. Parecchi di noi avevano ideato una fuga e bene organizzata; difatti cominciavamo a fare dei preparativi, però ci mancavano le cose più essenziali: i documenti di viaggio.

Tutte le mattine al suono di una campana dovevamo riunirci per grado e metterci per quattro, poiché il colonnello austriaco assisteva all’appello nominativo.

Spesso ci facevano perquisizioni minuziose, talvolta fatte da semplici soldati, che erano autorizzati a metterci anche le mani addosso e farci spogliare. Qualcuno protestava, ma aveva la peggio. Veniva minacciato, imprigionato e qualche volta pure bastonato. Tutta la roba borghese che ci veniva trovata, monete austriache o di altra nazione, documenti di viaggio, carte geografiche, diari, roba austriaca, ecc. ci venivano sequestrati, per di più ci buttavano in prigione chi sa per quanto tempo e talvolta ci mettevano anche sotto processo.

Contrariamente a quanto si credeva, nei primi giorni di giugno venne l’ordine di sgombrare il campo, per andare ad occuparne un altro migliore a pochi Kilometri dal primo.

Il nuovo campo era composto pure di baracche (credo in numero di 20) delle quali due per la mensa e sala convegno, una per la chiesa, una per l’infermeria, una come ripostiglio austriaco, una per la cucina e una per la truppa.

Dietro a ciascuna baracca, a pochi metri di distanza c’era un baracchino da bagno o da lavabo o da laboratorio. Le latrine non erano attaccate alle baracche dove si abitava, ma separate.

Le baracche abitate dagli Ufficiali erano divise in camerette, in numero di venti per ciascuna.

Ogni cameretta abitavano 2 o 3 subalterni oppure un capitano o ufficiale superiore.

In seguito son venuti altri ufficiali fatti prigionieri sul Giugno, fra questi il Colonnello Toti Cav. Federico del 146° Fanti, il quale assunse il Comando del Campo.

Il comandante austriaco era il Colonnello Warner, che comandava tutti i concentramenti di ufficiali e truppe di Nagymegyer. Aveva a sua disposizione parecchi altri ufficiali, fra cui il Ten. Colonnello Felenic, che aveva il comando diretto del campo nostro. Tutti e due erano accaniti in modo incredibile contro gli italiani, specialmente il primo, ed è per questo che non ci lasciavano un minuto in pace con appelli, talvolta diversi nel giorno, con perquisizioni, con circolari… ecc…

Note del redattore (Francesco Fortunato): in azzurro parti che il Parlavecchio indica provenire da suoi appunti.

[Molto abbiamo sofferto moralmente in questo campo. Spesso nei pomeriggi ci sentivamo molto demoralizzati, scheletriti e mezzo ammalati. Molti pensieri ci turbavano la mente e ci rendevano malinconici e nostalgici. “A venti anni! Nel fiore della gioventù – pensavo – privo del pane, privo della libertà, privo di tutto il necessario. Povera la mia gioventù”. Qualche volta, quando il tempo era splendido, il cielo limpido, l’aria mite, il mio pensiero volava lontano ai miei cari, all’adorata Patria. Il canto delle rondinelle mi riempiva la mente di pensieri tetri e mi rendeva più triste. “Finirà presto questo barbaro flagello? Pensavo. Nel fiore della gioventù, proprio quando si deve godere la vita, imprigionato in questa pianura maladetta, dove tanta gioventù soffre e spera! Il passato, il felice passato ritornerà? Ritorneranno le gioie intime della famiglia? Ritorneranno i giorni felici, trascorsi con gli amici più cari, tra la spensieratezza e l’allegria? Ritornerò a vedere l’agognata Patria? Oh! quanto mi sento triste pensando a queste cose! come mi sento stringere il cuore pensando a tanto tempo perduto, si perduto, e in che modo! Nessuna speranza di ritorno! Esso sembra lontano, molto lontano; ma almeno la lontananza sarà ricompensata da una pace vittoriosa per le nostre armi?”

Il 26 luglio 1918 alle ore 20 circa, un nostro ufficiale in prigione (prigione e non arresti, dicevano gli austriaci) perché aveva tentato la fuga, se ne stava alla finestra del carcere. Sotto c’erano parecchie sentinelle e attorno un grande reticolato. Una sentinella intimò al prigioniero di ritrarsi e contemporaneamente (ci sono più testimoni oculari) senza aspettare che l’ufficiale eseguisse l’ordine, spianò il fucile e fece fuoco, colpendolo e ferendolo gravemente al polmone. Grande confusione successe allora nel campo. Ci aggiravamo accaniti attorno al Comando austriaco, per sapere chiaro ciò che fosse avvenuto, e perché si mandasse subito il medico dal ferito. Si protestava, si voleva dare l’assalto al corpo di guardia, prendere quei quattro vecchi mocciosi e pidocchiosi, sgozzarli senza pietà. Ma come fare disarmati come eravamo, mentre tutta la guardia era schierata e taluni di essi a crociatet? Se non ci fosse stato il reticolato che ci separava da loro, il colpo si sarebbe tentato, specie in quei momenti, comunque fosse andata a finire.

L’indomani (27) per protesta nessuno andò all’appello. Gli austriaci rinunciarono per il mattino, ma nel frattempo diedero un’altra volta il segnale d’adunata, senza però nessun risultato.

Il colonnello austriaco inviperito fece venire nel campo un battaglione armato e con le baionette innestate, credendo d’intimorirci.

Inermi, cosa potevamo fare? Fummo allora costretti ad uscire dalle baracche, però nessuno si mise in riga.

Cominciò l’appello. Nessuno rispose.

Al vedere ciò il colonnello austriaco non poté più resistere, non sapeva che fare. Con la forza ci fece mettere per due e ci contò. Solo così ha potuto fare l’appello ma non nominativo come era suo desiderio.

In seguito abbiamo saputo che quel soldato di sentinella, che aveva ferito il nostro ufficiale, per ricompensa è stato promosso caporale e mandato in licenza per dieci giorni.

Il 3 Agosto venne a fare l’appello il Colonnello austriaco Warner; costui pretendeva dagli ufficiali prigionieri il saluto con gli occhi cioè guardandolo negli occhi fisso e con aria marziale. Come potevamo assoggettarci a guardare benignamente e con aria marziale un nostro nemico, specie una canaglia simile? Poveri noi!

Il 10; stesso mese abbiamo sentito una bella notizia. Nostri aviatori erano arrivati a Vienna e lanciarono parecchi manifestini alcuni dei quali dicevano così:

Viennesi! Imparate a conoscere gli italiani. Se noi volessimo, noi potremmo gettare sulla vostra città parecchie tonnellate di bombe, ma noi vi portiamo solo il saluto del tricolore, del tricolore della libertà.

Noi italiani, non facciamo la guerra ai bimbi, ai vecchi e alle donne, noi facciamo la guerra al vostro Governo, al nemico della libertà nazionale, al vostro cieco, testardo e crudele governo, che non può darvi né pane, né pace e solo vi nutre di odio e di ingannevoli speranze.

Viennesi.

Si dice che voi siate intelligenti, però da quando avete vestita l’uniforme prussiana voi siete discesi al livello di uno zotico berlinese e tutto il mondo si è voltato contro di voi.

Volete continuare la guerra? Fatelo se voi volete il vostro suicidio. Che cosa sperate nella vittoria decisiva che i generali prussiani vi hanno promessa? La vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina. Lo si aspetta e si muore prima che esso arrivi.

Cittadini viennesi!

Considerate quello che vi aspetta.

WLa libertà. W. L’Italia. W. L’Intesa.

(Dalla Neu Frei Presse)

I viennesi credettero che gli aeroplani nostri fossero andati per bombardare la città, ma quando videro i manifestini, allora ammirarono gli italiani per la perspicacia e per l’umanità.

Un ordine del Questore di Vienna vietò di raccogliere i manifestini, e chiunque ne tenesse era obbligato consegnarli ai gendarmi; però lo strozzinaggio si esercitò anche su questo. Di contrabbando alcuni manifestini furono venduti fino trenta Korone.

Dal 19 Agosto in poi ci vietarono la lettura dei giornali e riviste, col pretesto che così facevano i nostri con i loro prigionieri. Ci permettevano solo la Gazzetta del Veneto, giornale scritto in italiano, ma austrofilo per eccellenza.

In occasione di ciò il Colonnello nostro ha fatto un discorso sulla concessione da parte degli austriaci del giornale italofono. Unanimi abbiamo rinunciato a questa concessione, rassegnandoci di stare al buio delle notizie. Il discorso fu caloroso e patriottico. Si finì gridando W. L’Italia, W. il Re.

In seguito quasi giornalmente abbiamo potuto avere da un prigioniero serbo un giornale tedesco, dietro il compenso di una pagnotta e del denaro. I comunicati e le notizie importanti venivano tradotte in italiano e poi lette a mensa, di nascosto degli austriaci.

Ogni domenica si tenevano conferenze istruttive e patriottiche, alle quali intervenivano quasi tutti gli ufficiali.

Dal 15 Agosto il pane cominciò a peggiorare fino a che si ridusse cattivissimo: nero, umido, pesantissimo, puzzava, aveva un sapore non so dire di che, filava come il cotone. Era un peccato chiamarlo pane.

Il 5 Settembre il Colonnello austriaco ci disse che fra giorni sarebbero ricominciate le passeggiate, però non si andava mai nei paesi, ma nella campagna e accompagnati dalle sentinelle o da soli ufficiali. Quelli che volevano uscire dovevano dare per iscritto la parola d’onore, di non scappare, né di preparare fughe. Unanimi abbiamo rinunciato a questa concessione: l’ufficiale italiano non impegna mai la sua parola d’onore per nessun motivo.

L’undici stesso mese gli austriaci piazzarono a pochi metri dal reticolato, due grosse mitragliatrici di vecchio tipo, puntate nel campo nostro. Credevano con ciò d’intimorirci! Poverini!

Il venti ci fu una grossa festa nel campo in ricorrenza dell’anniversario della presa di Roma.

La sala mensa era tutta imbandierata.

Alle ore dieci ci riunimmo nella sala del tetro. Il palcoscenico e la sala erano bene addobbate.

Parò prima il Colonnello nostro fra gli applausi degli ufficiali tutti. Ricordò le gesta del nostro valoroso esercito, parlò dei sacrifici della nostra Nazione, e mentre l’orchestra principiava la Marcia Reale, inaugurò un bel quadro del Nostro Re Vittorio Emanuele Terzo.

Un urlo potente di W. il Re, W. L’Italia echeggiò nella sala. Tutti gli animi erano commossi, qualcuno aveva gli occhi velati di lacrime.

Parlò poi il Ten. Varzelli Sig. ? del ? Regg. Bersaglieri, indi un caporal maggiore di cui non ricordo il nome, il quale recitò dei sonetti di sua composizione e poi la Canzone di Legnano.

Quel giorno gli austriaci ci lasciarono in pace, però l’odio loro si scatenò l’indomani, trovando come pretesto che la sera prima molti ufficiali tennero il lume acceso oltre le 22. Vennero puniti di arresti di rigore da scontarsi nelle proprie camere.

Il 22 settembre il Colonnello Toti Cav. Federico riunì gli ufficiali nella sala del teatro. Egli sembrava molto turbato. Trasse fuori dalla tasca una lettera e ce la lesse. Era una lettera anonima, molto indecente e priva di ogni idea disciplinare, specie per il colonnello. Essa parlava specialmente del poco interessamento ecc. ecc. Spedita per mezzo della posta comune andava a Vienna, dove fu censurata e rimandata al Concentramento di Nagymegyer. Qui il Comandante austriaco, dopo averla letta, l’aveva consegnata al nostro Colonnello.

Grande impressione destò questa lettera. In mezzo a noi c’era qualche vigliacco. Chi l’aveva scritta non poteva essere altro che un ignorante, ignaro delle conseguenze che essa avrebbe arrecato all’occhio degli austriaci, specie a Vienna dove sarà stata letta e copiata chi sa da quanti.

L’operato del Colonnello Toti, parlando francamente, era degno di ammirazione e non di biasimo, perché egli aveva portato le cose a un punto tale da mettere il campo in perfetta regola.

Chi poteva essere l’autore? In molti era balenata l’idea che fossero stati gli austriaci per mettere le discordie nel campo, fra noi italiani, tanto più che la lettera era scritta malissimo e piena di errori. Nulla però si è potuto appurare.

Il nostro morale assai depresso ben presto cominciò a risollevarsi. La vittoria in Francia e l’armistizio con la Bulgaria ci fecero sperare in una prossima, generale e vittoriosa pace.

Il 4 ottobre la Neu Frei Presse portò una sensazionale notizia: I francesi avevano conquistato il baluardo di S. Quintin; i serbi Kumanovo con moltissimi prigionieri; gran disordine alla camera austriaca fra tedeschi e czechi. Questi ultimi inneggiarono alla Francia, augurando la sconfitta tedesca. Successero zuffe fra i deputati, si lanciarono fra di loro calamai. Fu sospesa la seduta.

Il 5 sentimmo l’abdicazione di Re Ferdinando di Bulgaria e che l’Austria stava preparando altre proposte di pace, accogliendo tutti i punti di Wilson.

Il 17 si sparse la voce che l’Ungheria si era dichiarata libera e indipendente. Il giornale venne a confermare la notizia.

Negli ultimi di ottobre abbiamo sapute notizie strabilianti: la vittoriosa nostra offensiva e la proclamazione della Repubblica Ungherese.

Intanto una grande epidemia era scoppiata nel campo (febbre spagnuola). Gli ammalati aumentavano giornalmente: il 28 erano 132 esclusi gli uomini di truppa.

Il 29 caddi ammalato anch’io. Non c’era nessuno che ci serviva e ci assisteva, perché i pochi incolumi avevano paura di avvicinarsi. Ciò nonostante qualche amico sincero raramente veniva a farci visita e ci alleviava le sofferenze con le belle notizie che ci portava: l’avanzata nostra, il proclama della Repubblica Ungherese ai loro soldati di deporre le armi.

Il 3 Novembre gli ammalati cominciarono a diminuire. Io ero in convalescenza. La sera notizie strabiliantissime si sparsero nel campo. L’esercito austriaco era in ritirata su tutti i fronti. Precipitosa su quello italiano. Il nostro suolo invaso era sgombro. Gioia pazza regnava nel campo; era un delirio dappertutto. Sembravamo tanti pazzi. Ci avvicinavamo alle sentinelle, domandando qualche notizia in cambio del pane. Alla vista del Broti queste scioglievano il scilinguagnolo, parlando bene dell’Italia e contenti della vicinissima fine della guerra.

Il 4 abbiamo saputo dell’armistizio chiesto dall’Austria-Ungheria.

Il 5 firma dell’armistizio. ((|) da miei appunti)]

Nel campo non si capiva più niente. Si delirava, si piangeva, si cantava, si ballava. Gli austriaci non si sono fatti più vedere; le sentinelle erano scappate. Il Corpo di Guardia era sgombro, il cancello era aperto.

Chi preparava i bagagli, chi scappava fuori per girare il paese, chi partiva a piedi per l’Italia. Tutto era allegria.

Il colonnello ci consigliò di restare altri pochi giorni, perché cercava ottenere al più presto possibile qualche treno e partire. Si diceva che molti prigionieri venivano uccisi per istrada dalla popolazione in rivolta. Per questo abbiamo deciso di attendere pochi giorni ancora.

L’otto di Novembre eravamo quasi tutti in paese; verso le ore dodici un soldato venne ad avvertirci che fra due ore si partiva. Pazzi dalla gioia ritornammo al campo per prendere i bagagli da tanto tempo preparati e via alla stazione.

Quando eravamo tutti sul treno ci guardammo negli occhi e ci domandammo: Ma si va proprio in Italia? Ma è proprio vero? Siamo dunque liberi? È venuto finalmente il giorno tanto desiderato?

Quando il treno si mosse un grido di W. l’Italia echeggiò da migliaia di bocche. Si andava in Italia, nell’adorata Patria nostra, nell’agognata terra, dopo tante sofferenze.

Mi duole non aver più tutti i miei diari scritti durante la prigionia, giornali e pubblicazioni (specie del campo di Dunaszerdahely) per averli perduti con tutta la mia roba a Trieste il 13.11.918 e cioè il giorno dopo di quello d’arrivo. Mi sono rimasti solo brevissimi appunti, che avevo nel mio taccuino e che ho qui copiato.

Questa è la vita vissuta nei concentramenti di Dunaszerdahely prima e di Nagymegyer dopo. Allo stesso modo mio potranno riferire tutti gli ufficiali presenti nei campi; dal 28 dicembre 1917 al 24 maggio 918 per il 1° concentramento. Fra questi il Ten. Romano Sig. Lorenzo, 30° Comp. Mitr. S. Etienne. Ten. Fantini Sig. Tommaso, stessa Comp. Ten. Del Re Sig. Giacomo 1060° Comp. Mitr. del 5° Fanti. Ten. Piccinelli Sig. Ivo 9° Fanti. Ten. Buttafuoco(?) Sig. Guido 139° Regg. Fanti. S. Ten. Lo Russo Sig. Leonardo ? Fanti. S.T. Troso Sig. Luigi 9° Fanti. S.T. Crisafulli Sig. Riccardo 9° Fanti. Asp. Corallo Sig. Giuseppe 9° Fanti. Asp. Manfredonia Sig. Giuseppe 9° Fanti. Asp. Bertoli Sig. Marco 77° Fanti. Ten. Baldelli Sig. Cesare 77° Fanti. Asp. Dammacco Sig. Vincenzo 9° Fanti ecc. ecc.

Per il campo di Nagymegyer (dal 24.5 al 8.11.918) i signori Ten. Romano Sig. Lorenzo. Ten. Faustini Sig. Tommaso 30° Comp. Mitr. S. Ten. Del Re Sig. Giacomo 1060° Comp. Mitr. Ten. Avanzati Sig. Feri 77° Fanti. S.T. Greco Sig. Giuseppe 77° Fanti. S.T. Turiano Sig. Giuseppe 86° Fanti. S.T. Vico Sig. Angelo 85° Fanti. Asp. Principi Sig. Torquato ? Regg. Fanti. Asp. Pacini Sig. Ettore 77° Fanti. Asp. Zane Sig. ? 1° Genio Zappatori ecc. ecc.

Non ricordo il nome di nessun sottufficiale o soldato che per la sua intelligenza dia affidamento di poter riferire allo stesso modo mio intorno alla sua prigionia.

Nulla ho in contrario per la pubblicazione della presente.

Asp. Uff.le Parlavecchio Gaetano

6° Regg. Fanti 1° Comp. – Zona di guerra –

 

(2) Gaetano Parlavecchio. L’aspirante Ufficiale Gaetano Parlavecchio, classe 1898, di Montalbano Elicona (ME) si arruolò nell’esercito subito dopo il disastro di Caporetto. Era all’ultimo anno di Ragioneria e prese questa decisione congiuntamente ai suoi compagni di classe per patriottismo, ed anche per sollecitazione dei suoi insegnanti, i quali promisero che al loro rientro essi avrebbero ottenuto il diploma senza aver sostenuto l’esame di Stato. Gaetano Parlavecchio arrivò al fronte come aspirante Ufficiale il 17 ottobre 1917, finendo prigioniero degli austro-ungarici, nel corso di un’azione di guerra, esattamente un mese dopo, il 17 novembre. La prigionia durò un anno esatto, fino al 18 novembre1918. Dopo la guerra scelse di proseguire la carriera militare. Gli fu ordinato di redigere un dettagliato resoconto della prigionia: ne fece una copia in più, oltre a quelle consegnate alle autorità, ed il fedele documento che qui riportiamo. Successivamente fu inviato in Africa, dove rimase per quattro anni, prima in Libia e poi in Eritrea. Al rientro in Italia conobbe a Napoli la sua futura moglie, e mise su famiglia. Scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, fu inviato in Albania. Si ritrovarono insieme ai suoi commilitoni nel freddo delle alture tra Albania e Grecia ancora con equipaggiamento estivo e rifornimenti mal funzionanti. Parlavecchio, era incaricato dei rifornimenti ai reparti di prima linea. Patendo freddo e fame, mal visti da parte della popolazione, rischiarono più volte di trovarsi accerchiati dai nemici. Fu colpito da una scheggia di bomba d’aereo e si ammalò. Ritornò in Italia nel 1941 su una nave ospedale, in grave deperimento e con una pesante bronchite asmatica. Non si riprese più, anche se tentò più volte di rientrare in servizio. Morì nel 1946 per l’ennesimo peggioramento della patologia, lasciando sola la moglie e due bambine. Fu decorato di Croce di Guerra per le sue azioni in Albania.

(3) Fanteria – 5° e 6° reggimento, brigata Aosta

«Alla vigilia della guerra la Brigata si trova a Gemona, alle dirette dipendenze del Comando zona Carnia; il 3 luglio il 6° reggimento é inviato nel settore passo Monte Croce Carnico – Pal Piccolo – Pal Grande, mentre il 5°, a Sella Nevea ed in Val Raccolana, appoggia le truppe del IV° corpo d’armata che attaccano il caposaldo di Plezzo. Nei mesi successivi la Brigata, in concorso con truppe alpine, tenta la conquista della linea nemica sul monte Rombon. Dopo giornate di dura lotta la nostra prima linea è a pochi metri da quella avversaria; il 23 agosto, resistendo gli austriaci sul Rombon, si decide per un obiettivo secondario, la cima del Kukla, che viene preso da una colonna mista di alpini dei battaglioni Ceva e Val Ellero. Terminate le azioni di assestamento del fronte Carnico, col sopraggiungere dell’inverno 1915 -1916, solo piccole pattuglie esplicano funzioni di controllo lungo la prima linea. Ai primi di marzo del 1916, i due reggimenti della Brigata Aosta si riuniscono nella conca di Plezzo, scaglionandosi nel settore destra Isonzo-pendici del Kukla; il 19 marzo gli austriaci (la Quinta battaglia dell’Isonzo, 11-15 marzo 1916, era appena terminata), preceduti da un bombardamento a carattere distruttivo, attaccano di sorpresa riuscendo a superare le nostre difese in fondo valle, a sera l’8° e 9° compagnia del 5° reggimento contrattaccano alla baionetta e la prima linea torna quella del mattino. Con la ripresa della spinta offensiva sull’Isonzo, Sesta battaglia dell’Isonzo (6-17 agosto 1916), i due reggimenti della Aosta vengono separarti: il 6° rimane nella conca di Plezzo ed il 5° si scagliona con due battaglioni attorno a Zagora ed uno sul Carso. Particolarmente intensa è la lotta attorno a Zagora, dove le truppe italiane attaccano a fondo il settore Kuk-Monte Santo, difeso ad oltranza e mantenuto dalla 62° divisione austriaca. Il 2 novembre, iniziatasi la Nona Battaglia dell’Isonzo (1-4 novembre 1916), la Brigata, riunitasi già a fine agosto, viene dislocata nel settore del Pecinka, dove l’artiglieria nemica non da tregua, causando sensibili perdite soprattutto nel 5° reggimento. Fino alla fine dell’anno i fanti della Aosta rimangono in trincea tra il Pecinka e Dosso Fajti. Nell’aprile del 1917, la Brigata si trasferisce sull’Altipiano d’Asiago, quale riserva del XX° corpo d’armata, a luglio passa in prima linea dislocandosi nel tratto Strigno-Cima Caldiera, di fronte all’Ortigara. Dopo la Dodicesima battaglia dell’Isonzo (24 ottobre-10 novembre 1917), la Aosta arretra sul Grappa, raggiunto l’8 novembre, schierandosi sulla nuova prima linea di Col Caprile-Col della Berretta-Col Bonato. Su queste posizioni i due reggimenti attendono la spinta austro germanica. Il 26 novembre la lotta per il possesso di Col della Berretta è in pieno svolgimento, il nemico, col continuo affluire di rinforzi, sfonda le difese italiane; il contrattacco è portato dal II° battaglione del 5° reggimento che riesce a contenere gli avversari fino all’arrivo di nuove truppe di rincalzo. In questa azione il battaglione viene praticamente annientato, il valore dei fanti della Aosta è riconosciuto dallo stesso avversario, nel diario di guerra della XIV armata germanica si legge: “Alle 4 del pomeriggio reparti della divisione Edelweis occupano il Col della Berretta, ma non riescono, in seguito a contrattacchi del nemico, a mantenere il successo.” La Edelweis era una delle migliori divisioni germaniche. Dopo queste giornate di lotta, la Brigata viene mandata a riposo. Il 15 giugno 1918 l’Austria lancia l’Ultima grande offensiva (15-23 giugno 1918) la Brigata in quei giorni è in linea sul Montello; il giorno 17 è tra le case di Nervesa, con la 48° divisione, schierata lungo l’argine della ferrovia presso San Mauro ed impegnandosi con tutti i reparti nel contenere l’attacco avversario. Il 21 giugno, dopo che in soli sei giorni ha perduto 1223 uomini, viene sostituita ed inizia turni di riposo e trincea nella regione del Grappa. Durante le giornate della battaglia di Vittorio Veneto (24 ottobre – 4 novembre 1918), riceve l’ordine di impadronirsi dei monti Vaderoa e Spinoncia, partendo dalle posizioni sul Salarolo. Alle ore tre del giorno 24 ottobre, la nostra artiglieri apre un fuoco distruttivo sulle posizioni austriache del Valderoa, alcune ore dopo il 5° reggimento attacca, mentre il 6° ne protegge il fianco dislocandosi sul Monte Medata; l’azione ha successo, tuttavia la reazione del nemico non si fa attendere ed un cannoneggiamento violentissimo sorprende allo scoperto i fanti dell’Aosta sulle rocce del monte Spinoncia. Nei giorni seguenti la situazione diviene critica perché sul Salarolo nuclei nemici fermano la nostra avanzata ed il Valderoa, conquistato, è dominato dallo Spinoncia ancora austriaco. Il 31 ottobre, finalmente, le creste del Salarolo e dello Spinoncia sono occupate, il 6° reggimento incalza il nemico in ritirata lungo le valli Cinespa, Tas e Maora. A sera giunge nella Conca di Schievenin, dove si accampa ed attende la fine della guerra». (Paolo Antolini) da (www.storiaememoriadibologna.it)

Note del redattore (Francesco Fortunato)

Ho cercato di rispettare la forma del manoscritto originale, per quanto possibile. I punti interrogativi riportati sono presenti anche nel testo originale, laddove l’autore non ricordava i dettagli di nomi o reparti d’appartenenza. Le sottolineature sono quelle presenti nel manoscritto. Carattere diritto e corsivo sono invertiti.

 Franz Sfesh: non chiaro nell’originale

 Korone è scritto con la K nell’originale.

 “Campo”, nel senso di campo di concentramento, è scritto talvolta con la maiuscola, altre con la minuscola.

 Dunaszerdahely: attualmente in Slovacchia.

 “Freddosa” è scritto così nell’originale.

 Rastelli: sinonimo di rastrelli, non mi è chiaro il senso preciso. Di certo elementi in legno delle baracche.

 P. Etienne: tipo di mitragliatrice di produzione francese

 Won Simon: difficoltà a interpretare il manoscritto

 Somorye: Somorya o Šamorín, attualmente in Slovacchia

 Nagymegyer: attualmente in Slovacchia. Dista da Dunaszerdahely circa 20 Km.

 Maladetta: così nell’originale.

 ((|) da miei appunti): nell’originale le righe sono marcate con una spunta sul margine sinistro

 Ten. Buttafuoco: nome non chiaro nel manoscritto.

Giuseppe Longo
giuseppelongoredazione@gmail.com
@longoredazione

 

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