· La nona e la decima meditazione di don Tolentino de Mendonça ·Due icone come segno degli esercizi spirituali: da una parte «le beatitudini», che «sono l’autoritratto di Gesù più esatto e affascinante», tanto che possiamo «contemplare i lineamenti, i tratti del suo volto»; dall’altra la constatazione che «la cosa nel mondo più simile agli occhi di Dio sono gli occhi di una madre». È con questi due suggerimenti di riflessione che don José Tolentino de Mendonça ha concluso, oggi, venerdì mattina 23 febbraio, la decima e ultima meditazione proposta al Papa e alla Curia romana, nella casa Divin Maestro ad Ariccia.
«Le beatitudini — ha affermato — sono più di una legge: rappresentano di per sé un audace marcatore di identità» e «disegnano un’arte di essere qui e ora», illuminando «il cammino ecclesiale e umano molto concreto che percorriamo» e additando «l’orizzonte di pienezza escatologica verso cui convergiamo». Gesù, ha rilanciato il predicatore, «lo riconosciamo povero in spirito, mite e misericordioso, assetato e uomo di pace, affamato di giustizia e con la capacità di accogliere tutti». Del resto, «quello che ci salva è un eccesso di amore, un dono che va al di là di ogni misura».
La questione è «che ne abbiamo fatto del Vangelo delle beatitudini», ha insistito il sacerdote. Ormani, ha constatato, «è talmente facile creare barriere anziché ponti e innalzare, per separarci gli uni dagli altri, la grande e tremenda barriera dell’indifferenza». Ma la Chiesa, ha messo in guardia, «non è un club esclusivo e ristretto, è un ospedale da campo e deve stare al fronte». La Chiesa «è più vitale quando è in uscita, deve tenere le porte aperte». Perché «non basta un cristianesimo di sopravvivenza o manutenzione». E «credente non è chi è sazio di Dio, ma chi ha sete e fame di Dio».
Oltretutto il cristianesimo è concretezza, ha fatto presente il predicatore. E per questo ha proposto la testimonianza di Maria, che ci insegna «l’ospitalità della vita», l’«onestà» e la capacità di «superare l’autoreferenzialità» per «un servizio più grande». Invece «noi ce ne stiamo così blindati che persino un angelo di Dio faticherebbe a incontrarci». Di più: senza Maria la Chiesa rischia di «disumanizzarsi», diventando «funzionalistica, una febbrile fabbrica incapace di sosta». Perciò, ha concluso, bisognerebbe imparare dall’atteggiamento delle proprie mamme.
L’invito a saper «ascoltare la sete delle periferie» è stato, invece, il punto centrale della nona meditazione che don Tolentino de Mendonça ha proposto nel pomeriggio di giovedì 22. «La periferia — ha detto — è nel dna cristiano, lo avvicina al suo contesto originario ma anche al suo programma». E soprattutto «è una chiave indispensabile per la sua ermeneutica spirituale ed esistenziale». Così la periferia «in tutte le epoche rimarrà, per l’esperienza cristiana, il luogo privilegiato dove incontrare e reincontrare Gesù». Del resto, «Gesù stesso è un uomo periferico»: egli «non era cittadino romano, non apparteneva al primo mondo dell’epoca, né faceva parte dell’élite giudaica. Nacque a Betlemme, nei recessi ultra periferici in cui i pastori portano gli animali, non in città. E Nazaret è talmente insignificante da non essere nominata in alcun versetto dell’Antico testamento».
Ma «è proprio quell’improbabile Galilea a divenire luogo preferenziale dell’annuncio del regno».
Per il sacerdote, il cristianesimo è per sua natura una «realtà periferica». E difatti oggi «la vitalità del progetto cristiano si gioca nelle periferie», anche se «lì spesso non c’è neppure la presenza di una chiesa in muratura e tutto è più precario, rarefatto o appena abbozzato». Per la Chiesa, libera da pregiudizi, «la periferia non è un problema, è un orizzonte».
«La Chiesa ha bisogno di uscire da sé stessa e di scoprire un nuovo ardore missionario», perché «soltanto uscendo da sé stessa può riscoprirsi». Quindi, ha fatto presente il predicatore, «la scelta dell’incontro con le periferie non è unicamente un imperativo della carità: è una mobilitazione storica e geografica che consente l’incontro con ciò che il cristianesimo è stato e con ciò che esso è». Con una constatazione: oggi «le periferie sono sotto-rappresentate in termini ecclesiali». Oltretutto «anche le periferie della Chiesa hanno sete», quella «di essere ascoltate».
«La Chiesa del XXI secolo sarà sicuramente più periferica — ha affermato il sacerdote — e ci sfiderà a riscoprire che le periferie non sono un vuoto del religioso, ma i nuovi indirizzi di Dio. Questo però comporta una conversione del nostro cuore e del nostro sguardo». Via «le pantofole», dunque, per indossare le scarpe giuste per uscire nelle strade. Perché, ha spiegato, «una Chiesa che si rinchiude in un centro non sente più la sete delle periferie e diventa autoreferenziale, s’incurva su se stessa e si ammala. E gran parte delle patologie che colpiscono le istituzioni ecclesiali hanno radice in questa autoreferenzialità che è un tipo di narcisismo teologico».
Di qui il richiamo a quanto avvertiva san Giovanni Crisostomo, e cioè che la Chiesa deve evitare il «terribile scisma»: quello «che separa il sacramento dell’altare dal sacramento del fratello, quello che pericolosamente dissocia il sacramento dell’Eucaristia dal sacramento del povero». E occorre saper «ascoltare e trattare gli altri con amore», come ha testimoniato Benedetto XVI nel dialogo con gli astronauti nel maggio 2011.
Le periferie esistenziali, tuttavia, «non sono solo economiche». Esse, infatti, «non sono solo luoghi fisici, sono anche punti interni della nostra esistenza, sono luoghi dell’anima che hanno bisogno di essere pascolati». Senza però dimenticare, appunto, che «la sete delle periferie è anche fisica». C’è chi «lotta per la sopravvivenza» e «a tanta parte della popolazione mondiale è negato il diritto inalienabile all’accesso all’acqua potabile sicura»: è un fatto che «moltitudini di assetati popolano oggi le periferie del mondo nei cinque continenti». (L’Osservatore Romano)