Marianna Gussio: la prima donna medico di Cefalù. Ecco la sua storia

Marianna Gussio nasce il 2 febbraio 1904 a Cefalù, figlia di Salvatore Gussio e di Maria Di Stefano, in una Sicilia ancora rurale e profondamente legata alla tradizione, dove le donne sono destinate per lo più alla cura della casa e della famiglia. Fin dalla nascita, è immersa in un mondo fatto di austerità, valori forti e sacrifici quotidiani, in una società ancora rigida ma in lenta trasformazione. La sua figura si staglia, nel tempo, come quella di una pioniera silenziosa, una donna che sceglie di vivere per la medicina, in un secolo — il Novecento — segnato da guerre, epidemie e lotte per l’emancipazione femminile. Marianna non è solo una delle prime donne medico della sua generazione: è, con altissima probabilità, la prima donna medico di Cefalù, un primato che la colloca tra le figure più importanti e simboliche della storia sanitaria e culturale della città. Pneumologa e pediatra, fa della scienza e della cura la ragione profonda della sua esistenza, diventando un punto di riferimento umano e professionale per centinaia di malati, soprattutto poveri, che affollano la sua casa paterna e i reparti ospedalieri in cui opera.

La sua storia, silenziosa e intensa, è una testimonianza straordinaria di cosa significhi servire il prossimo con dedizione assoluta. Primogenita di otto fratelli, cresce all’interno di una famiglia numerosa e coesa, ma segnata anche da eventi tragici che contribuiscono a forgiare il suo carattere. I fratelli si chiamano Salvatore, Letizia, Lina, Annetta, Antonio — che diventerà un tipografo noto nella storica via Vittorio Emanuele di Cefalù — Domenico, che perderà la vita durante la guerra a Gorizia, e Maria, morta prematuramente all’età di quindici anni. In questo ambiente affettivo ricco ma attraversato da lutti e fatiche, Marianna sviluppa fin da bambina un forte senso di responsabilità e una precoce sensibilità per la fragilità della vita. A quindici anni, un evento drammatico segna profondamente il suo cammino: cade da un albero e si frattura la schiena, riportando una deformazione permanente che compromette la postura. Da quel giorno, vive con la schiena inclinata, e con essa anche uno sguardo più profondo e raccolto sul mondo. La malformazione diventa per lei simbolo silenzioso di resilienza, di consapevolezza e di empatia verso chi soffre, che la accompagnerà per sempre, anche nel suo modo di essere medico.

La sua adolescenza e la sua formazione si svolgono in un’Italia profondamente segnata dalla storia. Marianna nasce quando il Regno d’Italia ha solo quarantatré anni. Ha dodici anni quando scoppia la Prima Guerra Mondiale. Vive gli anni del fascismo, le due guerre mondiali, il dopoguerra, la povertà e le epidemie. In Sicilia, le condizioni sociali sono ancora estremamente difficili: il livello d’istruzione femminile è bassissimo, la sanità è precaria, e le disuguaglianze tra classi sono abissali. In questo contesto, compie una scelta rivoluzionaria per una donna della sua epoca e del suo luogo d’origine: studia. Dopo aver frequentato le scuole medie a Palermo, città che offre orizzonti più ampi, si iscrive — e si laurea — alla Facoltà di Medicina. È un traguardo eccezionale, che richiede non solo intelligenza e passione, ma soprattutto coraggio e tenacia. Sfidando i pregiudizi di un’epoca in cui le donne medico sono viste con diffidenza, Marianna si apre una strada tutta sua, silenziosa ma tenace, destinata a cambiare il volto della medicina nel suo territorio.

Inizia a esercitare presso l’Ospedale Buccheri La Ferla di Palermo — oggi noto come Fatebenefratelli — dove si specializza in pneumologia, una disciplina particolarmente centrale in quegli anni. Le malattie respiratorie, in particolare la tubercolosi, mietono vittime ogni giorno, soprattutto tra le classi più disagiate. La guerra e la miseria aggravano la diffusione del contagio, e l’accesso alle cure è spesso impossibile per chi vive ai margini. Marianna, con umiltà e determinazione, si dedica anima e corpo a questi pazienti. Lavora anche presso la struttura sanitaria dello Spasimo, un antico complesso monastico convertito in sanatorio per i malati di TBC. I suoi turni sono duri, le condizioni spesso al limite dell’umano: reparti freddi, scarsità di strumenti, una continua esposizione al contagio.

Eppure, Marianna resiste, cura, ascolta. I suoi gesti sono discreti, il suo sguardo sempre attento. Non esiste gesto che non sia misurato, non esiste paziente che venga trattato con superficialità.
Quando torna a Cefalù, nella casa paterna di Capo Plaia, continua a esercitare la medicina, in modo ancor più diretto e generoso. Nonostante la postura deformata e la scelta di una vita riservata — esce solo all’alba o al tramonto, quasi per non attirare l’attenzione — tutta Cefalù la conosce e la rispetta. Quando lei arriva, spesso in silenzio, si apre la speranza: Marianna è la dottoressa che non chiede compensi, che visita gratuitamente chi non può permettersi nemmeno il viaggio in città. Cura adulti, ma soprattutto bambini. I genitori portano i piccoli da lei come se fosse un miracolo quotidiano. La sua casa si trasforma in un luogo di guarigione e conforto, una sorta di presidio medico popolare ante litteram, dove scienza e umanità si incontrano. A Cefalù, in quegli anni, Marianna rappresenta più di una figura professionale: è una presenza rassicurante, quasi materna, e per molti versi sacra.

È proprio in questo impegno quotidiano, nascosto agli occhi del mondo, che si manifesta la grandezza della sua missione. Marianna non cerca mai visibilità. Non partecipa alla vita mondana, non si concede all’applauso. La sua forza è nella coerenza, nella perseveranza, nel silenzioso eroismo di chi cura senza clamore. La medicina per lei non è una carriera, ma una vocazione. Non si sposa, non ha figli, e forse proprio per questo riesce a riversare tutto il suo affetto, la sua attenzione, la sua cura su ogni persona che incontra. I suoi legami sono con la sua città, con i suoi malati, con il mondo fragile che ha scelto di servire. Le persone che la ricordano parlano di lei con gratitudine e rispetto, ma anche con commozione. Perché Marianna non guarisce solo i corpi: solleva, consola, comprende. È una presenza che resta nel cuore.

Rimane ad operare a Palermo fino alla fine dei suoi giorni. Muore il 3 aprile 1972, all’età di 69 anni, dopo una vita trascorsa interamente tra corsie, visite domiciliari e ore interminabili al capezzale dei malati. La sua morte avviene senza clamore, proprio come ha vissuto. Ma l’assenza lascia un vuoto profondo in chi l’ha conosciuta. Non ci sono targhe, statue o strade a lei intitolate — non ancora — ma nella memoria di Cefalù, Marianna vive ancora oggi come un modello di integrità, umanità e sacrificio. Il suo ricordo si trasmette nei racconti familiari, nei nomi sussurrati a bassa voce quando si parla di “quella dottoressa buona che non si faceva pagare”.

Marianna Gussio rappresenta, oggi come allora, un esempio straordinario di umanità, intelligenza, coraggio e altruismo. In un tempo in cui essere donna significava spesso restare ai margini, lei sceglie la strada della cura, del sapere, dell’azione. La sua figura emerge come quella di una testimone silenziosa di un’epoca difficile, ma anche di un’anima grande, capace di cambiare il destino di chi soffre, un paziente alla volta. Per Cefalù, è molto più di una dottoressa: è una custode della dignità umana, una presenza discreta ma fondamentale, che ha reso la medicina una missione di amore e servizio. E in ogni respiro salvato, c’è ancora oggi un po’ del suo.

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