‘La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’, Paolo Borsellino
Quando nel tardo pomeriggio del 19 luglio del 1992 la tivù trasmise le prime immagini della strage di via d’Amelio sembrava di essere in una zona di guerra come c’è ne sono ancora tante nel mondo, invece eravamo a Palermo, in un quartiere che si trova nel cuore della città. Erano le 16:58 di una calda giornata estiva ed una bomba pronta ad esplodere era stata nascosta in una Fiat 126 rossa parcheggiata proprio accanto all’ingresso dello stabile dove si trova la residenza della madre del giudice Paolo Borsellino.
Fu attimo, solo un attimo ed una forte esplosione echeggiò per le strade della città. Il pensiero di molti corse al Giudice e alla sua scorta. Una notizia che nessuno avrebbe voluto sentire, ma che in tanti temevano potesse arrivare da un giorno all’altro. Fumo, fiamme, pompieri che andavano e venivano, militari, curiosi, l’asfalto bagnato dagli idranti e tanta confusione. Le auto sventrate dall’esplosione stavano bruciando e, anche se attraverso lo schermo l’odore non si poteva sentire, chi stava guardando potè immaginare l’orrore che i primi soccorritori devono aver provato davanti a tale scempio di corpi e di vite. Duecento chili di tritolo erano deflagrati e sei eroi, sei servitori dello Stato italiano, non c’erano più. Oltre al Giudice, sull’asfalto rimasero i corpi di Agostino Catalano, Emanuela Loi (la prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e l’unico sopravvissuto l’agente Antonino Vullo.
Perché nessuno aveva provveduto a far sgomberare le auto parcheggiate in quella strada? Tutti sapevano che prima o poi Paolo Borsellino sarebbe andato in via d’Amelio a trovare la madre, tutti sapevano che sarebbe passato da quel portone. I mafiosi conoscevano le sue abitudini. ‘Pi stuppagghiari’ è stato relativamente facile organizzare l’attentato. Ma i funzionari addetti alla sicurezza del Giudice come facevano a non sapere e se sapevano perché non hanno provveduto allo sgombero? Paolo Borsellino era nel mirino da anni e lo era ancora di più dopo l’assassinio di Giovanni Falcone. Era chiaro a tutti che ‘i corleonesi’ avrebbero continuato nelle loro stragi e nell’attacco allo Stato. Le condanne definitive inflitte agli esponenti della Cupola con il maxiprocesso mettevano in pericolo l’incolumità di quanti avevano operato con professionalità e senso del dovere nell’istruire e nel portare a conclusione e con successo quel processo.
Oggi sappiamo che ci furono dei depistaggi, che l’attentato non fu opera solo dei mafiosi, che il Giudice dava fastidio e come spesso, troppo spesso è successo in questo triste ed ingiusto Paese, c’è sempre qualcuno che traffica e trama ai danni del popolo italiano e di chi, ligio al dovere e con un innato senso della giustizia, non si piega e non rinuncia alla propria libertà e dignità, proprio come fecero Paolo Borsellino e Giovanni Falcone’. Due eroi siciliani che erano abituati ‘a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’ a cui, purtroppo, in tanti continuano ad adeguarsi ed adattarsi.
Fonti: centrostudiborsellino.it e wikipedia.org