La Rivolta del “Sette e Mezzo”: una pagina dimenticata della Storia siciliana

Il 15 settembre 1866, i cittadini di Palermo scesero in piazza, ribellandosi contro le ingiustizie […]

Il 15 settembre 1866, i cittadini di Palermo scesero in piazza, ribellandosi contro le ingiustizie e la repressione perpetrate dal governo dei Savoia. Questa sollevazione, conosciuta come la “Rivolta del Sette e Mezzo” per la sua durata di sette giorni e mezzo, fino al 22 settembre, è spesso ignorata dai libri di storia ufficiali, ma rimane un simbolo della resistenza siciliana contro la prepotenza dei governi centrali.

Le cause della Rivolta

La Sicilia, già da tempo, nutriva un malcontento diffuso verso il Regno d’Italia, nato solo sei anni prima. Il popolo siciliano si era accorto che il nuovo governo non rappresentava la promessa di libertà attesa. L’assolutismo borbonico, contro cui molti avevano combattuto durante l’impresa garibaldina, era stato semplicemente sostituito da un nuovo regime altrettanto oppressivo, che continuava a proteggere gli interessi delle stesse classi aristocratiche e terriere.

Le condizioni di vita per la maggior parte della popolazione siciliana erano peggiorate dopo l’Unità d’Italia. La nuova classe dirigente piemontese impose tasse gravose, come la famigerata tassa sul macinato, introdusse la leva obbligatoria e attuò politiche repressive che colpivano duramente i ceti popolari. Renitenti alla leva, contadini delusi dalle mancate riforme agrarie, ecclesiastici espropriati, artigiani e borbonici licenziati si unirono per dare vita a un’insurrezione trasversale che coinvolse vari strati sociali.

Palermo, nelle settimane precedenti la rivolta, era già un campo di preparazione. Le famiglie si rifornivano di beni di prima necessità, mentre i carretti si muovevano incessantemente per le strade della città, trasportando provviste. Falò minacciosi si accendevano sui colli che circondavano la Conca d’Oro, segnale inequivocabile dell’imminente rivolta. Nella notte tra il 15 e il 16 settembre, vennero erette le prime 65 barricate e all’alba del 16 la rivolta scoppiò.

Una Rivolta Popolare

Contrariamente alla narrazione ufficiale che descrive la rivolta come opera di “briganti” o nostalgici dei Borbone, il movimento del Sette e Mezzo coinvolse quasi tutte le classi sociali. Vi parteciparono repubblicani socialisti eredi del partito di Giovanni Corrao (assassinato dai savoiardi tre anni prima), artigiani, contadini delusi dalle promesse non mantenute di Garibaldi e numerosi disoccupati. Le false promesse di distribuzione delle terre, i licenziamenti di ex funzionari borbonici e l’introduzione del “lasciapassare per il lavoro”, che limitava la mobilità e l’occupazione, alimentarono il fuoco della rivolta.

Persino Giuseppe Garibaldi, eroe del Risorgimento, ammise in una lettera del 1866 che, se fosse tornato in Sicilia, sarebbe stato accolto con sassate. Questo sentimento era emblematico del tradimento che molti siciliani percepivano. Coloro che avevano combattuto al fianco di Garibaldi nel 1860 si ritrovarono ora a dover combattere contro il nuovo regime.

La Repressione brutale

La reazione del governo italiano non tardò ad arrivare. Le forze locali, tra cui la Guardia Nazionale e il generale Calderina, non furono in grado di controllare la situazione, e il governo inviò oltre 40.000 soldati per reprimere la rivolta. A capo di questo massiccio intervento militare c’era il generale Raffaele Cadorna, che ordinò una violenta repressione.

Il bombardamento di Palermo dal mare da parte della flotta italiana devastò mezza città, causando centinaia di morti e migliaia di feriti tra i civili. Le truppe sabaude, una volta ristabilito l’ordine, non mostrarono alcuna pietà. Testimonianze dell’epoca raccontano di esecuzioni sommarie e fucilazioni di massa. In molti casi, i prigionieri furono trucidati senza processo, e intere famiglie furono decimate. Alcuni cronisti dell’epoca, come il console francese, lodarono il comportamento dei rivoltosi per non essersi abbandonati a saccheggi o vendette, ma le forze sabaude misero in atto una vera e propria carneficina.

La repressione culminò con l’arresto di figure di rilievo, tra cui l’arcivescovo di Monreale Benedetto D’Acquisto (nella foto). Era stato nominato arcivescovo di Monreale il 23 dicembre 1858 da papa Pio IX, trovandosi a governare l’arcidiocesi in un periodo di grande turbolenza politica. Subito dopo il suo insediamento, dovette affrontare la rivolta di Monreale del 1860, l’arrivo delle truppe garibaldine e la fine della monarchia borbonica. Con la nascita del Regno d’Italia, si distinse versando una somma di denaro per sostenere la Guardia Civica, guadagnandosi l’onore di una commenda all’Ordine Mauriziano da parte di Vittorio Emanuele II. Durante la Rivolta del Sette e Mezzo del 1866, D’Acquisto fu nominato presidente del Comitato insurrezionale di Monreale, con il compito di mantenere l’ordine pubblico, ma la rivolta si diffuse rapidamente e colpì duramente la provincia di Palermo. Nonostante i suoi sforzi, D’Acquisto fu arrestato e accusato dal generale Raffaele Cadorna di aver incoraggiato la ribellione. Venne imprigionato per circa un mese. Liberato e beneficiando di un’amnistia nel febbraio 1867, D’Acquisto riprese la sua missione pastorale a Monreale, continuando a servire la sua comunità nonostante le difficoltà politiche del tempo. I tribunali militari inflissero condanne a morte, oltre a una lunga serie di ergastoli e lavori forzati. Inoltre, vennero disciolti numerosi conventi e centinaia di frati furono mandati al confino.

La narrazione falsata e l’oblio

Nonostante il coraggio e la determinazione dei rivoltosi, la rivolta del Sette e Mezzo venne presto cancellata dai libri di storia. Le cronache dell’epoca, spesso allineate con la propaganda sabauda, dipinsero i rivoltosi come “briganti sanguinari”. Il generale Cadorna contribuì attivamente a questa narrazione, inventando persino storie di cannibalismo tra i cittadini di Misilmeri, nel tentativo di delegittimare il movimento popolare. Per decenni, questa pagina della storia siciliana rimase nell’oblio, fino a quando, nel 1954, lo storico Paolo Alatri iniziò a fare luce su questi eventi nel suo libro “Lotte politiche in Sicilia 1866-1874”.

La Rivolta del Sette e Mezzo non fu un semplice atto di ribellione. Fu un movimento democratico, repubblicano e autonomista che anticipò, per molti versi, eventi simili, come la Comune di Parigi del 1870. Eppure, mentre la Comune è celebrata nei libri di storia, la Rivolta del Sette e Mezzo è stata volutamente dimenticata.

La Rivolta del Sette e Mezzo rappresenta uno dei capitoli più drammatici della storia siciliana post-unitaria, una testimonianza della lotta di un popolo contro un sistema ingiusto e oppressivo. La sua memoria è stata oscurata, ma il suo significato rimane: un simbolo della resistenza siciliana contro le ingiustizie sociali e politiche che continuarono a caratterizzare l’Italia del XIX secolo.

Mentre Palermo veniva messa a ferro e fuoco, un sentimento di ribellione pervadeva non solo la Sicilia, ma tutto il Meridione, che visse con amaro disincanto il tradimento delle speranze risorgimentali. La rivolta non fu solo un episodio isolato, ma parte di una lunga tradizione di lotte per l’autodeterminazione e la giustizia sociale, che risuona ancora oggi.

Cambia impostazioni privacy
Torna in alto