Intervento del prof. Giovanni C.F. Villa a Pavia in occasione della presentazione della mostra “Oltre lo sguardo” su Antonello da Messina
È il 1894 quando Luca Beltrami porta all’attenzione degli studi un documento, da lui scoperto nell’Archivio di Stato di Milano, che diverrà fondamentale per la storia dell’arte italiana del Quattrocento. Cicco Simonetta, segretario del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, scrive al miles Leonardo Botta, oratore a Venezia, perché voglia convincere il “pictore ceciliano” che vive in quella città a eseguire lavori presso la sua corte:
1476, marzo 9, Vigevano. Dux Mediolani etc. Messer Leonardo. Essendo morto magistro Zannetto nostro pictore quale retraseva dal naturale in singulare perfectione havemo pure volunta de havere uno altro che in simile artifìcio ne satisfaxa. Et pero riavendone portato lo illustrissimo duca de Bari nostro fratello una figura cavata dal naturale per uno pictore ceciliano quale stanzia in quella città quale molto ne è piaciuto volemo che recevuta questa mandate per Aloysio Cagnola mercadante et cittadino nostro milanese che cognosce et è informatissimo del dicto pictore et fatilo condurre da voi. Et li persuaderete con tucte quelle parole ve pareranno expediente che voglia venire da noi con tucte sue cose peroche satisfacendo l’opere sue al nostro desiderio gli faremo tale tractamento che se contentera essere venuto. Et se per il venire suo gli bisognasse denari alcuni, datigli perche ne li faremo respondere secondo voi ne scriverete: fate che omnino vengha da noi. Data Viglevani, die 9 martii 1476 Cichus.
La lettera in risposta di Pietro Bon, con evidenza di data, fissa un anno certo per un’opera capitale, la Pala di San Cassiano, certificando come il 16 marzo 1476 il solennissimo depentore siciliano ammirato dal duca di Milano sia al lavoro per terminare quell’ancona che serà de le più eccellenti opere de penelo in Italia e nel mondo. Sarà terminata dopo ancora venti giorni di lavoro, e poi il pittore sarà libero di andare a Milano:
Illustrissime domine, domine mi eccellentissime. Premessa ogni reverente mia raccomandazione, questo per significar a la vostra illustrissima signoria. Achadendomi a honor de la gloriosa nostra dona farssi una palla nel tempio de san Chasan de Viniexia mia ventura et Idio mediante tal mia bona volontà ho vogiuto ch’el lator de la prexente nominato maistro Antonelo solessimo depentore se trovò in questa zitta al qual non sparagnando denar alchuno dal mese d’avosto prossimamente passato detti tal opera la quale sin questo dì creduta in chotal termine, che in zorni 20 serebe perfeta e finitta: la qual opera illustrissimo mio signor sera de le più eczellenti opere de penelo che habia Ittalia e fuor d’Ittalia. Unde havendo vostra illustrissima signoria gustato de le sue opere per lettre sue a la magnifìzenzia de l’orator suo de qui ha schritto non con puocha instantia ditto maistro dalla eczelenzia vostra con ogni suo inzegnio li persuadi che ‘1 vegni et chonferito li hebe per se per suma bontà e merto de eso maistro desideroxo chompiazer a la eczelentia vostra de haver respeto zircha al fato mio. Io hodendo tal chaxone me chonferii da la magnifìzenzia de l’orator per intender se la requesta dela illustrissima signoria vostra era de sorte che dito pentore potesse finir la pala e poi conferirse a la eczelenzia vostra, unde intexo el desiderio de la serennita vostra chome bon et fìdel servidor suo, persuaxe el ditto maistro dovese senza algun respeto chonpiaxer a la signoria vostra e pertanto suplicho chome minimo servidor de la sublimita vostra e de grazia speziai dimando che la ditta pala posa esser per esso maistro Antonelo finitta, la qual son certo chome signor benigno mi vestirà di sua grazia chome dimando. E meritando per le optime vertu e chondezion de eso maistro Anronelo richomandarlo a la illustrissima signoria vostra reverentemente chomo suo bon servidor quelo richomando, oferendomi quanto so e poso prestissimo ai chomandi de la illustrissima signoria vostra a la qual humelmente me richomando. Data die .XVI. marzo .MCCCCLXXVI. in Venicxia. Petrus Bonus nobilis venetus et servus serenitati vestre.
Galeazzo Maria, trucidato alla fine del medesimo anno, non avrà il pictore ceciliano, negli annali Antonello da Messina, al suo servizio. L’avrebbe voluto per succedere all’appena defunto Zanetto Bugatto, l’apprezzato pittore che la duchessa madre aveva inviato a Bruxelles nel 1460 per perfezionarsi da Rogier van der Weyden. Ne era tornato dopo tre anni di praticantato e aveva poi molto lavorato per gli Sforza, anche con Bonifacio Bembo e Vincenzo Foppa. Tutti impegnati a creare l’immaginario della dinastia anche con una sapiente regia di effigi, senza però mai toccare gli esiti altissimi che faranno il mito di Antonello. Fin dagli esordi impegnato a restituire non un volto, ma l’essenza stessa di una persona. A consegnarci di essa un racconto, una storia, un trattato sull’umana natura. Fermando l’attimo del respiro, cogliendo il fremito di un labbro, la certezza di uno sguardo.
Il nostro secolo ha adorato i ritratti di Antonello: la pittura italiana si è riconosciuta tutta in quegli sguardi, ci siamo tutti identificati nella concretezza di un pittore che ha dato forza e carattere – più di Leonardo? ben più di Leonardo! – ai volti. Esiti cui il giovane messinese giungerà al termine di un tirocinio svolto, a metà Quattrocento, in quel grande crogiolo, luogo d’incontro di civiltà quale fu, e non è più, il bacino del Mediterraneo. La migliore conoscenza della pittura in Catalogna, a Valenza e in Provenza, consentendoci ora di immaginare gli anni di apprendistato di Antonello in nuova luce, liberata dal costringente legame con le Fiandre. In una formazione compiuta in quella Napoli che vive il passaggio tra due corone. Era stato Renato d’Angiò, il re poeta e intellettuale raffinato, il mecenate colto la cui corte era frequentata e composta da pittori e miniatori a lui familiarissimi, ad incrementare le tavole dei ponentini che già arrivavano via mare e circolavano nel gran lago tirrenico. Renato era accompagnato da quei provenzali cui oggi diamo un nome, Barthélémy d’Eyck ed Enguerrand Quarton, che già plasmano una luce più morbida intorno alle rigidità fiamminghe, che diffondono motivi e forme, come l’annunciazione in un edificio di scorcio, l’incoronazione della Madonna, i paramenti nuovamente appoggiati sulle spalle dei grandi dottori della Chiesa. Alfonso d’Aragona non nega quell’eredità, ma con lui arrivano i pittori di Catalogna, formelle, ceramiche e tessuti delle terre iberiche. E maestro Colantonio osserva le une e gli altri, traducendoli in grandi retabli. Mentre gli umanisti intorno a Lorenzo Valla propongono ad Alfonso l’iconografia per il suo Arco di trionfo, capolavoro che è anche manifesto politico, visto e ripensato su quell’Arco di Capua di Federico II che abbiamo disgraziatamente perduto.
In questo contesto Antonello guarda, apprende, dipinge. E deve osservare con attenzione e curiosità quanto giunge della rivoluzione iconografica avvenuta nelle Fiandre, l’abbrivio dato da Jan van Eyck. Se fino a tutto il Trecento i ritratti di personaggi nobili e grandi ecclesiastici erano prevalentemente di profilo a imitazione delle monete romane e il ritratto frontale era riservato ai soggetti sacri, a Cristo alla Vergine e ai santi, a partire dal primo Quattrocento si diffonde in Fiandra il ritratto di tre quarti, fortemente individualizzato nei visi di soggetti nuovi, i rappresentanti di una borghesia in prorompente ascesa. Proprio perché non si tratta di ecclesiastici o uomini di corte, saranno per noi anonimi, riconosciuti soltanto per i particolari con cui oggi li nominiamo: L’uomo con il cappello blu di Sibiu o L’uomo con turbante di Londra oppure il ritratto, ancora dato a van Eyck, recante il motto Leal Souvenir, “fedele ricordo”, che rappresenta l’antecedente primo per le soluzioni che saranno di Antonello: un tre quarti di assoluto realismo, la presenza di un parapetto che fornisce giustificazione ottica, la mano che determina spazialità e profondità. Dell’individuo nessun particolare viene occultato, anzi il realismo esalta aspetti anche sgradevoli come il naso eccessivo, il mento marcato, gli zigomi troppo forti che però restituiscono un’identità che oggi diremmo ‘fotografica’.
Antonello da qui procederà in una direzione subito precisa, diretta e immediata nel suo cogliere l’animo nello sguardo e fissare gli occhi dell’effigiato nei nostri, costruendo un dialogo misterioso ed eterno con lo spettatore in un moto di interesse, empatia, curiosità o timore verso una personalità svelata poi da un moto di labbra, un minimo particolare di cura o di indifferenza. Superando l’impatto enigmatico con i personaggi fiamminghi, dando una personalità individuale e forte, unica e indiscutibile ai suoi ritratti. Chiunque abbia scritto di loro, chiunque li abbia visti ha potuto raccontarli e raccontarsi, descriverli, narrarli e farli agire.
Forse se gli spettatori contemporanei, i visitatori di musei, fossero meno influenzati dalle banalità mediatiche non darebbero tanto rilievo al “sorriso della Gioconda”, alla ritrattistica di Leonardo e ammirerebbero assai più i ritratti psicologici e i giochi emotivi di Antonello, che precede Leonardo di una generazione e realizza, come poi farà Giovanni Bellini, una compiutezza di psicologia che non si trova nel Ritratto di musico o nella Cecilia Gallerani che il toscano proporrà alla metà degli anni ottanta. Una sintesi emotiva, la restituzione di caratteri e personalità di anonimi protagonisti capaci di diventare effigi indimenticabili grazie all’attenzione di Antonello nel non eccedere, nel ridurre al minimo il decoro delle vesti, concentrando l’attenzione in espressioni che lavorano sull’ambiguità di sorrisi vagamente ironici.
Il canone antonelliano si presenta probabilmente alla metà degli anni sessanta del Quattrocento con il Ritratto d’uomo della Pinacoteca di Pavia, una tempera grassa su tavola di noce che immediata evidenzia la volontà di muovere emozioni e farà del siciliano uno dei più grandi ritrattisti di ogni tempo. Poiché nel dipinto Malaspina, orgogliosamente firmato sul basso parapetto a rivendicare il precoce capolavoro, troviamo i dati essenziali del suo operare. Qui l’effigiato, nel moto del capo e con lo sguardo in tralice e l’espressione lievemente ironica, sembra quasi spiare lo spazio dell’osservatore e la nostra reazione. Se le rughe d’espressione e la pelurie mal rasa danno il passo di cosa sarà la ritrattistica del siciliano al suo apice, calibratissima appare la sapienza luministica. La luce proveniente da sinistra, così da non essere tangenziale ma frontale rispetto al busto, garantisce il contrasto sufficiente per staccare con lieve ombreggiatura il profilo del naso e dare un adeguato rilievo alla guancia sinistra, al collo e ai particolari del viso. Il prognatismo con il mento accentuato, le labbra sottili, gli occhi relativamente piccoli, identificano senza indugi i dati fisiognomici dell’uomo, soddisfacendo la richiesta del committente di avere un ritratto personale, che fosse di memoria propria e familiare. Un fatto, per il tempo, nuovissimo: un ritratto allora orientato a definire uno status sociale, non cogliere un carattere.
Una tavoletta, quella abilmente acquistata dal marchese Malaspina, preludio al sofisticato e ironico Ritratto di Cefalù. Subito ammirato e testimoniato da un Giovan Battista Cavalcaselle fausto nel segnalare al barone Enrico Pirajno di Mandralisca, in una lettera da Termini Imerese datata 31 gennaio 1860, che il “solo Antonello da me veduto in Sicilia è il ritratto che ella possiede”. Il celeberrimo Ignoto che la tradizione dava proveniente da Lipari e appartenente alla locale famiglia Parisi, presso cui sarebbe stato lo sportello di un mobiletto da farmacia. Ma con i preziosissimi studi recenti dei Varzi e Dell’Aira1 che inducono a ipotizzare, in un ragionamento il cui avvio è nel sigillo posto sul retro della tavola, essa fosse proprietà da metà Settecento dell’arcidiacono Giuseppe Pirajno, antenato del barone Enrico, e riprenda le fattezze di Francesco Vitale da Noja, vescovo di Cefalù tra il 1484 e il 1492.
Quello che modernamente sarà noto come Ritratto di ignoto marinaio, era stato appassionatamente appuntato e disegnato dal grande conoscitore legnaghese nel suo breve passaggio cefaludese. Cavalcaselle con rapidità ne imbastì i tratti essenziali su di una metà pagina che, piegata, gli permise il ricalco della figura sull’altra metà, così da poterla sondare attentamente. E poi annotare con poche ma vibranti battute. Procedendo dalle suggestioni fiamminghe – dal “colore come Holbein” nel collo, alla “bocca alla Van Eyck” – avverte la radice italiana del “bel chiaro-scuro”, “Masaccio – carattere – allegro – voluttuoso”, dell’uomo di “40 anni?” di cui il disegno mette bene in luce i ciuffi di capelli che, scarmigliati, sbucano di sotto al berretto e dietro l’orecchio. La datazione è dubitativamente posta al “1474?”, con il tratto grafico accorto a segnalare ritocchi, ridipinture e lacune di colore. È l’esegesi determinante del gentiluomo di cui Vincenzo Consolo fissa l’identità in “uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce il futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso”2. A introdurre il quale troviamo l’abito più complesso tra quelli realizzati da Antonello, magistrale nella fattura descrittiva dell’abilissima sintassi cromatica – dal grigio al bruno cupo di un velluto nero dai viraggi tra opaco e lucido – accompagnata ai minuti dettagli delle asole cui fanno da contrappunto i bottoni sgranati e gradati e le naturali pieghe della camicia di lino. Una tensione descrittiva senza più riscontro nelle tavole successive, dove gli effigiati avranno vesti impreziosite solo dai ciuffi di pelo della fodera interna a far capolino dai colletti. Un abito – aulico antenato del cappularo delle Madonie – rivelatore della nobiltà del protagonista, un “baruni” dalla basetta accennata il cui carattere è tratteggiato pure dai ciuffi di capelli che spuntano da sotto allo zucchetto e dalla zazzera ora quasi assorbita dal fondale. É a questa tavola che Leonardo Sciascia dedicherà una riflessione forse conclusiva sulla ritrattistica antonelliana: “Il gioco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza… A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca? Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente assomiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. È un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un pittore un poeta un sicario? Somiglia, ecco tutto”3.
Di certo l’effigiato si compiacque per la scelta del pittore, che era riuscito nella difficilissima arte di rendere insieme ironia al limite del beffardo, sguardo fra il sardonico e il derisorio, ma anche pregevolissimo realismo di fisionomia e di costume.
E tutto questo trent’anni prima, almeno, dell’altro iconico sorriso cui infiniti commentatori l’accostano: quello, ovviamente, della Gioconda di Leonardo.
GIOVANNI C. F. VILLA
Giovanni Carlo Federico Villa è professore di Storia dell’Arte Moderna e direttore del Centro di Ateneo di Arti Visive dell’Università degli Studi di Bergamo; in precedenza è stato professore incaricato di Tecniche diagnostiche per i beni culturali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Studioso di pittura veneta del Rinascimento e museologo, è specialista di tecnologie non invasive applicate ai Beni Culturali e ha orientato tutta la sua attività alla tutela delle opere d’arte attraverso la strutturazione di progetti che hanno saputo porre in dialogo Università, Soprintendenze, Musei, enti pubblici e privati toccando i temi sensibili dell’avanzamento della ricerca tecnico-scientifica in ambito storico artistico accompagnati ad un’intensa attività di divulgazione istituzionale, culminata nella curatela di iniziative espositive per le Scuderie del Quirinale di Roma e il Senato di Francia.
Dal giugno del 1998 al settembre 2004 è stato conservatore presso la Direzione Musei e Conservatoria Civici Monumenti di Vicenza e ha editato, come responsabile e curatore, i primi sei volumi (2001-2012) del catalogo scientifico della Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati di Vicenza.
Dal gennaio 2004 al giugno 2013 è stato coordinatore scientifico delle Scuderie del Quirinale di Roma dove ha coordinato o curato le mostre Antonello da Messina (2006), Giovanni Bellini (2008), Lorenzo Lotto (2011), Tintoretto (2012) e Tiziano (2013). Tra le altre ha inoltre curato le esposizioni Cima da Conegliano. Maître de la renaissance vénitienne per il Musée du Luxembourg di Parigi (2012); Tiziano per il Museo Pushkin di Mosca (2013) e Scolpire gli Eroi. La scultura al servizio della memoria per il Palazzo della Ragione di Padova su incarico dell’Unità Tecnica di Missione della Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’ambito della programmazione espositiva del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia.
Oltre a un’intensa attività di conferenziere e organizzatore di convegni è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni scientifiche.
Su iniziativa del Presidente della Repubblica Italiana gli è stata conferita, in data 2 maggio 2012, l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.