Lo scrittore e letterato palermitano Enrico Onufrio (1858-1885) attraverso il suo libro “La Conca d’Oro. Guida pratica di Palermo”, edito nel 1882, pubblicato dai “Fratelli Treves Editori”, pur non dettagliando la descrizione storico-monumentale della sua città, riuscì a raccontarne mirabilmente i fasti, arricchendola altresì di particolari descrittivi, legati agli usi ed alle tradizioni popolari (non ultimo menzionando la ricorrente manifestazione carnascialesca, un tempo in auge nel capoluogo siciliano).
Ad un certo punto della sua opera, l’Onufrio esordisce: «…O viaggiatore fornito di poesia e di quattrini, amante delle cose belle e delle cose grandi, curioso indagatore della fisionomia d’un popolo, io ho fatto di tutto per contentarti…».
Ho avuto modo di imbattermi nella ristampa dell’opera ottocentesca dell’Onufrio (Edizioni e Ristampe Siciliane S.p.A – Palermo 1976), quasi per caso: durante le mie ricerche storiche sulla “Società del Carnovale” di Termini Imerese e la correlazione con l’altra benemerita palermitana “Società del Carnevale” (1).
Infatti, sfogliando la sua “Conca d’Oro, si apprende che l’autore, nella seconda parte del libro, al capitolo XII, intitolato “Il Carnevale”, in riferimento al popolare personaggio carnascialesco di Palermo, U’ “Nannu”, così scriveva e concludeva: «…Trent’anni fa egli moriva di risate; adesso se ne muore di noia. Povero nannu!». La curiosa testimonianza di Onufrio, inerente al personaggio carnevalesco del “Nannu”, pur nella sua essenzialità è di fondamentale importanza, perché comprova che, sin dal 1852, fu presente a Palermo, la sola maschera del “Nannu”.
Questa circostanza è singolare visto che successivamente, l’arzillo vecchietto, durante la cerimonia di apertura del Carnevale, che si svolgeva lungo il Corso Vittorio Emanuele, ebbe come alter ego femminile la maschera della “Nanna”. Dal libro di Onufrio emerge anche un altro particolare inedito: la maschera del “Nannu”, almeno sino al 1882 veniva totalmente distrutta mediante un complesso cerimoniale che culminava nel rogo e rinnovata ogni anno.
Il rogo della maschera del “Nannu”, avvenimento che aveva luogo in pieno centro storico, probabilmente non era altro che un retaggio di un antico rito pagano. In realtà, dal capitolo appositamente dedicato al carnevale, si deduce che trenta anni prima (1852), quando l’autore ancora non era nato, ma poteva averlo appreso dai racconti paterni, la manifestazione carnascialesca, era in auge.
L’usanza di praticare la popolare sfilata culminava nel rituale rogo del “Nannu”, e si svolgeva ai “Quattro Cantoni di Vigliena”, ovvero ai “Quattro Canti” dell’ottagono Villena. Al di là della sua schietta opinione circa l’uso di festeggiare in passato il Carnevale nel capoluogo, peraltro in una Palermo a quell’epoca oramai inserita in una realtà molto diversa del “tempo che fu”, ritengo opportuno proporre ai lettori dei brevi cenni biografici di Enrico Onufrio e il testo integrale del suddetto capitolo.
CENNI BIOGRAFICI. Il palermitano Enrico Onufrio, fu giornalista, scrittore e poeta. Nonostante la sua breve, ma intensa vita (si spense a soli 27 anni a Monte S. Giuliano, oggi comune di Erice in provincia di Trapani), riuscì a dare prova della sua capacità di scrittore, affermandosi nel campo letterario, in un contesto intellettuale, quello milanese di allora, dilagante di movimenti artistici e culturali come, la Scapigliatura, il Verismo e il Decadentismo. Il giornalista Enrico Onufrio, dopo aver pubblicato svariati saggi su diversi periodici, in particolar modo sulla “Nuova Antologia”, e “L’Avvenire” di Sardegna, si trasferì a Milano nel 1877, dove diresse con l’editore e giornalista Angelo Sommaruga, il periodico “La Farfalla” e l’anno successivo, militò tra le file garibaldine come corrispondente di guerra nella campagna dell’Erzegovina.
Dopo la parentesi milanese, Onufrio ritornò a Palermo, dove nel 1882 conseguì la laurea in Giurisprudenza e tre anni dopo ottenne la libera docenza in Letteratura italiana. Ampia fu la sua produzione letteraria, tra le sue principali opere ricordiamo (2): “Le formule del bello e dell’arte” (1877), “Barbarie” (1877), “Momenti”, versi (1878), “Metrica e poesia” (1878), “La spugna d’Apelle” novelle (1882), La conca d’Oro. Guida pratica di Palermo (1882), “La morte di Francesco Pecora”, “L’adultera del Cielo”, racconti in «Capitan Fracassa» (1883), “Il sentimento della natura nel Poliziano” (1884) e “L’ultimo borghese”, Giornale di Sicilia (1885).
“LA CONCA D’ORO”, CAPITOLO XII. Il capitolo XII del volume di Onufrio, così riporta testualmente:
«Il carnevale è morto, in Palermo come in tutta Italia, quantunque delle società di giovanotti spensierati faccian di tutto per agitarne ancora gli allegri sonagliuzzi, e provocare le sue pazze risate a scadenza fissa. Il carnevale dunque è diventato un’istituzione come tante altre; e anche qui come altrove abbiamo una Società del carnevale, che pubblica ogni anno il suo bravo programma, dove promette un’infinità di veglioni, qualche corso di fiori, delle feste popolari che riescono fragorosamente noiose, e finalmente la cremazione del Nannu ai Quattro Cantoni, l’ultimo giorno delle feste, a mezzanotte. Non parliamo, per carità dei soliti veglioni eleganti; e assai più preferibile una festa di ballo sulla Neva, con venti gradi sotto zero riuscirebbe certo più animata e più gaia, Dall’altro canto i veglioni al Politeama non sono certo un divertimento.
Ivi il popolino accorre in ran folla, e sente anch’esso il bisogno di appiccicarsi una maschera al viso e di fare baldoria. Abbondano sempre i soliti spagnuoli, le solite oche, e i soliti paladini; che sono i costumi che vanno più a sangue alla nostra plebe: il primo, perché, nonostante i colori non sempre vivaci del velluto, dà sempre a chi lo indossa una cert’aria di gran signore…. A spasso; il secondo, quello dell’oca, perché con una gonnella e un tovagliolo è presto fatto, e incontra quindi le simpatie di coloro che non hanno da spendere cinque lire dal rigattiere; l’ultimo, quello dei paladini, è molto in voga, perché quella corazza di cartone inargentata dà un’aria marziale e truculenta, precisamente come ai pupattoli dei teatrini da marionette. Più sopra ho accennato alla cremazione del Nannu.
Ma chi è mai questo Nannu? Come c’entra il nonno col carnevale? Procurerò di darvene un’idea. Trasportiamoci con la mente ai giorni in cui le feste carnevalesche stanno per finire. E’ allora che ‘u nannu, poveromo, si trova in fin di vita. Egli si è già rassegnato all’idea della morte; ha intinto la penna d’oca nel suo vecchio calamaio di corno, e ha scritto il suo bravo testamento; indi ha chiamato intorno a sé i suoi nipotini, e questi, come uno sciame di folletti, hanno inavaso la sua stanza, son saltati sulle sue ginocchia, hanno frugato le tasche del suo immenso soprabito, si sono afferrati al suo lungo codino come a un battaglio di campana. E ‘u nannu ha lasciato fare, buono, sorridente, allegro.
Egli non ha paura della morte, ma le va incontro come uno stoico dei tempi antichi. Bisogna vederlo con quel suo faccione di cuor contento, e quei suoi occhietti brilli, e quella sua pappagorgia che gli pende come un tovagliolo di carne; egli muore schiattando di salute, mentre enormi ruote di salsiccia arrostiscono allegramente sul focolare, e chicche e confetti gli piovono a nembi nelle ampie saccocce, e il biondo vino spumeggia nei calici.
Eppure, le sue ore sono contate; eppure mentre egli s’apparecchia a crepare d’indigestione, s’odono gli alti lamenti di coloro che piangono la sua prossima fine. No, non esagero, Per i vicoletti, per i chiassuoli echeggia come un funebre schiamazzo: sono urli grotteschi e rauche grida di donnicciole avvinazzate, che, dinanzi agli usci dei loro tuguri, con le braccia distese e le chiome scarmigliate, levano alti clamori. – ‘U nannu sta murennum ‘u nannu! – è questo il grido che esse mandano col lugubre accento di megere incollerite, e si agitano, si dibattono, strappansi i capelli, bizzarre prefiche [donne che piangono a pagamento nei funerali, N.d.R.] del carnevale che agonizza.
Poiché questo nannu che muore pieno di salute e d’allegria, circondato di salsiccia odorosa e di nipoti birichini, altro non è che il carnevale, vale a dire il chiasso, la baldoria, il festino a scadenza fissa. Donde sia nata questa figura di vecchio buontempone, questa grottesca leggenda di uomo che muore a furia di scorpacciate, non saprei, né il popolo si cura di saperlo. Esso sa che ‘u nannu è l’allegria; sicché mangia e beve con lui, il vecchio piacevolone, che biascica le litanie con un rosario di salsiccia, e si asperge la fronte con l’acqua santa delle cantine.
E intanto ‘u nannu tira le calze. Il popolo, ubbriaco [sic] e satollo, fa ressa intorno alla sua bara, e manda in frantumi l’ultimo bicchiere di vino, che inonda la stanza di rosse lacrime di dolore…. ‘U nannu murìu, ‘u nannu! Povero vecchio dovranno scorrere dodici mesi perché esso ritorni un’altra volta. I fanciulli sono più miti nel dare sfogo all’angoscia.
Essi si contentano di fare, a furia di stracci e di bambagia, un uomo grande al naturale, coi suoi bravi stivali, e il lungo soprabito, e i guanti, e la cravatta, e tutto; gli appiccicano al capo la maschera allegra e rubiconda del nannu, e messolo in una poltrona, lo tengono esposto in una stanza l’ultimo giorno di carnevale. Povero uomo! Egli passò una notte d’inferno: che colica! Che dolori! Che strazio! Adesso è morto, e i nipotini gli saltano intorno, e gli tirano il codino, e gli si pongono a sedere sulle ginocchia, facendogli mille moine, e accarezzando le sue guance pienotte di cartapesta. Fuori, intanto, il carnevale agonizza.
I cortili, i chiassuoli, i vicoletti echeggiano di alti lamenti e di pazze grida. Muriu ‘u nannu, muriu! E le donnicciole, ballando danze sfrenate, urlano e imprecano quasi fossero invasate dagli spiriti; e dopo una giornata di orgia faticosa, la plebe va a letto, ebbra e sonnolenta. Il nonno è morto, e con lui finisce la baldoria.
Domani è quaresima. La Società del carnevale si è servita di questa strana e caratteristica tradizione per affermarla ufficialmente e con pompa solenne. Fa intervenire il nannu ai veglioni, alle mascherate, a tutte le feste del carnevale; e infine, l’ultimo giorno, dopo averlo condotto in giro su e giù per il Corso, a mezzanotte lo fa fermare ai Quattro Cantoni dove ha luogo il rogo del nannu. Si dà fuoco al carro processionale, che avvampa come una pira, e il famoso pupattolo si dilegua anch’esso in un nembo di scintille.
Il popolino urla e schiamazza intorno all’idolo carnevalesco, e la testa del nannu, che è una bomba bella e buona, scoppia fragorosamente, trasformandosi in una pioggia di faville d’oro. E’ una funzione che, vista una volta, può divertire; ma che, ripetendosi tutti gli anni, comincia oramai ad annoiare. Non sentite che ‘u nannu muriu? Sì, il carnevale è morto, e ogni anno esso si leva dalla sua fossa stanco e imbronciato, e vi ritorna frettolosamente, come colui a cui è grato il sonno. Povero vecchio, non andate più a seccarlo. Egli è stufo di salsiccia, di confetture, di pasticcini, di tutto e di tutti. Trent’anni fa egli moriva di risate; adesso se ne muore di noia. Povero nannu!»
(1) G. Longo, 2016 – “Le Società carnascialesche di Palermo e di Termini Imerese”, Cefalunews.
(2) R. La Duca, “Introduzione”, in E. Onufrio, “La Conca d’Oro”, ristampa anastatica dell’edizione del 1882 (Treves, Milano, 1882), Edizioni e Ristampe Siciliane S.p.A., Palermo, 1976.
Giuseppe Longo
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