Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’Assemblea plenaria del Consiglio Superiore della Magistratura
Signor Vice Presidente e Signori Consiglieri,
insieme a voi rivolgo un saluto commosso a Lucia Borsellino, ai familiari di Paolo Borsellino e agli altri ospiti oggi intervenuti; con un pensiero ai familiari di Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina, uccisi con lui.
A distanza di poco meno di due mesi – secondo il ritmo dell’orrore scandito dai due attentati di Capaci e di via D’Amelio – presiedo nuovamente l’assemblea plenaria, questa volta per onorare la memoria di Paolo Borsellino.
Come ho già detto in occasione della seduta dedicata a Giovanni Falcone, la rievocazione delle loro figure non può, e non deve, trasformarsi in un rituale fine a se stesso, originato dalle spinte emotive suscitate dall’occasione. E questo ci viene ricordato, ancora una volta, dall’ignobile oltraggio recato al busto di Giovanni Falcone nella scuola di Palermo a lui dedicata. E, ancora ieri, da quello contro la stele che ricorda Rosario Livatino.
Ricordare Paolo Borsellino vuol dire far memoria di come egli visse, interpretò e svolse il suo ruolo di magistrato, costantemente impegnato nella sua terra d’origine per l’affermazione della legalità, con rigore e con determinazione, sempre con noncuranza riguardo alla visibilità per l’attività svolta.
Nel suo percorso professionale Paolo Borsellino, sin dall’inizio, dall’ingresso in Magistratura nel 1964, ha messo in evidenza grandi qualità professionali e altrettanto grande sensibilità umana.
Dopo undici anni, trasferito al tribunale di Palermo entra a fare parte, poco dopo, dell’Ufficio Istruzione, diretto da Rocco Chinnici, il rimpianto per la cui figura è pure struggente, particolarmente in chi lo ha conosciuto.
L’incontro con Chinnici è di fondamentale importanza nella formazione di Borsellino, che stabilisce subito con Chinnici un rapporto umano e professionale molto stretto. Sono questi gli anni in cui si conferma la sua caratura professionale e la sua tenacia nel perseguire le ragioni della giustizia nella sua terra.
L’enorme lavoro dedicato all’istruzione formale del complesso procedimento che culmina nel “maxi-processo” assorbe e caratterizza tutta la vita di Borsellino in quegli anni. Insieme a Giovanni Falcone e ad altri valorosi colleghi vengono sperimentati, con successo, metodi investigativi nuovi e più efficaci, attraverso la condivisione delle informazioni tra i magistrati e con maggiore attenzione verso il potere economico delle cosche, il settore degli appalti e quello dei movimenti bancari.
Attraverso questo nuovo metodo, fondato sulla condivisione delle informazioni, sul lavoro di gruppo, sulla specializzazione dei ruoli, l’ufficio istruzione di Palermo raggiunge, in quel tempo, risultati processuali di rilievo inedito, resi possibili grazie alla capacità di valorizzare i criteri dell’efficienza e del coordinamento.
E in questo contesto, le esperienze di Paolo Borsellino come giudice civile e penale, giudicante e requirente, si sono rivelate un punto di forza, imprimendo alla sua attività istruttoria una connotazione di particolare solidità probatoria.
Nel 1986 Paolo Borsellino assunse la direzione della Procura della Repubblica di Marsala e nel marzo del 1992, alla vigilia delle stragi mafiose, tornò a Palermo perché nominato Procuratore Aggiunto.
Anche quando emersero profonde divergenze di vedute all’interno dell’ufficio istruzione di Palermo, non più diretto da Antonino Caponnetto, Paolo Borsellino – pur non facendone più parte – si adoperò, con grande impegno, per evitare che si lacerasse l’ufficio, per non disperdere il patrimonio di conoscenze e di esperienze che era maturato nel gruppo di magistrati che avevano dato vita al pool antimafia.
Il metodo di lavoro era per Borsellino un patrimonio prezioso perché basato sulla collaborazione fra un gruppo di colleghi affiatati, in grado di condividere conoscenze e prassi attraverso una costante e reciproca verifica degli orientamenti, al fine di arrivare all’adozione congiunta dei provvedimenti più rilevanti.
Questo patrimonio di esperienze si è poi tradotto in prassi diffuse e in nuove normative che hanno consentito di far assumere alla lotta alla mafia i connotati della concretezza, incisività ed efficacia, oggi riconosciuti in tutto il mondo. Ma è bene ricordare che negli anni ’80 questo metodo rappresentava l’innovazione più significativa nell’esperienza giudiziaria, cui occorre ancora guardare per trarre spunto e ispirazione nella direzione di un impegno unitario dell’azione giudiziaria.
Nell’attività professionale di Paolo Borsellino colpisce non soltanto l’altissimo livello di professionalità, ma anche il suo spirito di abnegazione, che si rinviene nel suo modo di “vivere” il ruolo di magistrato.
Il percorso professionale di Borsellino è lo specchio del suo modo di essere. La naturale disposizione ad ascoltare, fondata su un reale rispetto dell’interlocutore, l’innata inclinazione a motivare i suoi collaboratori, l’indiscussa capacità di consigliare, il rigore morale sono qualità che, prima ancora di caratterizzare il suo impegno professionale, ne hanno distinto il profilo umano.
Paolo Borsellino non si è mai arreso, non ha mai rinunciato a sviluppare il suo progetto di legalità, anche quando era diventato ormai consapevole di essere vittima predestinata della mafia. Come disse ad un giornalista, sapeva di camminare “con la morte attaccata alla suola delle scarpe”.
Paolo Borsellino ha combattuto la mafia con la determinazione di chi sa che la mafia non è un male ineluttabile ma un fenomeno criminale che può essere sconfitto. Sapeva bene che, per il raggiungimento di questo obiettivo, non è sufficiente la repressione penale ma è indispensabile diffondere, particolarmente tra i giovani, la cultura della legalità.
Proprio per questo era impegnato molto anche nel dialogo con i giovani, convinto che la testimonianza di valori positivi promuove una società sana e virtuosa, in grado di emarginare la criminalità. Il 19 luglio di venticinque anni fa, alle cinque del mattino, stava proprio scrivendo la risposta a una lettera inviatagli dalla preside di un liceo di Verona. La missiva è rimasta incompiuta ma costituisce una testimonianza di grande forza dell’importanza della formazione delle nuove generazioni.
La sua tragica morte, insieme a coloro che lo scortavano con affetto, deve ancora avere una definitiva parola di giustizia. Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di Via D’Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato.
Oggi ricordiamo Paolo Borsellino non perché è stato assassinato ma perché ha vissuto in maniera autentica il suo servizio allo Stato, con coraggio, con dedizione e con tenacia, facendo della mitezza d’animo uno dei suoi punti di forza.
A lui il Paese è riconoscente per la testimonianza che ha reso, per il sacrificio a cui è stato sottoposto e, con lui, la sua famiglia, per il grande senso di umanità, di giustizia, di speranza che ha permeato tutta la sua esistenza, dedicata, con efficacia straordinaria, all’obiettivo che la Sicilia e l’Italia fossero liberate dalla mafia.
Con convinzione quindi il Consiglio Superiore ha deciso di ricordarlo con le modalità che adesso saranno illustrate dal Vice Presidente, cui do la parola.