Il Papa ha dedicato il suo ultimo messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali ai pericoli inerenti alla diffusione sistematica delle false notizie (fake news) e dei cosiddetti fatti alternativi (alternative facts) nei media digitali. Come è stato dimostrato da un articolo sul «New York Times» del 7 marzo (For Two Months, I Got My News From Print Newspapers. Here’s What I Learned, “Per due mesi ho preso le mie notizie dai quotidiani stampati. Ecco cosa ho imparato”), i nuovi media portano con sé una tale capacità di distorsione delle notizie che molti temono un fallimento informativo catastrofico, la infopocalypse di cui ha scritto il «Washington Post» del 22 febbraio (What’s Worse than Fake News? The Distortion of Reality Itself, “Cos’è peggio delle false notizie? La deformazione della realtà stessa”). Indicando che il «miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone», il Pontefice ha chiarito un punto essenziale: le cause più profonde di questo raccapricciante fenomeno di natura tecnologica sono di matrice filosofico-antropologica.
Questa intuizione ha trovato conferma nell’ultimo numero (settembre-dicembre) del periodico «Comunicazioni Sociali», dedicato al «rifacimento della verità nell’era digitale» (The Remaking of Truth in the Digital Age, Vita e Pensiero). I contributi scientifici raccolti nel volume fanno luce sulle motivazioni che spingono tanti utenti delle reti sociali a cedere alla tentazione di perpetuare le bufale più stravaganti. Le ragioni di tale comportamento sarebbero riconducibili a una delle caratteristiche più tipiche della post-modernità, definita dal filosofo Jean-François Lyotard (1924-1998) e secondo la quale, sulla scia del principio nietzschiano, «non esistono fatti, ma solo interpretazioni», fornendo molteplici meccanismi non solo di perpetuazione della menzogna, ma anche di auto-convincimento della veridicità di avvenimenti e di concetti oggettivamente infondati ma facilmente collocabili all’interno di specifici alveari ideologici.
Un’ulteriore prova del legame fra pensiero post-moderno e cultura delle post-verità (post-truth) è offerta dal best seller, che figura nella classifica del «New York Times», Everybody Lies. Big Data, New Data and What the Internet Can Tell us about Who We Really Are (“Tutti mentono. Big data, new data e quello che Internet ci può insegnare su chi siamo veramente”). Nel libro, un esperto analista dei dati che ha lavorato a Google, ha indagato in modo innovativo nei trilioni di byte prodotti dagli utenti di internet, utilizzati come strumento di analisi sociale. L’enorme quantità di dati (big data) raccolti e esaminati è stata usata per condurre analisi predittive (gli studi statistici capaci di anticipare eventi e comportamenti futuri a partire da quelli passati) in ambiti economici, sociali, religiosi e politici.
Le conclusioni di Seth Stephens-Davidowitz sono spietate e richiamano quelle di Blaise Pascal: L’homme n’est donc qu’un mensonge et hypocrisie (…) et en soi-même et à l’égard des autres (“L’uomo non è dunque che menzogna e ipocrisia […] all’interno di sé e nei confronti degli altri”, Pensées, 785). L’uomo post-moderno mente su tutto e mente a tutti, persino a se stesso. Ingabbiato dai dettati del politicamente corretto, è preda di tendenze oscure — inganno, odio, sopraffazione — che emergono vistosamente dal big data, che svela cosa egli voglia veramente e quello che faccia realmente, non cosa subdolamente affermi di volere o abilmente proclami di fare.
Spiegando l’essenza della parresia — la franchezza su cui spesso insiste il Papa — l’influente sociologo Michel Foucault (1926-1984) precisava che si trattava di un’attività comunicativa nella quale un individuo sceglie «la verità e non la menzogna o il silenzio; il rischio della morte al posto della vita e della sicurezza; della critica piuttosto che della lusinga; del dovere morale piuttosto che dell’interesse proprio e dell’apatia». Tristemente, fake news e big data sono indici correlati dell’incapacità dell’uomo post-moderno di stabilire un rapporto limpido e liberatorio con la verità.
Fonte: L’Osservatore Romano, di Carlo Maria Polvani