Francesca Porreca, direttore Musei Civici di Pavia.
Oltre lo sguardo. Ritratti allo specchio
L’eccezionale possibilità di ospitare nelle sale dei Musei Civici di Pavia il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, abitualmente conservato presso la Fondazione Mandralisca di Cefalù, ha portato ad ipotizzare un’operazione più ampia, in primis per sottolineare l’importanza dei ritratti del maestro siciliano, poi per fare un ragionamento sulle opere degli artisti lombardi presenti nelle raccolte civiche.
La collezione Malaspina costituisce il nucleo primigenio dei Musei Civici di Pavia: aperta al pubblico già nel 1838, fu inizialmente collocata – secondo l’ordinamento previsto dal suo artefice – all’interno dello Stabilimento di Belle Arti, progettato e fatto costruire appositamente dal marchese Luigi Malaspina di Sannazzaro (1754 – 1835). Il marchese aveva già formulato compiutamente il suo pensiero in merito a “i tanti buoni quadri” da lui posseduti e alla necessità che tale raccolta fosse pensata, integrata e ordinata secondo un preciso intento: quello dimostrativo, paradigmatico dell’evoluzione della pittura per eccellenti esempi, dagli esordi al Rinascimento delle arti fino alla massima espressione dei geni innovatori e di quanti ne hanno portato avanti la lezione. Il testamento del marchese (rogato il 3 giugno 1833) stabiliva l’inalienabilità delle collezioni d’arte, che dovevano essere collocate nel nuovo palazzo da lui appositamente progettato, aperto al pubblico in giorni e orari predeterminati, e posto sotto la tutela del Podestà della città. La raccolta, consistente in 349 dipinti e oltre 5.000 stampe, oltre ad altri oggetti di varie tipologie, rimase nello Stabilimento di Belle Arti fino alla morte del nipote del marchese. Negli anni Settanta del Novecento, tutte le opere furono trasferite presso il Castello Visconteo. L’allestimento fu affidato all’architetto Bruno Ravasi e le sale vennero inaugurate nel 1980 con l’intitolazione al marchese Malaspina. La Pinacoteca si è poi nel tempo arricchita grazie ad ulteriori legati e donazioni, ma il nucleo principale rimane quello appartenuto al Marchese.
La collaborazione con la Fondazione Culturale Mandralisca di Cefalù è nata con l’obiettivo di valorizzare le collezioni dei nostri istituti, accomunati dal ruolo determinante di due illuminati collezionisti: il marchese Luigi Malaspina di Sannazzaro a Pavia e il barone Enrico Pirajno di Mandralisca a Cefalù, convinti assertori della funzione educativa dell’arte, che i nostri Musei hanno portato avanti nel tempo. A ciò si aggiunge il prestigio di conservare due straordinari ritratti maschili di Antonello da Messina, che consentono di avviare una riflessione sull’evoluzione del genere del ritratto attraverso le nostre collezioni.
All’interno della Pinacoteca sono stati quindi selezionati alcuni dipinti in grado di presentare le caratteristiche della pittura in Lombardia e nelle Fiandre a metà del Quattrocento: il percorso inizia con due Madonna col Bambino, la prima di Hugo Van Der Goes, la seconda di un pittore lombardo. In entrambe si nota la presenza del fondo oro, retaggio della pittura dei secoli precedenti, che dà luminosità e colloca la scena in una dimensione astratta e mistica. Si prosegue poi con una serie di tondi che raffigurano esponenti della casata visconteo-sforzesca: nel ritratto, rigorosamente di profilo, con finalità celebrativa e commemorativa, si nota la ripresa di modelli classici (soprattutto monete e medaglie antiche) mediati della cultura umanistica. Questo genere si diffonde rapidamente nelle numerose corti e signorie italiane, tra cui quella visconteo-sforzesca, al fine di rappresentare la potenza e la ricchezza dei Signori, ed esaltarne le virtù e le imprese.
Le grandi pale d’altare dei maestri del Rinascimento lombardo rappresentano una sintesi tra questi modelli e una nuova concezione dell’uomo nel suo spazio reale. La Pala Bottigella di Vincenzo Foppa – originariamente collocata nella cappella gentilizia della famiglia nella chiesa di San Tommaso a Pavia – è uno straordinario esempio di una sapiente costruzione prospettica di un interno affrescato in cui si muovono una serie di personaggi (santi, beati, donatori) intorno alla Madonna col bambino. Il linguaggio di Foppa è caratterizzato da una particolare plasticità, dall’interesse per la natura e per la luce e dagli influssi della pittura fiamminga, sviluppati nel senso di una nuova e solenne spazialità, che amplifica la straordinaria verità delle scene e dei personaggi raffigurati. Tutti sono definiti con estrema naturalezza, a partire dalla Madonna, in atteggiamento affettuoso verso il proprio bambino che tenta di liberarsi dall’abbraccio per giocare col copricapo di Giovan Matteo Bottigella. I quattro santi (Matteo, Giovanni Battista, Stefano, Gerolamo) dialogano tra loro ai lati del trono, mentre i due committenti (Matteo Bottigella e la moglie, Bianca Visconti) sono presentati alla Vergine rispettivamente dal beato Domenico di Catalogna, fondatore del nuovo Ospedale San Matteo di Pavia, e dalla beata Sibillina de’ Biscossi, il cui corpo miracolosamente intatto si trovava nell’altare della cappella. I quattro personaggi sono dipinti di profilo a figura intera, con abiti e gioielli che attestano la loro condizione sociale.
Il Cristo portacroce e monaci certosini di Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, interpreta il tema della crocifissione con un inedito ritratto corale dei monaci e uno scorcio paesaggistico del monastero della Certosa ancora in costruzione. L’opera – nonostante le lacune provocate dall’essere stata impiegata come tramezzo in una cascina – presenta preziosi accenti cromatici e un finissimo ductus pittorico, in particolare nelle vesti e negli incarnati emaciati e diafani dei monaci, parte integrante del linguaggio formale del pittore. Le atmosfere dolcemente famigliari in cui vivono le figure, la narrazione commossa e densa di annotazioni che rimandano alla realtà, la ricerca luministica, appartengono ai canoni del naturalismo lombardo. Il legame con il cantiere della Certosa, raffigurata nel dipinto in una particolare fase costruttiva, è determinante per Bergognone, che fu attivo nella realizzazione degli affreschi e delle pale d’altare del monastero a partire dal 1488. Per questo motivo, il pittore sicuramente conosceva bene i frati che abitavano nel monastero e li ha inseriti nel dipinto, curando in particolare le espressioni del volto e l’atteggiamento di ciascuno.
Al tema della crocefissione fanno riferimento altre due piccole tavole: il Cristo portacroce tra due manigoldi denota una probabile ascendenza leonardesca nei volti dei due aguzzini ai lati di Cristo, accostabili ai ritratti grotteschi del fiorentino; il Cristo coronato di spine, di ambito fiammingo, è entrato nella collezione del marchese Malaspina con una lusinghiera attribuzione a Dürer, sulla base della preziosa qualità della stesura pittorica (in particolare, i dettagli delle lacrime e delle gocce di sangue, ma anche le spine della corona e lo sguardo intenso) e di un monogramma “AD” messo in luce da un restauro. La raffigurazione rigorosamente frontale del viso di Cristo, sia come Ecce homo coronato di spine, sia come epifania del Sacro volto, ebbe larga diffusione specialmente nelle Fiandre, in un contesto devozionale.
Il Trittico di San Lazzaro è invece una pala d’altare a scomparti, proveniente dall’oratorio di San Lazzaro a Pavia. Nella tavola centrale sono raffigurati la Madonna con il Bambino e il beato Martino Salimbene; il Santo vescovo va invece identificato con San Lazzaro mentre nel soldato si può riconoscere San Maurizio. La cornice, sovrapposta alle tavole dipinte, presenta una tipologia comune in ambito lombardo tra l’ultimo decennio del XV e l’inizio del XVI secolo. L’opera è stata completata in due momenti diversi: alla fase più antica, entro la fine del Quattrocento, appartengono la struttura lignea della cornice intagliata e la tavola centrale, che comprende la Madonna col Bambino e la Pietà della cimasa. Le tavole laterali e la cornice con la predella sono state aggiunte in seguito: come riferimento cronologico vale la data 1576 riportata sui pilastrini. L’autore potrebbe essere un artista pavese (si è avanzato anche il nome di Bergognone).
All’apice della ritrattistica della seconda metà del Quattrocento si colloca il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina. Nel catalogo manoscritto della sua raccolta, il marchese Malaspina aveva da subito attribuito ad Antonello il “Ritratto in busto col nome unito al dipinto, ad olio. Pezzo assai raro” e scrive che “il quadro di cui si tratta è un ritratto che credesi il suo, fatto da se medesimo, ove trovasi il di lui nome fuso nel dipinto assai ben eseguito e che mostra d’esser assomigliantissimo”. In effetti, sul finto parapetto è posta la firma “ANTONELLUS MESSANEUS PINXIT”. Si tratta del primo ritratto noto dell’artista, che qui inizia a sperimentare una pittura nuova, basata sulla rappresentazione minuziosa del vero e delle sue declinazioni, sulla scorta di quanto faceva nelle Fiandre Van Eyck.
È interessante mettere a confronto la prima prova di Antonello, in cui le labbra del giovane uomo si increspano in un sorriso abbozzato e lo sguardo ceruleo cerca i nostri occhi con una certa timidezza, con il Ritratto di ignoto del Museo Mandralisca di Cefalù, in cui il protagonista ha un’espressione di sfida nei nostri confronti, come a voler ribaltare il rapporto con lo spettatore: è lui che scruta noi e sorride spavaldo, eliminando così la quarta parete che ci separa. Il dipinto diventa uno specchio, che ci consente di identificarci nell’opera, oltre lo sguardo, oltre il tempo e lo spazio.
La ritrattistica di ambito leonardesco si caratterizza anch’essa per una particolare volontà introspettiva e per l’interesse per i dettagli della fisionomia. Il Ritratto di dama in veste di santa, già attribuito a Boltraffio, rispecchia pienamente questa impostazione, utilizzando un registro sensibile e psicologicamente complesso per raffigurare la protagonista, caratterizzata dall’elegante espressività del volto e dall’attenzione per la luce e i contrasti chiaroscurali. Il Ritratto del medico Cesare De Milio, contraddistinto dal taglio numismatico di profilo e dall’inusuale inserto della natura morta, va accostato alla produzione di Bernardino de’ Conti, abile ritrattista della corte sforzesca e poi di quella francese, apprezzato per la sua aderenza al vero e per il modo particolare di trattare le ombre.
Accanto a questi dipinti, si può annoverare il Ritratto d’uomo di ambito veronese, in cui il protagonista si staglia su un paesaggio caratterizzato dalla resa minuziosa dei dettagli, accostati senza rispetto per le proporzioni. Interessante è il tavolo, dove sono appoggiati alcuni oggetti: un vassoio con un calamaio, una barretta di ceralacca e un sigillo; sotto il vassoio alcuni fogli scritti in latino alludono alla caducità della vita, sottolineando le virtù intellettuali dell’effigiato. L’abbigliamento è simile a quello indossato dai podestà inviati da Venezia ad amministrare i piccoli o medi centri della terraferma.
Anche il protagonista del dipinto realizzato nella bottega del pittore Jean Clouet è un personaggio importante: si tratta di Francesco I, re di Francia dal 1515, il cui regno fu caratterizzato dalla ripresa delle guerre d’Italia e dalla grande rivalità con Carlo V. Clouet divenne pittore di corte nel 1516, quando era famoso per la delicatezza minuziosa con cui ritraeva i più illustri personaggi del suo tempo. Il ritratto, di trequarti, presenta alcuni dettagli dell’abito e del copricapo che contribuiscono a suggerire l’identità al personaggio. Il protagonista ci guarda, è sicuro di sé e si rivolge a noi. Francesco I è strettamente legato alla città di Pavia, poiché qui fu sconfitto e fatto prigioniero durante la Battaglia del 24 febbraio 1525, combattuta contro le truppe spagnole per il governo del territorio. Lo scontro segnò la fine di un’epoca, cambiando la geografia politica dell’Europa e consegnando di fatto la Lombardia alla Spagna.