Sono sette le azioni concrete attraverso le quali si riconosce la mafia. Le indicano i vescovi di Sicilia a 25 anni dal grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento. Ecco le sette azioni mafiose: Ipotecare la vita di intere comunità. Ricattare le coscienze di tanti e a manipolarne le scelte. Guadagnarsi con perversi contraccambi l’appoggio di molti altri poteri forti e occulti. Inquinare la politica e la pubblica amministrazione. Frenare lo sviluppo economico deviandolo verso finalità illecite e piegandolo a privati tornaconti. Minare in vari modi la libera convivenza. Attentare al bene comune, a rubare dai cuori degli onesti la speranza in un futuro migliore.
Un potere quello mafioso che per i vescovi siciliani è stato «capace, finanche, di indurre qualche ministro di Dio, pavido e infedele, a dimenticare il dovere di resistere ad ogni costo a ciò che è contrario al Vangelo».
La nuova condanna della mafia da parte dei presuli siciliani arriva ancora da Agrigento. La celebrazione si è svolta davanti al Tempio della Concordia di Agrigento, nel giorno esatto in cui si ricordano i 25 anni del grido di papa Wojtyla contro la mafia. A presiedere il rito il cardinale Francesco Montenegro, insieme i vescovi di Sicilia che hanno consegnato una lettera che ribadisce l’incompatibilità della mafia con il Vangelo. All’inizio della celebrazione il cardinale Montenegro ha letto un messaggio di papa Francesco: un forte incoraggiamento ai pastori e ai fedeli siciliani a camminare sulla via tracciata dal beato Pino Puglisi nella lotta alla mafia. «In occasione del 25° anniversario della visita di San Giovanni Paolo II ad Agrigento, quando al termine della Messa nella Valle dei Templi egli pronunciò la profetica invettiva contro la mafia e l’appello ai mafiosi a convertirsi – si legge nel testo -, il Santo Padre Francesco rivolge il suo fraterno saluto ai pastori e ai fedeli di codesta Chiesa particolare e di tutta la Sicilia, radunati in preghiera e riflessione, e li incoraggia a camminare uniti sulla via abbracciata dal beato don Pino Puglisi e da quanti come lui hanno testimoniato che le trame del male si combattono con la pratica quotidiana, mite e coraggiosa, del Vangelo, specialmente nel lavoro educativo in mezzo ai ragazzi e ai giovani».
Convertitevi è il titolo della lettera che i vescovi di Sicilia consegnano alle comunità. La Lettera propone cinque punti di riflessione: “Quel grido sgorgatomi dal cuore”; “Il timbro profetico dell’appello”; “Il discorso ecclesiale sulle mafie”; Un invito a “prolungare l’eco dell’appello”; e infine “Un’ultima parola da rivolgere tutti insieme al Signore giusto e misericordioso”.
Quel grido sgorgatomi dal cuore
La Lettera riprende le parole del Papa polacco leggendole all’interno del suo terzo viaggio apostolico in Sicilia. I vescovi ricordano le tante vittime della mafia, una «triste litania, troppo lunga per essere recitata a memoria», di «leali servitori delle istituzioni e non pochi coraggiosi esponenti della società civile» che hanno lottato «contro la morsa di un potere maligno e abusivo». Nella lettera i vescovi indicano le azioni concrete riconducibili alle opere della mafia: ipotecare la vita di intere comunità; «ricattare le coscienze di tanti e a manipolarne le scelte; guadagnarsi con perversi contraccambi l’appoggio di molti altri poteri forti e occulti; inquinare la politica e la pubblica amministrazione; frenare lo sviluppo economico deviandolo verso finalità illecite e piegandolo a privati tornaconti; minare in vari modi la libera convivenza; attentare al bene comune, a rubare dai cuori degli onesti la speranza in un futuro migliore. E senza negare che questo potere è stato «capace, finanche, di indurre qualche ministro di Dio, pavido e infedele, a dimenticare il dovere di resistere ad ogni costo a ciò che è contrario al Vangelo».
Il timbro profetico di quell’appello
Confesserà Giovanni Paolo II, prima a un gruppo di pellegrini siciliani il 22 giugno del 1995 in udienza in Vaticano, e poi nel novembre del 1995 a Palermo, al Convegno delle Chiese d’Italia: «È stato un grido sgorgatomi dal cuore». I vescovi denunciano ancora una volta apertamente di che peccato si tratta: «Peccato è l’omertà di chi col proprio silenzio finisce per coprirne i misfatti, così facendosene – consapevolmente o meno – complice. Peccato ancor più grave è la mentalità mafiosa, anche quando si esprime nei gesti quotidiani di prevaricazione e in una inestinguibile sete di vendetta. Peccato gravissimo è l’azione mafiosa, sia quando viene personalmente eseguita sia quando viene comandata e delegata a terzi». Le organizzazioni mafiose, continuano i vescovi, sono strutture di peccato che «producono quello che san Paolo chiamava il «salario del peccato», cioè la morte (Rm 6,23), «la morte radicale, che rimarrà – nel momento supremo del giudizio di Dio – inconciliabile con la vita eterna».
Una condanna senza riserve
Tra gli effetti positivi del vigoroso grido profetico di san Giovanni Paolo II i Pastori di Sicilia rilevano la «metamorfosi del discorso ecclesiale sulle mafie» con l’assunzione della mafia come «questione ecclesiale ed ecclesiologica». La mafia interpella la Chiesa nella sua «consistenza storica» e «presenza sociale» e anche a riguardo della «immagine che di sé essa offre».
Il discorso ecclesiale sulle mafie
I Vescovi siciliani con alcune annotazioni indicano gli effetti positivi di questo mutato clima ecclesiale a partire dai pronunciamenti della conferenza episcopale italiana e delle diocesi del meridione. Innanzitutto si è “rotto il silenzio”, si sono «prese le distanze dal silenzio […] ambiguamente mantenuto in pubblico sul fenomeno mafioso». Ma per offrire un reale contributo profetico è necessario riprendere, utilizzare e far risuonare le parole stesse del Vangelo: «Privo di un suo timbro peculiare, il discorso ecclesiale riguardante le mafie rischia così di essere più descrittivo che profetico». Serve dunque «un lessico peculiare» e «una metodologia formativa per piccoli e grandi, per giovani e adulti, per gruppi e famiglie, nelle parrocchie e nelle associazioni, con una sistematica catechesi interattiva, il più possibile “pratica” e “contestuale”». In seno alla Chiesa, i vescovi di Sicilia, auspicano «una conversione dalle parole ai fatti», così come hanno testimoniato padre Pino Puglisi e il giudice Rosario Livatino.
Prolungare l’eco dell’appello
La Lettera si chiude con un rinnovato appello che di fatto prolunga quello offerto da Giovanni Paolo II venticinque anni prima. I Vescovi si rivolgono ai familiari delle vittime di mafia, alle persone credenti e di buona volontà, agli uomini e donne di mafia. Ribadiscono l’invito alla conversione e lo integrano aggiungendo pure l’appello dell’udienza del 21 febbraio 2010 di Papa Francesco: «Aprite il vostro cuore al Signore. Il Signore vi aspetta e la Chiesa vi accoglie». E infine quello del martire Puglisi dell’omelia del 20 agosto 1993, nella chiesa parrocchiale di San Gaetano, a Palermo: «Mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile».