Ricordiamo il 14 marzo 1857. Lo facciamo riproponendo un articolo della dott.ssa Daniela Guercio:
Vorrei provare a raccontarvi la grande commozione che ho provato rileggendo alcuni testi del nostro passato, un passato ricco di dolore e pieno di speranza, che i nostri avi ci hanno consegnato, mettendo a repentaglio con consapevolezza la loro stessa vita.
Tutto ebbe inizio nel 1734, quando Carlo di Borbone sottrasse il regno delle Due Sicilie alla dominazione austriaca. I siciliani, inizialmente, furono soddisfatti delle garanzie, promesse dai Borboni, che li avevano liberati dalla condizione di viceregno. Inoltre Ferdinando III, aprendo la sessione parlamentare del 1802, pronunciò un discorso, con il quale si mostrava intenzionato a mantenere la corte a Palermo. La realtà, però, era ben diversa: alla prima occasione la corte di Ferdinando partì alla volta di Napoli, alimentando i dissapori dei siciliani. Da questo momento le tensioni continuarono a crescere e ad alimentare un’atmosfera in linea antiborbonica. Le tre ondate insurrezionali, che colpirono anche la Sicilia, spinsero i Borboni a controbattere con dure repressioni e con la scelta di trasformare l’antico Regno di Sicilia, in una provincia del Regno di Napoli.
A partire da questi ultimi eventi gli esempi di patriottismo sono infiniti e si trovano tra gli archivi nomi di donne e di uomini, che fecero l’impossibile, affinché la Sicilia avesse la sua libertà, vedesse rinascere il proprio orgoglio. Dal 1848 fino all’arrivo di Garibaldi a Marsala, si narrano storie di ogni tipo, ma quella che mi preme raccontare a tutti voi è la storia di una reazione incredibile, che coinvolse alcuni nostri compaesani.
Nel 1857 il barone palermitano Nicolò Turrisi Colonna, ministro nel governo Settimo del ’48, venne a conoscenza, attraverso il racconto di un fabbro di Cefalù, dell’esistenza di uno strumento di tortura terribile, la “cuffia del silenzio”, che bloccava la bocca dei torturati con una mentoniera, affinché non gridassero durante le sevizie. Lo sdegno, anche a livello internazionale, perché la notizia viene pubblicata dal Morning Post, fu tale che bisognò subito correre ai ripari e portare vendetta a chi aveva subito simili trattamenti. Ma di chi si trattava? Erano i detenuti politici, arrestati dopo la repressione della rivolta del novembre 1856.
Francesco Bentivegna era il barone di Corleone, che il 22 novembre 1856 radunò un esercito di 300 armati, con la chiara intenzione di anticipare la rivolta antiborbonica, programmata per il 12 gennaio dell’anno nuovo, in memoria dello scoppio dei moti del ’48. Ma il suo progetto era destinato al fallimento : nel giro di pochissime settimane l’esercito corleonese venne sconfitto e Bentivegna fu catturato e giustiziato il 20 dicembre. Ma il peggio era destinato ad arrivare poco dopo, perché il barone di Corleone era riuscito a coinvolgere il giovane e speranzoso Salvatore Spinuzza, che all’epoca dei fatti era ventottenne, insomma un ragazzo, e che, malgrado la sua giovane età, già da anni si batteva in nome della giustizia e della fine dell’oppressione da parte borbonica. Anche lui sperava in un riscatto, nutriva l’evidente sentimento di riportare in auge l’orgoglio dei siciliani, per secoli tenuti sotto il controllo distruttivo dello strapotere dei potenti, eccetto brevi parentesi, concedendo loro di ritornare a gridare in nome della propria libertà. Così, quasi contemporaneamente alla rivolta guidata dall’amico Bentivegna, Spinuzza riuscì a coinvolgere altri giovani e convins la cittadina ad esporre in bella vista la bandiera tricolore (cucita da Elisabetta e Giuseppina Botta, sorelle di due insorti), come forma di ribellione alla monarchia borbonica. Ciò, però, non fu sufficiente a credere nell’ideale e, quando i Borboni giunsero via mare con la corazzata “Sannio”, cominciando a sparare cannonate, il terrore fece annichilire la cittadina, che corse compatta verso la spiggia, gridando “Viva il Re!” e abbandonando i cinque rivoltosi (Spinuzza, Carlo e Nicolò Botta, Alessandro Guarnera e Andrea Maggio). Non era una novità che la gente di Cefalù, alla presenza di tiranni e potenti, si mostrasse accondiscente (una piaga questa riconosciuta anche nei paesi confinanti). Ciononostante i cinque ribelli riuscirono a scappare, verso le campagne di Pettineo.
Il ricevitore distrettuale, all’epoca dei fatti Vincenzo Fratantoni, vestendo i panni di una donna, si recò a Termini Imerese presso il direttore di polizia Salvatore Maniscalco, svelando dove i rivoltosi cefaludesi si erano nascosti. La reazione contro Fratantoni fu immediata e, anche quando mostrò il desiderio di voler tornare a Cefalù, nel 1861, fu osteggiato da una petizione che lo definiva “Mercante di sangue”, voluta da due dei rivoltosi, scampati alla fucilazione, Carlo Botta e Andrea Maggio.
Le milizie borboniche raggiunsero il nascondiglio dei ribelli e, dopo una feroce sparatoria durata ben nove ore, vennero catturati; a subire forti maltrattamenti furono anche i loro parenti che vennero arrestati e torturati, come accadde al cognato di Andrea Maggio che venne torturato con lo “strumento angelico” (che frantumava le braccia) per due giorni, davanti ai suoi figli di 6 e 10 anni; finirono in carcere anche la madre, Concetta Miceli, e le sorelle, Elisabetta e Giuseppa, dei fratelli Botta e la sorella, Gaetana, di Spinuzza, incinta al sesto mese, che abortì, ma non venne comunque liberata.
Spinuzza, in attesa della condana, fece recapitare alla sorella una ciocca dei suoi capelli e pronunciò un’ultima, ma significativa frase:”Possa il sangue mio e dell’amico Bentivegna essere la salvezza della patria”, parole che contengono tutto l’amore attraverso cui Spinuzza ha mosso i suoi passi e le sue azioni, che lo hanno portato alla terribile fucilazione del 14 marzo 1857, avvenuta in Piazza Garibaldi, proprio dove oggi si trova la statua in suo onore, davanti all’intera popolazione e agli occhi inermi della sua amata, Giovanna Oddo, che al momento dello sparo soffocò il suo terribile dolore.
Per finire, vorrei riportare un piccolo passo, scritto anni fa dalla nostra compaesana Angela D. Di Francesca, all’interno del quale è presente una sacrosanta verità, che, spero, ognuno di noi, faccia sua e coltivi con la stessa intensità, che renda onore e riscatti il triste e ingiusto destino che colpì non solo Salvatore Spinuzza, ma anche tanti altri, uomini e donne, che per amor patrio sacrificarono la loro vita, i loro amori e i loro futuri, quella stessa gente, che ogni giorno dovremmo custodire nei nostri cuori e nelle nostre menti : «Sarà il coraggio dell’onestà quotidiana a creare un futuro più limpido e luminoso, un futuro, dove il sacrificio di chi ha lottato per la sua giustizia abbia un senso assolutamente vincente; un futuro dove accada ancora, e sempre, che vi siano persone che credono fortemente nelle proprie idee, ma dove non accada mai più che le idee debbano essere testimoniate con il sangue altrui o col proprio, che un altro Spinuzza debba scambiare la propria carne viva con il marmo di una statua, la propria parola parlata con la scritta di una lapide».