Lui è Pierpaolo Occorso. E’ un giovane medico di Petralia Sottana che da anni è impegnato in varie missioni all’estero. Da alcune ore sulla pagina Facebook racconta la sua esperienza di vita accanto a chi soffre nel mondo. «Sono orgogliosamente siciliano. Amo la mia terra, anche con tutte le sue contraddizioni. Sono cresciuto nella zona delle Madonie, in un piccolo paese dell’entroterra, in provincia di Palermo. E proprio a Palermo, una volta finite le scuole superiori, mi sono iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia. Erano gli inizi degli anni Novanta…in quegli anni nasceva anche Emergency». In quegli anni Pierpaolo comincia a collaborare con una piccola associazione siciliana. Prima destinazione: Chiapas, in Messico, durante la rivoluzione zapatista. »È lì che ho conosciuto Stefania, la donna di cui sono innamorato, e dove ho scoperto che anche la medicina, in situazioni di crisi, può “fare resistenza”. Ne ero così convinto che una volta tornato in Sicilia ho deciso di iscrivermi a Medicina. Poi sono ripartito per il Messico, per la specialità in pediatria. In America Latina io e Stefania abbiamo trascorso 17 anni della nostra vita. Lì è nata anche nostra figlia, Sofia».
Piarpaolo spiega che vivere in missione con la propria famiglia è come vivere una “missione dentro la missione”. Nel 2014 arriva l’epidemia di Ebola in Sierre Leone. «Io e Stefania volevamo impegnarci in qualcosa di concreto. Siamo partiti, di nuovo, questa volta con Emergency. Prima io come pediatra, poi lei come logista di farmacia. Davanti a noi, uno dei virus più letali mai registrati. Un’epidemia terribile e una sfida enorme. Ci chiamavano “Ebola fighters”, i “combattenti di Ebola”. Durante l’emergenza noi non ce ne siamo mai andati. In quel periodo visitammo migliaia di bambini, alcuni colpiti da grave malnutrizione. Le loro storie mi sembra di ricordarle tutte, ma ce n’è una in particolare che mi colpì. Lo chiamavamo tutti “il poeta” ma il suo vero nome era Mohamed. Aveva 11 anni e, quando lo abbiamo visto per la prima volta in Pronto soccorso, pesava meno di 20 chili. Uno scheletro che camminava. Sdraiato sulla barella, appena ci vide disse: “Non date la colpa a mia madre per come sono, lei ha fatto ogni sforzo.” Era così piccolo… ma così saggio e consapevole. Era un bambino, ma parlava del dolore in maniera così grande. Morì una domenica mattina, con il sorriso sulle labbra. Non me lo dimenticherò mai».
In questi giorni Pierpaolo si trova in Afghanistan, ad Anabah, dove segue i bambini in ogni fase della cura. «Lo facciamo perché la vulnerabilità di ognuno è la vulnerabilità di tutta la società, e va protetta. Quando muore un bambino, si disintegra la possibilità di una famiglia. Si mutila un pezzo di futuro. E quando muore una madre, si disintegra il nucleo della famiglia. Perdiamo tutti. Cerco di trasmettere questo ai nostri colleghi, agli studenti che vogliono imparare… a tutti. Dall’infermiere in sala al cleaner che si occupa di tenere pulito ogni spazio dell’ospedale. Lo faccio cercando di superare le barriere, le prime timidezze e quando incrocio lo sguardo delle madri. In quel momento capisco di avercela fatta. Lo capisco quando anche i nuovi pazienti e i loro familiari cominciano a chiamarmi nel modo in cui mi conoscono qui: Pierpaolo, “il dottore magro”».