Si sa che per canto «a cappella» si intende un inseguirsi di voci. È un po’ quanto si è azzardato e con pieno successo fatto ora in architettura. Sono state edificate non una, ma dieci cappelle, sull’isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia: le cosiddette cappelle vaticane, uno straordinario padiglione nell’ambito della biennale di architettura, che si colloca al tempo stesso fuori di essa. Fuori dal suo perimetro, fuori dal suo biglietto di ingresso, in quanto qui l’accesso è gratuito.
Perfino in qualche modo al di fuori della sua logica, perché questa architettura la si è realizzata — in modo discreto rispettoso e diradato — invece di progettarla, soppesarla, insegnarla, rincorrerla, metterla in concorrenza, autorizzarla o bocciarla, escluderla o premiarla nei concorsi. Si è proceduto a inviti. Dichiarandola e volendola temporanea, rada, realizzandola senza tagliare un ramo. Finalizzandola non alle funzioni, ma a suscitare stati d’animo, sentimenti.
Non sono innovazioni o recuperi da poco. Insomma occorre guardare anche alla luce che sorge, sia pure in un’epoca che di luci ne spegne tante e indebitamente, senza una vera ragione. L’annuncio è stato dato con largo anticipo a Roma, grazie all’Accademia di San Luca, a iniziativa di Francesco Moschini. La cornucopia attivata è davvero degna di attenzione.
C’è il nuovo frutto di un cantiere che può dirsi gotico e rinascimentale a un tempo, oggi in Italia: un nuovo campo dei miracoli. È un tumulto che può essere frainteso, può essere interpretato quasi come sovversivo. Ma trasuda invece l’accoglienza affettuosa di un porto sicuro. Veneto, anzi veneziano.
La città lagunare ospita una sezione fraterna della biennale che potrebbe tuttavia scherzosamente e letteralmente dirsi di unità proletaria. Per vederla, lo si è detto, non si paga. È costruita come in antico con la passione dei singoli che diventa passione comune. A sorgere poi, altra eccezionalità, sono i padiglioni extraterritoriali di un solo stato estero che non compete con gli altri, ma all’occorrenza volentieri li serve, li rappresenta e comunque li attende a braccia aperte: la Santa Sede, che non vuole vincere ma soccorrere.
Una chiesa aperta e molteplice che a cominciare dagli artisti accoglie tutti. Non richiede adesioni, sottomissioni, riverenze o inchini. È la chiesa postconciliare. La chiesa del cielo. Sono nuove ma sono già reliquie queste cappelle che cercano scultori e pittori che sappiano coronare, assieme agli architetti, una riscoperta dell’unità delle arti. Regista il cardinale Gianfranco Ravasi, direttore d’orchestra Francesco Dal Co, sceneggiatura di Renata Codello, poi undici compositori, esecutori e interpreti. Produzione della Fondazione Cini. Uno spettacolo.
L’architettura davvero, come avvertono da secoli i filosofi, può essere musica di pietra. C’è entusiasmo nell’aria a Venezia. Si sono costruite in tutta fretta undici sale senza il rombo di una sola betoniera: architettura effimera, sola e pura scenografia, si potrebbe pensare.
La provvisorietà in effetti è voluta e dichiarata, ma resta tutta da dimostrare. Ad esempio per gli appoggi a terra non si sono realizzati plinti gettandoli in opera, né si sono posati elementi prefabbricati: si è tornati ai pali di legno battuti. Si può auspicare e prevedere un benefico contagio nel costruire di tutti i giorni, come al tempo dei comuni, come in antico, sino alle prime città, sino alle mura di Gerico, costruite tra il 2900 e il 2300 prima dell’era cristiana (ritenuta la madre delle città, anche se all’ottavo millennio avanti risalgono i primi resti rinvenuti della città di Ugarit, nel nord della Siria): l’architettura di tutti realizzata da tutti.
Tornando a tempi meno remoti, siamo quasi tradotti sull’isola di Utopia di Tommaso Moro, con il privato che diventa iperpubblico, nell’uso e nell’arte del fare. Non ci sono spettatori, non c’è platea che non sia il bosco intatto. Una lode. Solo palco: un teatro. Termine che in lingua francese significa anche cantiere. Qui si è recitato a soggetto. L’unico caso forse — o uno dei pochi — nel quale si poteva quasi sperare che per l’inaugurazione i lavori non fossero davvero finiti. E non per amore di opere incompiute, ma per partecipare tutti al da farsi, per godere di questo straordinario cantiere tra gli alberi che non li taglia, ma respira con loro. Queste brevi notizie e considerazioni possono quindi concludersi come in una favola a lieto fine, rassicurando chi si preoccupa.
C’era una volta, quasi quarant’anni fa, a Venezia il «teatro del mondo», un’isola galleggiante, la dolcissima île flottante di Aldo Rossi. Tutti svaniamo. Ora non c’è più. Era — già allora — un monumento all’effimero nostro, del nostro tempo e più in generale di tutte le persone, che tutti abbiamo la nostra parte per poi scomparire. Tutti svaniamo. Anche Aldo Rossi, anche il suo teatro, coerentemente, sono scomparsi.
È oggi sorta a San Giorgio l’isola del cosmo. Per dare forma alla percezione del divino, all’idea di assoluto, a questo tutto che è inafferrabile, ma che nel corso del tempo l’umanità percepisce esistere e continuamente rappresenta e che torna ora quasi a galleggiare come quel teatro mobile scomparso, tra l’acqua e il cielo.
È una chiesa capace di dirsi provvisoria, in cammino: per accogliere tutti, per riunire tutti. Queste nuove cappelle, alcune anche fisicamente senza porte e chiusure, guardano quasi, nella loro complessiva regia, alle tre tende. Sono dieci come la legge mosaica, ma, includendo il padiglione vero e proprio, sono stati costruiti undici edifici. Un numero indivisibile se non nell’unità, come sono undici — di quattordici consolidate nella tradizione — le stazioni, lungo la via della passione, descritte nei vangeli.
Undici come gli apostoli riuniti a porte chiuse. Un endecasillabo come un verso della Divina Commedia. Dieci o undici, come le cose che si potevano contare a occhio nudo in cielo: il sole, la luna, i cinque pianeti visibili, le stelle fisse, quelle cadenti (o meteore), le comete. E perfino buoni ultimi, come aspiranti noi, con tutto il mondo, abbiamo infine spiccato il volo. Questo nuovo transitorio osservatorio del cosmo, ancora quasi non è consacrato ed è già una reliquia. Esprime con discrezione la forza e il coraggio di guardare avanti e indietro. Testimonia una capacità servizievole e mite. Come, citando la notte di Michelangelo e guardando alla nuova isola, ha detto a Roma Paolo Portoghesi di Aldo Rossi, «parlando basso».
di Francesco Scoppola, l’Osservatore Romano