Discorso del Vescovo di Cefalù S.E.R. Mons. Giuseppe Marciante in occasione dell’inaugurazione delal “Casa del Mandorlo” e Castelbuono.
Carissimi fratelli e sorelle,
è per me una grande gioia essere qui con voi!
Saluto in modo particolare Salvatore Ficarra che è qui in mezzo a noi: la sua presenza ci dà gioia; il suo mestiere è dare gioia.
Salvatore Ficarra e Valentino Picone hanno girato un film molto bello “Il primo Natale” che si riferisce al Primo Natale e si lega bene al messaggio del Santo Padre “Come Gesù, costretti a fuggire”, scritto per questa Giornata del Migrante e del Rifugiato.
Oggi si realizza un sogno! In questa giornata ventosa, quasi a percepire il soffio dello Spirito Santo, ci apprestiamo infatti a vivere l’incontro con Cristo nel volto dei nostri fratelli che saranno ospiti di questa Casa.
Sulle tante vicende e posizioni che ruotano attorno ai nostri fratelli immigrati, sembra che quasi tutti abbiamo compreso in modo unanime, a parte gli onnipresenti “Erodi” di turno (proprio come nel film), veri untori del male, che ci attende prima di tutto un compito specifico. Un compito che precede ogni possibile riflessione sull’ampio ventaglio di proposte, soluzioni e dibattiti legati alle scelte da legiferare per il bene dei nostri fratelli migranti.
In Sicilia abbiamo una posizione privilegiata, quasi un osservatorio speciale, per guardare il fenomeno dell’emigrazione.
E proprio tal riguardo, Ficarra e Picone hanno girato anche un altro film “Nati stanchi” che fotografa bene la nostra Sicilia colpita, ancora oggi, dall’emigrazione di tante persone, soprattutto giovani. Anche per noi Vescovi è una grande pena vedere partire i nostri ragazzi.
La gioventù se ne va, lasciando gli anziani. Ma la gioventù è il futuro di una realtà: immaginate allora i miei Confratelli dell’Africa e di altri paesi che vedono, giorno dopo giorno, andar via frotte di giovani. Perdere la gioventù vuol dire impoverire la società.
Un compito – dicevo poc’anzi – da vivere come un dovere che va assolto da ognuno di noi; spetta infatti a ciascuno di noi, indipendentemente dal credo religioso, politico e da ogni ruolo o servizio esplicitato nel tessuto sociale e civile, vincere l’odio. Un dovere che deve asfaltare, con scelte di carità, le vie del nostro essere uomini, cittadini e cristiani.
L’odio bisogna non fomentarlo mai. L’odio contro qualsiasi fratello va sempre condannato senza tentennamenti, senza se e senza ma. Non possiamo, in modo particolare noi cristiani, mettere a tacere il Vangelo. Annacquarlo. L’amore verso il prossimo non può passare mai dai filtri visibili o invisibili del mondo dell’economia o della logica del mercato. Il fratello va amato, il forestiero va accolto. Deve essere amato e deve essere accolto. Sempre. La prima nota dell’amore verso la vita e verso il fratello è l’accoglienza dignitosa. Sempre. La storia ci insegna che in brevissimo tempo dai piccoli focolai di astio, da una sola macchia di sangue, si passa agli incendi più devastanti, alle stragi più orrende.
Paolo Borrometi, giovane giornalista sotto scorta per il suo impegno di denuncia contro la mafia, ha scritto: «Dobbiamo liberarci da qualsiasi colonizzazione ideologica che ci porti a vedere in un uomo che viene dal mare, un temibile invasore».
Io aggiungo che non possiamo assistere passivamente a questa colonizzazione ideologica che passa attraverso il solco della spettacolarizzazione di ideali rovesciati, di valori che tali non possono assolutamente considerarsi perché scritti seguendo le cattive regole della grammatica dell’egoismo che sfocia nell’odio.
Assistiamo a una colonizzazione ideologica dai tratti sibillini, appare e scompare in base ai venti della cronaca o ai palinsesti politici da confermare o rinnovare. Ha i suoi picchi di audience in ogni fascia di età, un suo share anche nell’area cattolica. Il più alto indice di gradimento pare si riscontri nel mondo dei social, il suo “canale” di approdo più congeniale. Riesce a “sbarcare” più facilmente e più celermente nei porti dei cuori e delle menti dei nostri fratelli più fragili, più deboli perché in modo malsano sono stati educati ad avere paura della paura, anche di quella partorita dalla menzogna. Di quelli che credono ancora che nella foresta è solo il grido del leone a riuscire a creare l’ordine. Intanto, dobbiamo tutti attivarci affinché ogni angolo della terra, ogni attimo della storia viva una sola colonizzazione.
Ritorno a citare Borrometi: «Di colonizzazione dovrebbe essercene una soltanto: quella della nostra umanità». Invito, esorto vivamente tutti gli operatori del mondo della comunicazione, quanti fanno dell’informazione, di ogni notizia da dare il seme, le radici, l’albero e i frutti del proprio lavoro, a fare in modo che ogni notizia sia colonizzata dalla dignità umana, sia impastata di umanità. Titoli di alcune testate giornalistiche come “Dopo la miseria portano le malattie” instillano paure che ci possono spingere a vedere non solo nell’immigrato, ma nel povero un untore, una minaccia alla vita, un nemico della vita. I protocolli di sicurezza restano preziosissimi, sono in questo delicatissimo momento storico la voce della legalità e della carità verso il mio prossimo. Lo sappiamo benissimo: il Coronavirus non guarda in faccia nessuno. Sua preda è il ricco. Sua preda è il povero. Un possibile untore sintomatico o asintomatico può diventarlo il migrante temporaneamente sbarcato in un hotspot, l’imprenditore che alloggia nell’attico più lussuoso di qualsiasi metropoli, il turista di un albergo a cinque stelle o di un modesto B&B, il prete di “Barbiana”, il monsignore di una Curia prestigiosissima.
Il Coronavirus non cerca denaro, non ama neanche annidarsi tra le tasche bucate dei poveri: non brucia monete o banconote. Brucia tra le fiamme della sofferenza solo vite umane: uomini, donne, bambini, giovani e anziani. Tante vite destinate a finire nelle fosse comuni senza un nome. Una sorta di muto e al contempo eloquentissimo monito perché di fronte al COVID siamo tutti uguali. Ecco perché costruire o favorire una “narrativa della paura” che leghi l’immigrato al COVID e all’estendersi della pandemia, mi pare sia un imporre velatamente, per certi aspetti quella che Papa Francesco chiama la cultura dello scarto che potrebbe imporsi sempre di più.
Siamo di fronte a delle pericolosissime scintille che possono alimentare quelle che il Presidente della Repubblica ha definito: «le tendenze alla regressione della storia».
Dobbiamo dare voce alla dignità umana col megafono della carità e della solidarietà, scegliere la via dell’integrazione chiedendoci se oggi ghettizzare in un campo, elargire una somma mensile utile per sopravvivere e per sopperire alle spese, sia un tentativo d’integrazione azzeccato.
La “Casa del Mandorlo”: si chiamerà così questa esperienza di accoglienza.
Casa, innanzitutto, perché i nostri fratelli migranti devono essere accolti in una casa dignitosa, se è vero come dice Gesù nel Vangelo, “Ero forestiero e mi avete ospitato”, e non in un hotspot, inteso generalmente con “punto di crisi”. È come dire subito a uno che ha rischiato la vita in mare o è naufrago: “Tu sei un problema” anziché dire “Come stai”?
Il mandorlo, simbolo di speranza nella Bibbia, richiama la nostra terra di Sicilia, terra di approdo dei nostri fratelli, il primo contatto con l’Europa.
ll mandorlo è il primo albero che fiorisce dopo il freddo inverno e annuncia la primavera.
L’approdo in una casa accogliente fa sbocciare i sogni di un futuro diverso.
Ringrazio quanti si sono adoperati alla realizzazione di quest’opera; soprattutto tutta la Comunità di Castelbuono che, sono certo, saprà rispondere generosamente a questa nuova esperienza.
E allora, carissimi fratelli e sorelle, sorretti dalla forza della carità e da un rinnovato slancio missionario, invochiamo su questa Casa e su questo progetto la benedizione del Signore. Amen.
✠ Giuseppe Marciante
Vescovo di Cefalù